Ipotizziamo che Ilaria sia una lavoratrice fuori sede, senza residenza né iscrizione al sistema sanitario regionale dell’Emilia-Romagna o che Rossella sia una studentessa nella stessa condizione, sul medesimo territorio. Ipotizziamo che Ilaria sia positiva al Covid e richieda assistenza medica mentre Rossella, con sintomi influenzali, voglia fare un test per fugare ogni dubbio di possibile contagio.
La prima, non avendo né residenza né medico curante nella città in cui vive e lavora, entra in un tunnel di non risposte che le impone di rivolgersi a un pronto soccorso. Tutto quello che, in 12 mesi di pandemia, è stato raccomandato di non fare. Ma non ha alternative. Rossella, invece, dopo vari tentativi tra farmacie e ambulatori privati, rinuncia a fare un tampone, sperando di cavarsela con un falso allarme. La risposta che le viene riproposta ogni volta che chiede di prenotare un test, privatamente e a pagamento, è che l’azienda sanitaria ha imposto alla rete di soggetti territoriali di non trattare chi non abbia un medico curante sul posto. Dicono sia per il tracciamento. Come se per tracciare un positivo al Covid, una volta individuato e registrato da un qualsiasi laboratorio di analisi abilitato, faccia fede la sua residenza e non già il luogo in cui si trova in quel dato momento e dove, verosimilmente, andrebbe bloccato e messo in quarantena.
Il risultato è che, a queste condizioni, in regioni a forte mobilità temporanea, per studio o lavoro, un numero non quantificabile di asintomatici o paucisintomatici, non potendo verificare l’eventuale positività, abbia continuato a muoversi e a diffondere il contagio che ora tanto allarma. A meno che l’obiettivo (non dichiarato) non fosse proprio quello di cominciare a fare meno test e individuare, così, meno casi.
Ipotizziamo ancora che Antonella e Roberto siano due docenti rispettivamente in servizio nel Lazio e in Lombardia, ma residenti in Campania. Entrambi, allo stato attuale, per essere vaccinati dovrebbero rientrare nella città di provenienza. Altro paradosso kafkiano dovuto alla “regionalità” della gestione sanitaria (come se non si sapesse, tra l’altro, che molti degli insegnanti in servizio al centro-nord arrivano dal meridione). Si starebbero valutando misure alternative: tacita ammissione dell’idiozia di un sistema così congegnato.
Con una gestione regionale del sistema sanitario è chiaramente impossibile aprire procedure uniche per il cittadino-paziente-utente, a prescindere da dove si trovi in un dato momento a richiedere assistenza medica. Una logica a dir poco anacronistica in un’epoca di elevatissima mobilità. In Italia permangono frontiere burocratico-amministrative che non hanno più alcun senso. Queste storie (tutte vere) lo certificano e raccontano paradossi ancor più odiosi se si considera che a dover essere presi in carico, per vedersi garantito un diritto primario, sono tutti cittadini italiani.
L’alta velocità ha fatto quel che non riesce a fare il sistema istituzionale: ha unificato l’Italia. La facilità con cui lavoratori e studenti si muovono lungo la dorsale appenninica rendono i campanili amministrativi, specie quelli regionali, contenitori insufficienti di pure velleità politiche. La crisi pandemica ha dimostrato chiaramente, non solo l’idiozia (già nota) della burocrazia nostrana, ma anche il suo assetto anacronistico. Un ostacolo ad un’amministrazione efficiente del Paese (vedasi il conflitto perenne in conferenza Stato-Regioni) in grado di rispondere ai bisogni reali delle persone.
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