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L’ingannevole facilità

“Globalizzazione” è la parola che ha avuto più successo (forse prima di COVID) nel corso degli ultimi anni.

Essa è parsa capace di spiegare tutto quel che avveniva ed avverrà. “… E’ la globalizzazione …” dicono con aria pensosa intellettuali e politici di fronte a qualunque novità non prevista.

Viene presentata come una novità assoluta nella storia del mondo, capace di riscriverne (e chissà come) tutte le logiche e le dinamiche.

Per i tremebondi post – comunisti è stata la manna dal cielo. Non potendosi pretendere che il pensiero marxiano la conoscesse, essendosi essa presentata come un immenso meteorite proveniente dal nulla, poteva permettere di abbandonare senza colpe ogni precedente disciplina e punto di vista.

“E’ la globalizzazione, compagni. Cosa possiamo farci?”.

Ma proprio in questa facilità d’uso, e di apparente comprensione, sta la capacità di inganno del concetto e, soprattutto, la scusante per non analizzare a fondo e non assumere valutazioni.

È come trovarsi di fronte a un bugiardino farmaceutico che non pone limiti all’uso e non segnala controindicazioni. Inutile certo, ma quanto gratificante!

Per rimontare anche questa china, occorre anche stavolta partire dall’inizio.

In primo luogo, occorre accettare l’idea che il mondo (e la Storia) della specie umana è sempre stato globale e globalizzato.

In realtà, a ben pensarci, lo sappiamo già da sempre.

Alessandro arrivò in India e trasferì nel Mediterraneo valori e culture dei luoghi.

I vichinghi, nordici ed occidentali come ci appaiono con i loro occhi chiari e le barbe bionde, venivano dall’estremo Oriente e avevano traversato tutto il mondo unificandolo nel loro cammino.

I musulmani che oggi ci vengono raccontati così miserabili e pericolosi hanno, nel corso dei secoli, governato e modellato il nostro attuale mondo garantendogli sviluppo e cultura.

E così via.

La vera novità concettuale del nostro tempo non è la globalizzazione ma piuttosto la mondializzazione dell’economia unita alla finanziarizzazione della stessa.

In altri termini, si è definitivamente infranta la corrispondenza fra gli interessi e le strategie delle strutture economiche con i contesti di appartenenza degli Stati Nazione che le ospitavano e le rappresentavano.

Si tratta, in questo senso sì, di una rivoluzione e di una rivoluzione epocale.

Nel 1648, con la pace di Vestfalia, si definì il principio (oggi apparentemente scontato) della territorializzazione degli Stati.

Vale a dire, della loro definizione sulla base dei confini fissati che venivano di conseguenza difesi come garanzia della esistenza stessa dello Stato.

Ogni modifica degli stessi veniva determinata o attraverso guerre e successive conquiste – acquisizioni o attraverso cessioni (più o meno volontarie) con cui uno Stato poteva cedere ad un altro Stato una porzione del proprio territorio.

Si determinava, con questo processo, la nascita del concetto di Nazione che implicava una appartenenza a quello Stato degli esseri umani presenti sul territorio e delle loro attività: appartenenza linguistica, culturale, ideale ma non solo.

Lo Stato Nazione era dunque portato a difendere gli interessi delle strutture economiche interne allo stesso modo in cui doveva difendere i suoi confini esterni.

Dietro il motto cuius regio, eius religio si situavano, per nulla nascoste ed anzi esplicitamente esibite, corrispondenze profonde e ben materiali che venivano per quanto possibile garantite dalla Istituzione.

Lo sviluppo e la difesa delle intraprese economiche nazionali erano, per definizione, tra i compiti e gli interessi dello Stato.

Una Nazione poteva anche essere scossa da contraddizioni interne estreme ma comunque l’interesse collettivo corrispondeva infine con quello delle aziende interne. Quando questa corrispondenza arrivava a estinguersi, quel particolare Stato era condannato a perire rapidamente.

Su questo ferreo principio si sono fondati la accumulazione originaria, lo sviluppo tecnologico e commerciale, la vasta gamma dei processi di industrializzazione per giungere infine sino al colonialismo, all’imperialismo e alla lotta anche militare per il controllo dei mercati e delle sfere di influenza.

Di fatto tutto, sino a tutto il Novecento.

Ma cosa succede quando gli interessi economici non corrispondono più a quelli territoriale e statuali?

Quando una operazione economica non si fonda più sulla efficacia sul mercato del prodotto, ma si calcola sulle adesioni finanziarie ad un progetto di prodotto?

Quando una azienda perde la sua connotazione sociale, che la lega a una realtà, e la perde anche in termini di interesse di mercato?

Dove finisce l’equilibrio del welfare state per cui un diffuso livello di benessere è una condizione essenziale anche di sviluppo economico?

Il mondo è sempre stato globalizzato, ma la mondializzazione e la finanziarizzazione dell’economia (determinate dallo sviluppo tecnologico) hanno modificato alla base il rapporto Stato – cittadini come si era costruito dal ‘600 ad oggi.

Per questo credo che occorrerebbe smettere di invocare il mantra della globalizzazione.

Il mondo è sempre stato globalizzato e tale resterà finché vi vivranno esseri umani.

Non vi è difesa e non vi è via di fuga.

Il locale, il piccolissimo può probabilmente sopravvivere ma solo in quanto è capace di rinunciare consapevolmente a qualunque identificazione con strategie collettive di tipo statuale.

Lo Stato, comprese in esso le forze politiche e culturali che sono chiamate a guidarlo, dovrebbe essere capace di rinunciare al concetto di territorialità (alleandosi con altri Stati) per tentare di gestire, se non di governare, i processi derivanti dalla avvenuta mondializzazione.

Inevitabilmente in questo processo vacillano e si slabbrano interi sistemi di valori e si disperdono aspettative che storicamente sono state giuste e corrette.

Il recente, e in se stesso ininfluente, episodio del funzionario ministeriale che mette la foto di soldati stranieri sulla commemorazione del Milite Ignoto ha, come ci avrebbe forse ricordato Giorgio Galli, il sapore di una significativa coincidenza.

Sarà un cammino lungo e sgradevole.

Ma, per intanto, smettiamo di solleticare le coscienze con la prospettiva populista della difesa dalla globalizzazione e iniziamo a costruire strumenti culturali e politici atti a difenderci e rappresentarci in questo frangente.

“A su connotu” , tornare al conosciuto invocavano i sardi (pastori e non) dopo la Legge delle Chiudende che istituiva in Sardegna la proprietà privata della terra recintata.

A ricordarci come andò a finire quella rivolta sono rimasti, nella loro asciutta bellezza, i muretti a secco che caratterizzano ancora oggi la mia Isola.

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Beppe Attene

Sardo, 1949, socialista da sempre e per sempre. Buttandosi nella politica professionale ha gettato al vento il suo precedente lavoro (Storia del Pensiero Economico presso Facoltà di Filosofia di Cagliari, come assistente di Paolo Spriano). Uscito dalla politica professionale, è stato Direttore di Cinecittà (Produzione filmica) dall’84 al ’90. Dal ’90 al ’93 è stato Direttore Generale del Luce. Ha compendiato gli anni di politica attiva in un libro intitolato “Politica e società civile, un matrimonio difficile” con prefazione di Riccardo Lombardi. Dopo la apertura della caccia ai socialisti è stato produttore e distributore, con alterne fortune e sfortune, per diversi anni. Quasi senza accorgersene nel 2000 ha vinto un Festival di Cannes. Ha diretto per alcuni anni le Grolle d’Oro di Saint Vincent. È stato giurato in numerosi festival italiani ed internazionali Ha diretto, come autore, un doc su Bruno Mussolini intitolato “Bruno e Gina” e uno intitolato “1945, l’anno che non c’è”. Ha appena pubblicato un libro intitolato “Una lunga catena di unione”. Ha visto momenti peggiori ma anche migliori.

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