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L’evidenza scientifica in medicina, l’uso pragmatico della verità

Conversazione tra Eugenio Santoro e Ivan Cavicchi

Presentazione

Non c’è alcun dubbio che con la pandemia la categoria dell’evidenza  scientifica è uscita dagli ambiti dell’epistemologia per estendersi a quelli ben più impegnativi della politica.

Mai come in questo periodo politica e epistemologia sono state chiamate  a collaborare tanto strettamente.

La politica  subordina le sue decisioni che limitano le libertà individuali alla evidenza scientifica nel senso che essa giustifica scelte anche pesanti come il lock down, l’istituzione delle zone rosse, le restrizioni sociali, attraverso le evidenze.

E’ la scienza che guida la politica. Cioè le evidenze sono usate per giustificare le scelte  politiche.

In realtà non è sempre così. Per esempio la decisione di sospendere la campagna vaccinale  non è stata presa sulla base delle evidenze scientifica  ma sulla base probabilmente di altri  ragionamenti. Al punto che tale sospensione alla fine è apparsa  a tutti noi gratuita inutile e ingiustificata ma soprattutto dannosa.

La politica si avvale delle “evidenze scientifiche” ma essa ha a che fare  con le “rilevanze sociali”,  cioè un altro genere di evidenze, il difficile è accordare le prime con le seconde. Spesso le seconde  inducono la politica a non seguire le evidenze scientifiche, o a interpretarle in un certo modo, o a usarle in modo parziale. Un esempio è la controversa questione della chiusura delle scuole.

Ma a parte i problemi di armonizzazione delle evidenze scientifiche con le  rilevanze sociali la maggior parte di noi ignora che le evidenze scientifiche  non sono quello che sembrano cioè verità apodittiche, assolute, dogmatiche , ma sono in realtà verità molto problematiche che vanno usate non  in modo pedissequo ma in modo “intelligente”.

Per cui la questione politica si complica  nel senso che non è detto che le evidenze scientifiche siano ancoraggi  così certi come si crede. Di certo non sono verità meccanicamente trasferibili nella realtà.

Questo è il senso che viene fuori da un libro di grandissimo interesse  scritto dal mio amico Ivan Cavicchi per conto di nexus edizioni, che sta incontrando nell’ambito medico e più complessivamente sanitario un grande interesse , e che rompe le uova nel paniere a coloro  come le EBM (evidence based medicine)  convinti con le evidenze di avere a disposizioni verità granitiche e incontrovertibili e di aver fatto addirittura una svolta paradigmatica.

Il titolo del libro è “Le evidenze scientifiche in medicina ,l’uso pragmatico della verità”( nexus edizioni).

Con Ivan Cavicchi nella veste di esperto di politiche sanitarie di recente abbiamo pubblicato su Mondo.info  e sul magazine dedicato alla medicina una conversazione  in occasione di un suo pamphlet appena uscito “La sinistra e la sanità da Bindi a Speranza con in mezzo una pandemia” (Castelvecchi editore).

Ciò non deve sorprendere nessuno, sono anni  direi da sempre che Ivan Cavicchi porta avanti due passioni quella politica e quella filosofica che poi corrisponde a quella dell’operatore di sanità, del sindacalista  di sanità, a e a quella del professore  universitario. Probabilmente la  caratteristica  dell’originalità  del  suo pensiero è proprio quella di  mettere insieme l’expertise del il lavoratore e la riflessione del filosofo

Quindi  nel caso del libro sull’evidenza lui parla in un’altra veste che è quella dell’epistemologo, vale a dire di colui che dopo aver lavorato anni in ospedale insegna  alla facoltà di medicina di Tor Vergata,  “Logica e filosofia della scienza”.

Ivan Cavicchi a differenza di tutti gli altri ha sempre sostenuto che quando si parla di salute  i mondi da considerare sono in realtà due, la sanità che è il “contenitore”  che organizza servizi e la medicina che è il “contenuto” che organizza le prassi degli operatori. Nello stesso tempo egli ha sempre considerato un errore politico quello  fatto nel 78 di pensare ad una riforma della sanità senza pensare contestualmente ad una riforma della medicina. Per cui egli sono anni che lavora su un doppio terreno: quello che riguarda il ripensamento riformatore della sanità e quello che riguarda il ripensamento  riformatore della medicina. Il libro pubblicato di recente sull’evidenza in medicina   viene buon ultimo di una lunga serie di pubblicazioni tutte volte al ripensamento della nostra medicina convenzionale.

L’idea che ci è venuta, proprio in piena pandemia, è di ragionare con Ivan Cavicchi di evidenza scientifica approfittando della sua disponibilità, con lo scopo di capirne meglio le logiche, le possibilità, i limiti, i problemi  del suo uso.

Ivan tu come  epistemologo ti occupi, da quello che so, di evidenza da molti anni, ma come ti è venuto in mente di metterti a studiare l’evidenza come problema?

La prima volta che sentii parlare di ebm (evidence based medicine) ormai molti anni fa, ricordo che mi venne subito alla mente un dubbio: come mai  il dibattito filosofico sulla scienza di tutto il 900, soprattutto quello post positivista, ha sancito la crisi delle verità a priori, di quelle dogmatiche, di quelle basate su prove inconfutabili, e quindi riabilitando di fatto il valore del dubbio, dell’incertezza, della verisimiglianza, della ragionevolezza, del relativo, e la medicina, al contrario, nonostante tutto, andando quasi controcorrente, sente la necessità di dotarsi di una verità che pretende di essere vicino all’assoluto?

Sulla base di questo dubbio cominciai a studiare la letteratura sull’ebm per rendermi conto, da epistemologo della medicina, in che cosa consistesse questo concetto di evidenza o di prova, cioè per capire con quale genere di verità si avesse a che fare.

E questo primo approccio come andò a finire?

Non mi ci volle molto tempo per rendermi conto che, la medicina scientifica, nel nostro tempo, alle prese con inediti problemi storici (contenzioso legale, errore medico, crescente sfiducia sociale, crisi del ruolo medico, medicina amministrata, ecc) e con una incipiente crisi paradigmatica dovuta semplicemente al cambiamento del mondo, tentava di:

  • reagire, nel tentativo di mantenere le sue storiche posizioni,
  • riorganizzare le proprie conoscenze, dietro l’usbergo delle evidenze, con lo scopo di dotarsi di forti verità
  • diventare sempre più simile ad una scienza esatta e così non solo difendere il proprio prestigio e la propria affidabilità ma addirittura rilanciare quel potere sul mondo che vacillava.

Cioè tu dici che il recupero delle evidenze 20 anni fa circa  era in qualche  modo anche  un tentativo per rilegittimare la medicina

In un certo senso si. Era in qualche modo un tentavo di rispondere con le evidenze alla sfida dei cambiamenti, quindi di rispondere non solo a delle necessità  epistemiche  legate alla conoscenza , che sono naturalmente innegabili, ma anche di rispondere a problemi politici  legati alle sempre più evidenti difficoltà di rapporto della medicina  con una società in cambiamento.

Ad una domanda sociale di certezze quindi  ad una domanda sociale di una medicina senza errori, che  la nostra società esprimeva la medicina rispondeva con la ricerca non di nuove verità perché l’evidenza in medicina è sempre esistita, ma con verità ritenute più vere di altre perché statistiche. Sapendo io bene che  le verità scientifiche definite su base statistica in medicina  non  sono così scontate come si crede, fin dall’inizio tuttavia ho pensato che probabilmente, la medicina, facendo dell’ebm praticamente il mezzo principale per rilanciare il proprio vecchio paradigma positivista, non faceva altro che creare le condizioni per un nuovo conflitto, quello per altro già descritto dai filosofi greci tra episteme e doxa, cioè tra la scienza e la società, La statistica in medicina come dimostra la pandemia è utile  quindi l’epidemiologia è fondamentale  ma essa si presta  ad esser disconfermata  ad ogni piè sospinto da un alto grado di complessità dell’impresa medica.

Nel tuo libro  tu fai continuamente riferimento  alla crisi del paradigma medico  a quale crisi ti riferisci?

Per risponderti come si deve  prima di ogni cosa dovremmo metterci d’accordo su cosa è un paradigma. Ognuno di noi lo intende in modo diverso e la maggior parte prende in prestito il concetto di paradigma da Khun quello delle rivoluzioni scientifiche  che però lo usa per le scienze normali quando per me la medicina non è una scienza normale.

La medicina come la fisica,  è una scienza della natura ma a differenza della fisica si occupa di persone non solo di atomi.  A me  piace definire la medicina una scienza impareggiabile, cioè con un grado di complessità enorme unico. È la complessità dell’uomo che rende la medicina una scienza impareggiabile.

Ciò detto , intendendo il paradigma come una sorta di statuto della medicina  che prescrive  le norme alle quali la  scienza deve attenersi, la crisi paradigmatica della medicina  per me non è solo un suo fatto interno cioè una questione epistemica ma è soprattutto un fatto esterno  soprattutto antropologico economico culturale,  e con il quale  la medicina deve fare i conti. Da un bel po  la scienza, applicata alla medicina, suo malgrado sta perdendo la sua storica autonomia o se si preferisce la sua storica autoreferenzialità, costretta come è a fare i conti, con tante cose che pretendono per la prima volta ascolto e attenzione ma soprattutto cambiamento

Mi fai qualche esempio di cambiamenti esterni?

Primo fra tutti l’affermazione dei diritti delle persone ad essere, anche in medicina, trattati come persone, cioè la nascita del welfare

Il declino di concezioni quali quelle di malattia e di cura che  per la prima volta si emancipano da vecchi retaggi antropologici, quelli che, in qualche modo, vedevano all’individuo malato come colui che espiava con la malattia, una colpa originaria,

Il passaggio  questo si davvero paradigmatico dalla malattia al malato, cioè l’imporsi della figura “dell’esigente” e il declino di quella storica del “paziente”

Il malato che diventa un soggetto innocente cioè diventa colui che con la malattia subisce comunque una forma di ingiustizia trasformando il problema della salute in un problema politico

La malattia che  antropologicamente inizia ad essere imputabile a fattori extra individuali: l’ambiente, il lavoro, le diseguaglianze, gli stili di vita, cioè l’affermarsi di  nuovi determinanti .

La diffusione delle conoscenze dovuta alla tecnologia informatica, cioè la perdita graduale, da parte della medicina, della conoscenza esclusiva.

E tante altre cose che per brevità non rammento.

Insomma tu dici che  i cambiamenti con i quali la medicina deve fare i conti sono tanti ma torniamo alle  evidenze…

Il ritenere di poter rispondere a tutti questi cambiamenti  con l’evidenza cioè con una verità indiscutibile quindi restando dentro un certo paradigma alla fine  si è dimostrato  una vera ingenuità, nel senso che, per quello che sta accadendo nel mondo, è impossibile che una verità possa essere indiscutibile e non solo per limiti epistemici ma solo perché nel mondo cresce il ruolo e il peso di chi oltre i medici ha titolo per discuterla. Cioè si sta affermando un nuovo protagonista politico: il malato.

Una verità, in medicina, è indiscutibile non tanto perché è in quanto tale indiscutibile ma solo se non esiste un contraddittorio. Cioè se il paziente fa il paziente e niente di più.

Con una medicina paternalista e un malato “paziente”, ogni verità medica, per quanto incerta e probabile, diventa di fatto indiscutibile, ma nel momento in cui il paternalismo medico va in crisi e il malato diventa un soggetto politico attivo, un esigente, ogni verità medica risulta  discutibile. Oggi viviamo il tempo delle verità intersoggettive e la medicina non è abituata a questo genere di verità.

Ma a parte questo è una ingenuità politica tentare di tappare la bocca  al nuovo malato con l’evidenza

Quindi per te  a parte i risvolti epistemologici l’ebm  è un tentativo di “tappare la bocca” al nuovo malato e quindi di difendere il potere di conoscenza della medicina?

Difronte quindi ai grandi cambiamenti antropologici, culturali, politici del mondo dal punto di vista strettamente epistemico l’operazione di fondo che la medicina, attraverso soprattutto l’ebm, tenta di fare a partire dagli anni 90 in poi, è sostanzialmente quella molto ben descritta da Lakatos, con la sua teoria dei “programmi di ricerca”, e cioè di proteggere il nucleo del paradigma classico proteggendolo con delle ipotesi ausiliarie. La scoperta si fa per dire dell’evidenza è una ipotesi ausiliara per difendere un paradigma dato.

Ma questo lo dico a coloro che considerano l’ebm come una rivoluzione  è tutt’altro che una rivoluzione: con l’ebm  il paradigma resta invariato o meglio il suo nucleo portante non viene mai ridiscusso, ma solo aggiornato con la stessa logica con la quale una casa viene rimbiancata ma per appigionarla meglio.

Ma tutti o quasi pensano che l’ebm sia un cambio di paradigma

Pur senza negare i meriti che l’ebm ha, non sono d’accordo.

La logica di fondo dell’ebm, che ricordo è fondamentalmente metodologica, in quanto usa il metodo come prova inconfutabile di verità, preesiste nel paradigma positivista a partire da Claude Bernard in poi , per arrivare fino al circolo di Vienna del 1922 e quindi ai nostri giorni. Cioè l’ebm è del tutto compatibile con il paradigma positivista che trova, ma in nessun caso rappresenta un suo qualche atto di riforma. L’ ebm al contrario è una forma di positivismo esasperato. L’esasperazione viene dall’impiego delle astrazioni statistiche. L’ebm si basa sulle astrazioni statistiche. La famosa meta analisi dalla quale ricava i suoi responsi o i suoi verdetti è una metanalisi di astrazioni statistiche.

Questa è una bella novità e anche una interpretazione in qualche modo sorprendente

Ma è così. L’ebm non inventa il metodo ma lo riduce ad astrazione statistica. Rispetto al paradigma positivista della medicina di fatto l’evidenza come ho detto poco fa ha la funzione dell’ipotesi ausiliaria di cui parla Lakatos.

L’ebm emerge all’attenzione degli addetti ai lavori, in mezzo a tante altre ipotesi ausiliarie, tentate e andate male in questi ultimi 30 anni cioè dopo tante “mode” che alla fine dei conti si sono rivelate, rispetto ai problemi del paradigma, piuttosto inconcludenti. Mi riferisco prima fra tutti alle medical humanities, alla medicina narrativa, alla medicina di qualità, alla medicina di precisione, a choosing wisely , quindi alle teorie less is more (slow medicine) ecc che, si badi bene, sono , ciascuna di esse, tutte interessanti ipotesi ausiliarie  che aiutano il vecchio paradigma a tirare avanti e tentano di risolvere singoli problemi concreti, ma che, in nessun caso, sono in grado di rimuovere le contraddizioni interne al paradigma  cioè sono in grado di riformarlo. La vera novità rappresentata dall’ebm è quella che a suo tempo definii il “commensurabilismo” cioè l’ingresso massiccio della statistica e quindi dell’information technology con la segreta intenzione, mai apertamente confessata, di usare l’epidemiologia per guidare la clinica cioè per darle la massima esattezza matematica quindi di matematizzare la clinica. Anche questa del commensurabilismo , a ben vedere, rispetto alla medicina non è proprio una novità, nel senso che prima dell’ebm erano già secoli che si tentava, a partire da Cartesio, medico e filosofo, di usare la matematica per dare certezze ad ogni genere di verità. La vera differenza è che  Cartesio  non aveva il computer l’ebm si.

20 anni fa tu  cominci a pensare alla evidenza e scrivi “la medicina della scelta” nella quale un intero capitolo è dedicato all’evidenza. Se non ricordo male questo capitolo non fu accolto molto bene dai sostenitori dell’ebm. O sbaglio?

Non non sbagli . Per il solo fatto di aver  osato studiare l’evidenza da un punto di vista epistemico fui considerato un eretico e comunque uno contro la scienza, la buona economia, la sanità pubblica. Oggi dopo 20 anni  e lo dimostra la buona accoglienza che ha avuto il mio libro sull’evidenza si può discutere senza pregiudizi e senza tabù. Però 20 anni sono tanti. Ma i tempi di metabolizzazione del cambiamento da parte della medicina  sono lenti. C’è poco da fare. Bisogna essere pazienti e ostinati. Poi alla lunga il tempo è galantuomo e se hai ragione ti dirà che hai ragione.

Già nel titolo, “medicina della scelta” era ben delineata la tensione e quindi il conflitto che, secondo me, a proposito di ebm, si sarebbe presto creato tra medicina e società, tra verità scientifica e opinione personale, tra metodo e complessità ecc.E così è avvenuto

L’ebm abolisce la scelta mentre in clinica la scelta è fondamentale. L’ebm prescrive al medico cosa fare ma il medico ha il problema delle verità intersoggettive  e spesso deve navigare a vista.

Tensione addirittura? A quale conflitto ti riferisci?

Molto semplicemente quello che, almeno secondo me sarebbe sorto inevitabilmente tra necessità e libertà, tra obbligazione e scelta, tra scienza e società tar verità e persone. Tra medici e malati. 

Mi spiego meglio: nel concetto di evidenza è insito in modo indissolubile quello di necessità. Se x allora necessariamente y.

Se è vero che esiste questa malattia allora è necessario che tanto il medico che il malato obbediscano alla sua evidenza. Le evidenze, per loro natura, sono tanto performative che imperative, cioè ti prescrivono cosa bisogna fare (“evidenze prescrittive”).

Quando l’ebm si affermò io pensavo che la sua forte prescrittività avrebbe finito per urtare contro molte cose a parte contro le complessità epistemiche legate non alla malattia ma al malato, ma soprattutto contro il valore dell’autodeterminazione della persona, contro i suoi diritti ad avere una propria opinione, contro le loro complessità, ma soprattutto contro le loro irriducibili singolarità.

Cioè io pensavo che l’evidenza cioè la matematica applicata alla clinica una volta difronte alle complessità biologiche politiche e culturale del nostro tempo avrebbe visto i sorci verdi cioè avrebbe avuto filo da torcere. E così è stato e così è ancora.

In che modo la complessità di cui tu parli da alla evidenza del filo da torcere?

L’evidenza è una verità standard che funziona con la logica induttiva, cioè una volta decisa viene generalizzata a tutti nello stesso modo, anche se questi tutti sono in realtà delle singolarità, cioè sono individui tra loro diversi. La clinica al contrario cerca verità ad personam e funziona con una logica deduttiva cioè deduce le proprie verità dal singolo caso. Per ovvie ragioni la logica induttiva rischia di non essere valida per un mucchio di persone e quindi rischia di essere disconfermata dalla realtà. Questo è l’inconveniente tecnico dell’ebm, quello politico e che essa prescrive ciò che la persona oggi a partire dai suoi diritti vorrebbe in realtà poter scegliere. Ripeto con l’ebm mentre la verità diventa algoritmica la scelta si contrae.

Nel tuo libro spesso  sottolinei che  in questo ultimo mezzo secolo è sparito il “paziente” cioè è cambiata la figura del malato

Si è vero. La cosa più notevole che ha minato e sta minando il paradigma classico della medicina  e che si è registrato  a partire dal secondo dopo guerra, il superamento della figura sociale del paziente. Mentre prima il paziente era perfettamente omologo al concetto di evidenza oggi l’esigente è del tutto difforme dalle logiche commensurabiliste con le quali le evidenze sono definite.

La grande differenza tra il “paziente” e “l’esigente” è che il primo anche se lo ammazzi non ti porta in tribunale il secondo basta il minimo errore o il minimo problema che ti denuncia.

Ne deriva che, mentre oggi la persona e la società, alla medicina chiedono a gran voce, la possibilità di co-decidere quindi chiedono delle relazioni di consensualità, l’evidenza per come è concepita, nella pratica quotidiana, tende a eliminare la necessità delle relazioni e quindi ad espropriare il cittadino del suo diritto a co-decidere la cura. Cioè con l’ebm c’è inevitabilmente un ritorno al vecchio paternalismo anzi il paternalismo vira verso forme subdole di autoritarismo scientista proprio nel momento in cui la storica delega alla medicina da parte della società, non dico che viene ritirata, perché sarebbe esagerato, ma vien fortemente condizionata. Cioè non è più una delega in bianco.

Vorrei ricordare che, non molto tempo fa, in Italia è stata approvata una legge (L229 22 12 2017) dove nell’art 1 si obbliga il medico a sottoporre a consenso informato ogni tipo di trattamento medico.

Mi fa  piacere che tu citi questa legge. Essa è la miglior dimostrazione della fine del paziente. I pazienti si affidano al medico gli esigenti pretendono il consenso informato e oggi di decidere le cure che li riguardano.

Quando pubblicai  “la medicina della scelta” ,cioè quando esposi la tesi che l’ebm non doveva farsi soverchie illusioni perché  in nessun caso in questa società(non in un’altra)  l’evidenza poteva sopprimere la “scelta” e che la “scelta” per ovvie ragioni avrebbe dovuto basarsi su un nuovo genere di relazioni tra il medico e il malato,  cioè tra la verità scientifica (episteme) e l’opinione personale del malato (doxa), i sostenitori dell’ebm come tu ricordavi prima  non la presero bene, nel senso che l’idea di verità forte che loro avevano in testa in realtà puntava a mantenere  i malati nella condizione di  pazienti. Le cose sono andate storte  nonostante le evidenze il contenzioso legale è continuato a salire. La pretesa dell’ebm di far regredire con forti verità statistiche  l’esigente a paziente mettendo in dietro le lancette dell’orologio si è dimostrata del tutto sbagliata.

Ma come si è passati dall’esaltazione dell’evidenze alla sua problematizzazione?

Per comprendere a fondo i delicati rapporti tra verità scientifica e opinione personale del malato, quindi tra “verità di ragione” e “verità di fatto”, tanto per citare Leibniz, e per comprendere davvero l’importanza delle relazioni tra medico e malato come conoscenza quindi come valore epistemico, ci sono voluti molti anni.

In questi anni per primi i geriatri e quindi i medici internisti e più in generale i clinici,  capirono due cose semplici:

  • che nei loro ambulatori  e nei loro ospedali avevano a che fare sempre di più con quello che loro per primi definirono il “malato complesso” (anziano, cronico, poli-patologico ecc)
  • che difronte al malato complesso le evidenze non funzionano mai bene o non funzionano per niente

Piano piano in medicina si fece strada, a partire dai medici, cioè da coloro che in trincea avevano a che fare con i malati reali, una nuova consapevolezza della complessità grazie alla quale le mie preoccupazioni, quelle di 20 fa, risultarono tutte fondate.

Insomma dopo tanti anni per te arriva  finalmente  il momento di scrivere “l’evidenza scientifica in medicina, l’uso pragmatico della verità”

Già. Proprio così. In questi anni la clinica è come se fosse tornata ad Ippocrate, cioè la clinica sulla propria pelle alle prese con le disconferme dell’ebm, si è resa conto che se avesse accettato di essere semplicemente eterodiretta dall’epidemiologia sarebbe stata l’epidemiologia e non la clinica a curare le persone e che questo per le persone non sarebbe stato per niente un vantaggio.

La statistica sta alla clinica esattamente come un numero sta alla complessità dell’universo.

D’accordo ma nel frattempo l’evidenza  a differenza di Cartesio come tu stesso hai detto, oggi  ha dalla sua la tecnologia informatica

Hai ragione senza tecnologia informatica l Ebm non avrebbe avuto il successo mondiale che ha avuto.

L’ebm è come se avesse stabilito un patto di sangue con la tecnologia informatica e sempre con lo scopo di ridurre il potere di influenza della clinica. Gli algoritmi nascono dalla matematizzazione del procedimento clinico.

Ma il paradigma classico senza clinica cioè con gli algoritmi, verso i quali personalmente  non ho pregiudizi, finisce per tirarsi la zappa sui piedi e cioè per non essere più ippocratica. Una medicina senza clinica vale come una medicina senza medici e una medicina senza medici non è più una medicina o almeno non è più una medicina ippocratica.

Ripeto non ho nulla contro la matematica e contro gli algoritmi  alla solo condizione che il medico non sia riducibile a sua volta come a una trivial machine.

Da quel che mi risulta, il tuo libro “l’evidenza scientifica in medicina  l’uso pragmatico della verità”  è il primo lavoro, che ragiona in modo analitico approfondito e circostanziato sui delicati problemi epistemici e sociali che sempre si accompagnano in medicina, all’uso pratico delle evidenze. E’ così?

Penso di si. Credo che il mio sia il primo lavoro  che studia l’evidenza in medicina dal punto di vista non clinico ma epistemologico.

L’evidenza oggi è una “nozione chiave” che, è entrata negli ordinamenti universitari e che quindi fa parte della base formativa dei medici,  e che fino ad ora, è stata proposta sostanzialmente come una verità operativa di indiscutibile valore, alla quale:
– subordinare qualsiasi scelta clinica,
– adeguare le famose “condotte professionali”, quindi le prassi.

Il mio libro si limita a dire che dal punto di vista epistemologico  subordinare o guidare  le prassi mediche alle evidenze non solo non è facile e con qualche problema ma sicuramente per il malato non è un affare.

Quindi alla fine tu sei contro l’uso delle evidenze in medicina?

Calma non esageriamo. A scanso di equivoci, sia subito chiaro, che, pur con tutti i difetti e le aporie epistemiche  senza evidenze scientifiche: non si avrebbe una medicina scientifica, i medici e gli altri operatori, come nei secoli che furono, brancolerebbero nel buio e nell’incertezza rischiando di commettere errori a non finire,i malati sarebbero curati peggio e per di più rischierebbero maggiormente la pelle,in questa società, alla fine nessuno si fiderebbe di noi e della nostra medicina scientifica.

Quindi, sul valore paradigmatico dell’evidenza scientifica, come verità operazionale e come principale espressione della scienza medica, non si discute.

E su cosa discutere allora ?

Quello che, in particolare oggi, si dovrebbe invece “doverosamente” discutere ma, secondo me, non si fa o si fa poco e male, è decidere:
– di che razza di verità si tratta,
– di come dovrebbe essere usata o non usata,
– della sua grande complessità epistemica, e quindi degli inconvenienti che essa comporta,
– dei suoi usi e dei suoi abusi, dal momento che attraverso le evidenze , si sospendono persifino le libertà personali, si blocca il mondo, si decidono le possibilità di sopravvivenza dei malati, di fare o di non fare, quindi a proposito di denaro pubblico, di spendere o non spendere.
Le evidenze scientifiche,  alle quali la medicina non può rinunciare  hanno comunque il potere di vita e di morte di un Dio, potere, che, se usato male, se frainteso, se fallibile, o se impiegato in modo fazioso, poco saggio, o usato in modo ideologico, cioè in modo scientista, può fare disastri.

In sostanza, in medicina, “l’evidenza scientifica”, proprio perché come dici tu è una complessa questione epistemica, alla fine diventa  soprattutto una primaria questione morale e quindi politica. Ma a parte ciò mi spieghi per te cosa è l’evidenza scientifica

E’ molte cose, ma essenzialmente tre:
– è una “verità convenzionale”, decisa da una comunità scientifica, seguendo un certo metodo sulla base delle conoscenze scientifiche  disponibili, necessariamente “standard” quindi estensibile, per induzione, con tutti i pregi e i difetti di questo genere di operazioni;
 
– è una “verità paraconsistente” cioè che può essere, a seconda dei casi e alla prova dei fatti, tutto e il contrario di tutto (vera o falsa, sia vera che falsa, né vera e né falsa, ecc.);
 
– è, o meglio dovrebbe essere, una relazione transitiva tra una “verità di ragione” e una “verità di fatto”, tra la medicina il medico e il malato, tra la scienza e la politica, tra la scienza e la società.

Interessante nessuno sino ad ora ha mai osato definire l’evidenza una verità paraconsistente. Immagino che l’università abbia qualche imbarazzo . Ma secondo te chi è il principale nemico o avversario dell’evidenza?

Nel mondo della scienza, medicina compresa, il grande avversario dell’evidenza  è la singolarità, nel nostro caso del malato, nel caso degli astrofisici dell’universo, la stessa che, nelle famose scienze esatte, (ricordo che la medicina non è ne una scienza esatta ne una scienza normale) ha indotto matematici, cosmologi, fisici, astronomi, chimici, a sostituire la nozione di “legge naturale” con quella di “costante naturale”  che, altro non è, se non una sorta di “regolarità statistica”, accettando, ob torto collo,  l’idea che una “costante”, è tale, fino a quando non incontra una singolarità a confutarla.
 
Se è vero, come scrive John D. Barrow (autorevolissimo astrofisico) che persino la legge di gravità di Newton in certi casi (singolarità) non è vera, cioè non è una legge, è impossibile che, in medicina, le verità convenzionali, pensate su certe “costanti” patologiche, siano inconfutabili alla luce delle infinite singolarità dei malati.
 
Per definizione ogni malato è singolare.
 “Tutte le leggi di natura cesseranno di esistere in una singolarità” . Ha scritto  in modo assai perentorio Barrow. “Tutte” vuol dire nessuna esclusa.

Ma questo significa che se cadono le leggi della natura o meglio se quelle che chiamiamo leggi della natura  non sono così tanto assolute allora cade la pretesa dell’evidenza di essere a sua volta una verità assoluta

Mi dispiace di darti questa delusione che per un chirurgo quale tu sei  significa quasi un lutto inelaborabile, (scherzo naturalmente) ma non solo in medicina ma in tutto il mondo della natura, è così.

Le evidenze scientifiche, in medicina, esattamente come nell’universo, nel mondo sub atomico delle particelle, non dovrebbero mai essere considerate verità assolute o apodittiche ma, al contrario, verità relative a tutti quei fattori, individui, condizioni, contesti, contingenze che le possono compulsare.
 
Se ciò non fosse, la medicina, ma più in generale la scienza, sarebbe, pura metafisica e l’evidenza, esattamente come ci propone certa ebm, semplicemente una verità matematica assoluta.

Ma scusa anche se lo fosse io chiedo che male c’è? A noi medici avere delle belle verità assolute farebbe un gran comodo

Lo so e lo capisco ed ho sempre pensato che sotto sotto l’ebm avesse questa ambizione cioè fornire al medico delle solide verità.
 
Le evidenze diventano un problema   proprio quando si considerano:
– le evidenze scientifiche delle verità metafisiche
– le malattie come dei fenomeni naturali governati da leggi che non variano alle prese con l’immensa singolarità anche biologica con cui sono in relazione.

Quindi ti rispondo: se le evidenze fossero effettivamente verità assolute non ci sarebbe niente di male e i medici sbaglierebbero di meno ma  purtroppo non lo sono.

Ma a questo punto mi chiedo “Che fare”? Come usare in medicina le evidenze scientifiche ? E, nello stesso tempo, come fare i conti con le infinite singolarità delle persone dei contesti, delle situazioni?

La mia proposta è nel sottotitolo del mio libro: “uso pragmatico delle verità”.

Non si tratta di rinunciare alle evidenze ma di formare un nuovo genere di medico  che io definisco pragmatico  cioè un medico in grado  di usare  le evidenze non in modo convenzionale.

Gli ultimi due capitoli del mio libro (5/6) rispettivamente “pragmatica dell’evidenza” e “il medico pragmatico”, spiegano:
– il cambiamento paradigmatico necessario che serve per avere una medicina meno convenzionale e più pragmatica
– come deve essere un medico, o un qualsiasi altro operatore, per essere pragmatico e come andrebbe formato.
 
Ci sono tanti modi, per essere pragmatici, ma che l’università ignora  e che in epistemologia  definiamo “esclusione dell’assurdo”
“accettabilità razionale”  “ottimalità epistemica ” “plausibilità ecc.

Si può essere pragmatici e rigorosi cioè si puà navigare a vista senza essere arbitrari. E’ l’arbitrarietà che con la scienza non va d’accordo.

Questo dell’uso pragmatico delle evidenze mi sembra un punto cruciale. Mi spieghi meglio

Volentieri. Nel libro (pag 222) descrivo i principali presupposti della medicina pragmatica riassumendoli in 10 principi sintetici.
Tra questi i due principali da menzionare sicuramente, sono:
– la complessificazione da parte del medico della classica logica bivalente a due valori (“vero/falso” quindi “malato/sano”) che, in ragione della singolarità, diventa, molto più realista, quindi a tre valori o a più valori (“vero/falso/indecidibile”, quindi “malato/sano/qualcos’altro”). 
– il concetto di “risultato”, ma inteso non come semplice esito (exitus) ma come la conclusione logica di un ragionamento adeguato (non appropriato) alla singolarità del malato, di cui il medico è responsabile, cioè il principale “autore”.

Il “risultato” ben oltre le tradizionali “competenze”, nell’approccio pragmatico, diventa funzione del grado di autonomia e di capacità e di abilità intellettuale del medico che, proprio perché ha a che fare con verità paraconsistenti, con logiche polivalenti, con fenomeni singolari, con gradi notevoli di complessità, ecc ha il dovere certo di servirsi di evidenze  ma soprattutto di ragionare  con tutta la sua testa che, per questo, dovrà essere appositamente formata.

Ho notato che tu preferisci il concetto di adeguatezza a quello che ormai fa parte del senso comune e che si definisce appropriatezza . Perché?

Ti rispondo con un paradosso quello appunto della appropriatezza inadeguata. Si può essere appropriati cioè seguire le regole e nello stesso tempo inadeguati cioè seguire regole che non funzionano difronte ad una complessità.

L’adeguatezza vuol dire per un medico essere coerente con un malato. L’appropriatezza vuol dire essere corrispondente con una regola.

La teoria della verità che si basa con la coerenza  per l’appunto è una verità epistemica.

Quello che dici mi sembra molto interessante ma credo implichi un ripensamento neanche tanto marginale del modello di formazione nelle università.

Altrochè . La formazione è la chiave di volta di tutto il mio ragionamento. Oggi questa “pragmatica medica”, purtroppo, non rientra nei programmi di formazione universitaria che restano ancora molto troppo convenzionali e purtroppo ancora troppo nozionisti. Qualcosa di simile alla pia visione pragmatica si trova, nell’esperienza che i medici cumulano in decenni di professione, ma come pura conoscenza empirica soggettiva e personale.

Io sono convinto che quello che  ti hanno insegnato anni di tavolo operatorio e anni di ospedale non coincide sempre con quello che  hai studiato a suo tempo all’università.
Ma perché mai un medico, sulla propria pelle, da solo, nell’interesse del proprio malato, deve aspettare di avere i capelli bianchi, per essere libero di “reinterpretare” necessariamente le conoscenze convenzionali apprese all’università?

Mi colpisce in tutto il tuo discorso che tu scarti la possibilità di migliorare le evidenze cioè di perfezionarle e di rimuoverne i limiti

No io penso che le evidenze si possono sempre migliorare e credo che saranno sempre più migliorate  ma penso anche che le evidenze al riparo dalla singolarità non sono molte quindi è inutile puntare sulla ricerca di una super-evidenza, o romperci la testa con complicati algoritmi, o peggio tornare a Cartesio come fa l’ebm, subordinando la clinica alla matematica, o obbligando i medici a comportarsi come dei “lineaguidari”.

Penso  che rispetto alle evidenze disponibili e a quelle che verranno fuori in futuro ci dobbiamo dare una regolata. Cioè imparare a ragionare di più e meglio.

Quando te ne sei uscito con i “lineaguidari” cioè i proceduralisti quelli che fanno dipendere le scelte cliniche dalle linee guida, i tuoi amici dell’ebm non l’hanno presa bene . Lo hanno considerato un insulto.

Ho capito. Ma non ci posso fare niente. Io non credo al primato vincolante delle linee guida esse dovrebbero restare quelle che sono sempre state ovvero dei suggerimenti, delle indicazioni non vincolanti. Il pretendere di farne delle tavole della legge per me è pericoloso prima di tutto per il bene del malato. Le linee guida con la singolarità come tu sai bene non vanno molto d’accordo.

Molto meglio, per il malato, e per la credibilità della medicina, è puntare:
– su delle belle teste pragmatiche (le “teste ben fatte” di Montaigne poi riprese da Morin),
– su un altro genere di operatore, un autore competente di malattie, di sicuro, ma anche capace di pensare il proprio malato nelle sue singolarità, scommettendo sulla sua autonomia e sulla sua responsabilità.

Autonomia ormai è diventata  la parola magica. I medici da anni chiedono più autonomia

Tutti dicono che, al medico, bisogna dare più autonomia, ma se, in prima istanza, essa non è soprattutto una autonomia intellettuale, a che diavolo serve? Per agire secondo “scienza” l’autonomia serve poco, ma per agire nei confronti della singolarità secondo “coscienza” serve eccome. Formare un medico all’uso delle evidenze non è un problema (non si fa altro) ma formarlo ad avere anche nei confronti delle evidenze una maggiore autonomia intellettuale è un altro paio di maniche.

E’ inutile dire che, se esiste una “questione medica” o se si preferisce una “questione professionale”, chiedendo più autonomia  se l’evidenza scientifica è vista come una verità imperativa e performativa.

Che c’entra l’evidenza con la questione medica?

C’entra e come. Se tu chiedi per il medico più autonomia non puoi pretendere che il medico sia del tutto assoggettato ad evidenze paraconsistenti o paracomplete o al rispetto rigido di un metodo. Se il medico si attiene meccanicamente alle evidenze scientifiche cioè non tiene in nessun conto della singolarità e della complessità del malato di quale autonomia parliamo? L’autonomia ha senso solo se è intellettuale cioè solo se il medico ha effettivamente libertà di giudizio.

Tu hai scritto per la Fnomceo ( (la federazione nazionale che riunisce tutti gli ordini dei medici di Italia) le 100 tesi  per preparare gli stati generali della professione medica e quindi per trovare una risoluzione alla questione medica questione che se non ricordo male fosti proprio tu a denunciare per primo.

Si , sei anni fa pubblicai un e book peraltro gratuito quindi a tutt’oggi scaricabile su Quotidiano sanità.it  che si intitolava proprio la “Questione medica, come uscire dalla palude” .

Le 100 tesi sono scaricabili gratuitamente su Quotidiano sanità.it
 
La “questione professionale”, come si evince falle 100 tesi , non si risolve a tarallucci e vino, cioè a modello di medicina e di sanità invariante, ma riformando soprattutto i principali criteri che guidano con l’evidenza e con il metodo  le prassi o come a me piace dire “l’opera”.

Se le prassi, prima di tutto intellettuali, del medico resteranno invarianti resterà invariante anche l’opera, ma se l’opera non cambia allora a che serve cambiare tutta questa roba? Cioè a che serve riconoscere al medico una autonomia di giudizio?

Tuttavia è innegabile che l’ebm alla medicina quindi la ridefinizione delle evidenze  ha dato alla medicina  una spinta euristica senza precedenti come è indubbio che ormai essa è entrata a far parte della formazione del medico e che è impensabile formare un medico senza ebm. Non vorrei fare l’errore che nel mentre butto via l’acqua sporca butto via anche il bambino

Hai perfettamente ragione. Dobbiamo  trovare dei compromessi e essere tutti ragionevoli. Per me si tratta di fare una mediazione e di usare la mediazione come il primo atto di ripensamento di questo paradigma che per una ragione o per l’altra non sta più in piedi.

Quale mediazione?

Torniamo ai filosofi greci, cioè all’episteme e alla doxa, cioè alla verità scientifica e all’opinione: fino ad ora la doxa in medicina soprattutto recentemente con l’ebm,si è potuta permettere il lusso di ignorare la doxa, anzi di fregarsene, dando luogo come dicevo ad un paternalismo di ritorno che oggi come oggi l’intera società rifiuta. Oggi questo lusso non è più consentito, l’episteme per dire se qualcosa è effettivamente vero, deve mettersi d’accordo con la doxa.

Una evidenza che non funziona a causa della singolarità del malato è teoricamente giusta ma empiricamente sbagliata. Ma se una verità non funziona allora essa non è  una verità.

In medicina le verità che non funzionano fanno male, creano errori, malintesi, scontenti, ingiustizie di ogni tipo, e quindi alimentano le controversie legali che contrappongono i medici ai malati.

Questa è la vera ragione per la quale la questione dell’evidenza non può essere confinata nell’ambito della epistemologia, e in nessun modo può essere considerata come un affair di soli medici.

Questa è la vera ragione perché oggi diversamente da 20 anni fa si può discutere senza passare per eretici dei problemi dell’evidenza.

Di fatto dopo quello che hai detto oggi l’evidenza è diventata malgrado i fautori dell’ebm un problema politico perché in realtà riguarda il cittadino in prima persona.

Hai ragione. Infatti fino a quando essa era un problema solo medico o solo relativo alla conoscenza medica, l’evidenza non è mai stata considerata un problema, la medicina usava quello che aveva a disposizione, e il malato senza colpo ferire, accettava quello che passava il convento.

Oggi questa società vuole verità effettive cioè che funzionano ed ha capito che l’unico modo per far funzionare delle verità tanto complesse  è integrarle con altre verità, quelle soprattutto personali della gente, che  per il fatto di appartenere alla gente cioè di essere opinioni sul piano epistemologico non sono meno verità  di quelle scientifiche, ma semplicemente verità di altra natura.

Mi torna in mente il bel libro di Feyerabend “la scienza in una società libera” (Feltrinelli 1981)

Non nascondo di essere debitore nei confronti di  Feyerabend  a proposito del metodo di tanti suggerimenti.

Ma torniamo  alla mediazione .Se è necessario  mediare serve ovviamente un mediatore e questo, in barba agli attuali ordinamenti giuridici, non può che essere  il medico cioè colui che per forza di cose si trova a dover destreggiarsi tra l’episteme e la doxa tra le evidenze teoriche e il malato reale.

Sembra facile ma anche questo implica un ripensamento di fondo della formazione

Di sicuro non è facile. La cosa dura da digerire è accettare due semplici dati di fatto:

  • il paradigma in essere non è attrezzato per favorire la mediazione tra episteme e doxa per cui è necessario riformarlo
  • il medico che c’è essendo formato con il paradigma in essere non è ancora in grado di garantire una mediazione efficace per cui a sua volta va ripensato

La mediazione di cui abbiamo bisogno, alla fine, se ci riferiamo al paradigma è tra una cosa vecchia e una cosa nuova cioè tra una conoscenza quasi reale, cioè convenzionale e una conoscenza più reale quindi pragmatica.

Mi pare di capire che nel tuo ragionamento vi è la proposta di una svolta

La svolta che io propongo è quella del convenzionalismo che evolve verso il pragmatismo si tratta di passare da un realismo debole che secondo la tradizione positivista è quello della conoscenza basata (based) sui fatti che riguardano la malattia ad un realismo forte che per i pragmatisti è quello dei fatti certo ma anche dei risultati.

Non mi serve a niente essere ortodosso se poi per essere ortodosso non ho risultati. 

Immagino che la svolta che tu proponi dal convenzionalismo al pragmatismo abbia una convenienza di fondo prima di tutto per il malato

Immagini giusto. Oggi, è molto più conveniente per tutti quindi anche per la medicina ma soprattutto per i malati e per i medici battere pragmaticamente la strada dell’adeguatezza e dei risultatì.

Oggi la medicina come dicevo ha seri problemi di fiducia sociale, ci sono ampi strati della popolazione che nella letteratura sono definiti “esitanti” cioè persone che si fidano poco della medicina scientifica e di come essa è oggi epistemicamente organizzata. Cioè costoro esitano di fronte al paradigma non di fronte alla idea di medicina tout court. Del resto, se la medicina non è adeguata alle necessità diverse di chi sta male, come può pensare di riprendersi la fiducia e di sconfiggere la diffidenza sociale nei suoi confronti?

Che dici vogliamo tentare una conclusione?

Giusto per chiudere mi viene da dire che fino ad ora la medicina ha evitato di fare i conti con i bias che esistono tra  il proprio paradigma  e la realtà in cambiamento. La strada delle evidenze senza negare in nessun modo il loro valore epistemico,   i bias paradossalmente li ha  aumentati. Quindi la strada che dovremmo prendere è prendere il toro per le corna  quindi entrare  nella logica quella della riforma  del paradigma cioè ripensare in questo tempo in questo mondo un modo di pensare un modo di conoscere e un modo di fare cioè mettere in campo un vero ripensamento.

Non è facile e non è scontato che ci si riesca ma dopo tanti anni che studio i problemi della medicina non vedo altre possibilità

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Eugenio Santoro

Presidente Fondazione San Camillo- Forlanini - Roma

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