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L’Italia incompiuta al tempo del coronavirus

Si dice che nell’emergenza l’uomo dia il meglio o il peggio di sé. È proprio quel che sta confermando l’epidemia di coronavirus. Una comunicazione caotica e roboante ha reso più incerte le azioni di una politica claudicante, che si regge sulle gambe malferme di una continua esitazione. Ma c’è di più. C’è un aspetto sociale di questa emergenza, derubricato a siparietto di italianità, su cui sarebbe invece utile soffermarsi per avere uno spaccato più completo del nostro stato di salute nazional-culturale.

Negli ultimi anni, l’individuazione di un nemico esterno – l’immigrato – pareva aver cementato una rinnovata unità. La diffusione del covid-19, sta smascherando tutta la nostra fragilità identitaria.

Qualcuno, da Sud, parla di una nemesi in atto: una fatale giustizia storica che starebbe infliggendo una sorta di pena del contrappasso al Nord razzista ed escludente. E così può accadere che a Ischia o alle Mauritius, gli sbarchi di turisti provenienti dal Nord Italia, soprattutto se veneti o lombardi, possano indurre reazioni più o meno istituzionali di rifiuto, con gli ospiti indesiderati tacciati di essere degli untori e magari rimpatriati, com’è accaduto nel piccolo Stato africano. Tutte parole – “sbarchi”, “rimpatri” – che solo un’estate fa avremmo applicato a ben altre categorie umane. Solo qualche giorno prima, la Le Pen avrebbe voluto chiudere le frontiere con l’Italia e molti Paesi a Sud e a Est di noi hanno già adottato provvedimenti in tal senso. In qualche caso, con un esplicito riferimento alle regioni della zona rossa, Veneto e Lombardia. Una condizione che rovescia le tradizionali retoriche muscolari del nostro Nord produttivo.

Il Mezzogiorno, sollevato dall’idea di non essere l’epicentro anche di questo flagello, si interroga su quale sarebbe stata la narrazione dell’emergenza coronavirus se la sua diffusione fosse partita da un ospedale di Napoli o di Palermo. L’immagine della donna ischitana lanciata contro i turisti settentrionali e la replica di Rita Dalla Chiesta (“andate in vacanza altrove”) non è altro che il negativo della lacerazione psicotica che taglia l’Italia in giorni di profonde ferite al più profondo orgoglio lombardo-veneto. Uno smacco doloroso la facile ironia messa nero su bianco da cartelli che rovesciano antichi motti discriminatori, annunciando che al Sud “non si affitta ai settentrionali”. Una sorta di contrappasso cui qualche locale amministratore veneto risponde ricordando che a perseguirli, oggi, sono quegli stessi napoletani da sempre coperti di “munnezza”, mentre  editorialisti e esponenti politici invocano l’unità e la solidarietà nazionale.

Il nuovo coronavirus sta restituendo voce ad antichi stereotipi, rovesciandoli.

Ma quale unità? Quale solidarietà? Quali sono i valori su cui si fonda lo stare insieme di un Paese che, in un momento di simile crisi, si riscopre tanto predisposto alle divisioni? Nessuna nemesi. Nessun contrappasso. Il nuovo coronavirus sta restituendo voce ad antichi stereotipi, rovesciandoli. Sta risvegliando conflitti mai sopiti. Con buona pace delle retoriche che metterebbero avanti l’Italia, una e indivisibile.

Se l’emergenza fa affiorare la vera natura di ogni uomo e – per proprietà transitiva – di ogni comunità, allora la vicenda del covid-19 sta mettendo a nudo tutta l’incompiutezza dell’Italia.

Acuita da decenni di retoriche che hanno approfondito la distanza tra Nord e Sud, tale incompiutezza spiega molte delle nostre debolezze. Anche quelle politiche e istituzionali. Debolezze che rendono per forza di cose i nostri decisori più esitanti, anche quando le scelte adottate si rivelano le migliori possibili. Questa emergenza sanitaria sta, infine, lanciando moniti seri alle spinte autonomiste (più o meno differenziate) che fino a ieri sembravano avere priorità assoluta sulle scelte di un Paese che non ha un’idea di sé. Né in senso federalista né centralista.

È evidente che l’Italia ha bisogno di ripensarsi in profondità per poter dare risposte ai suoi bisogni strutturali e essere pronta al futuro moltiplicarsi di situazioni impreviste. Il fallimento della nostra “riformite” (come la definisce Paolo Ricci) nasce dal non sapere chi siamo e vorremmo essere.

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Giulia D'Argenio

Giulia D’Argenio, 33 anni, una laurea in relazioni internazionali e un dottorato in storia dell’Europa. Ha incrociato il giornalismo nel periodo della ricerca e per sei anni ha collaborato con il quotidiano indipendente Orticalab. La cronaca e le inchieste hanno viaggiato di pari passo all’impegno nel volontariato, prima di virare sul mondo degli eventi e della cultura, scoperto negli anni dell’università e nel periodo di collaborazione con la Fondazione Idis di Napoli. Oggi lavora con la Fondazione Francesco Saverio Nitti

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