La “guerra calda” che soppiantò la “guerra fredda”. Ma anche una storia esemplare di resistenza che diede voce a una generazione. Non solo alla generazione comunista. Andrea Purgatori (Atlantide): venti anni in tre ore.
Il programma serale che scorre questa sera (ieri sera per chi legge) su La7 è dedicato alla guerra del Vietnam. E Andrea Purgatori (Atlantide) lo conduce molto bene, nelle sue corde.
Copre un certo vuoto italiano perchè malgrado la montagna di immagini televisive che hanno dominato gli anni della nostra gioventù, penso che ci sia stato un certo deficit interpretativo da parte della unica vera televisione del tempo, la Rai.
Era una guerra troppo sporca per sostenerla spudoratamente. Ma l’Italia stava nell’occidente filo americano e nella Nato (pur se fuori da ogni implicazione dal 17° parallelo). Ma la comunicazione internazionale su quella guerra era troppo egemonizzata dai comunisti (filorussi, filocinesi, filo bolognesi, filofrancesi, eccetera), per coincidere con quella lettura.
Smorzando le motivazioni di parte restavano certamente le sensibilità dei programmisti e dei giornalisti, che c’erano naturalmente. Ma in Rai esse non sono mai riuscite a fare “partito”. Il “partito della Rai” è stato quello diciamo così corporativo, di difesa. Meno forte quello dei programmi, perché la conflittualità culturale e politica c’era, eccome. Ed era comprensibile che ci fosse. Un ambito di operatori interni aveva tuttavia certamente il senso dell’autonomia dei contenuti. E a quella componente si devono i servizi più attendibili. Anche sul Vietnam, mantenendo spazi che pur dovevano essere realizzati a slalom, rispetto ai paletti dei partiti.
Ciò detto, sul programma di Purgatori – libero di fare scelte ormai storiche inevitabili – faccio brevi osservazioni.
La prima è che, oltre a Furio Colombo e Dacia Maraini avrei fatto esprimere il punto di vista di un giornalista o di un politologo capace di leggere la visione geopolitica dell’Occidente del tempo. Anche per criticarlo, ma per dare dignità al posizionamento della scelta sbagliata. E’ vero che ha fatto intervenire un professionista di qualità di area liberale come Jas Gawrosnki, che tuttavia è rimasto più sull’aneddotica, pur avendo cultura e sensibilità anche per andare più a fondo (se interrogato).
La seconda cosa è apprezzare che il programma, nella parte finale, esce dai fatti e coglie pur brevemente il carattere epocale della vicenda, una storia spartiacque. La grande anticamera internazionale del ‘68. Cioè il cantiere del posizionamento ribellistico e antimperialistico del fronte giovanile e studentesco e al tempo stesso la maggiore mobilitazione internazionale (dopo Corea, Ungheria, Algeria, decolonizzazione, Cuba e il Che, eccetera) che seppelliva le dimensioni nazionalistiche della politica giovanile. Ma che resta una citazione, non un utile approfondimento.
Perché certo il Vietnam fu un passaggio cruciale. In cui – spiega giustamente Furio Colombo nel programma di Purgatori – l’America si trovava nel mirino di una generazione perché responsabile di quella guerra, ma anche nell’apprezzamento di una generazione, perché essa aveva le voci culturali, politiche e artistiche (si pensi alla colonna sonora di Bob Dylan al tempo) per denunciare l’ineluttabilità del crescendo distruttivo che la potenza americana stava producendo, finendo alla fine sconfitta dopo la famosa offensiva vietnamita del Tet.
E fu appunto crucialissimo quel ’68 in Europa, che portò poi noti riflussi e persino involuzioni. E negli USA, in cui Bob Kennedy rimise in moto la nuova America contro il percorso in cui un politico socialmente avanzato come Lyndon B. Johnson finì per essere il leader di un disastro. Ma che dopo la morte violenta del secondo dei Kennedy portò gli USA nell’era Nixon. Anche se sarà proprio Kissinger a negoziare l’uscita da un catastrofico bilancio: un costo finanziario di 165 miliardi di dollari, un costo umano di 58.000 morti.
Degno di menzione – per la memoria italiana – il racconto a fine programma della decisione del presidente della Repubblica italiana Sandro Pertini di spingere il governo del tempo (1979) a svolgere con una flotta della Marina Militare la riuscita operazione di recupero e trasporto in Italia di centinaia di boat people vietnamiti (del sud) in drammatiche condizioni nel Mare Cinese a causa dell’invasione da parte del Vietnam del Nord nel sud del paese. Una vicenda poco ricordata e oggi di esemplare controtendenza.
Quanto al riscontro generazionale di un programma costruito sui materiali internazionali e quindi collaudati, vorrei dire – se è consentito un frammento di storia personale – che il mio ricordo sul Vietnam mi restituisce spunti, opzioni, pensieri sempre sottratti alle sudditanze filoamericane o filocomuniste.
Vissi da liberalsocialista (anzi da repubblicano-socialista) quella storia e la vissi così come avevo attribuito una importanza formativa essenziale alla Resistenza. Una storia di resistenza, appunto, di cultura post-risorgiomentale: libertà e lotta contro lo storico schiacciamento dell’autodeterminazione dei popoli.
Che la prima avanzata dei bombardamenti USA sul Vietnam del nord scaricò su quella terra in pochi giorni più bombe di tutte quelle scoppiate nella seconda guerra mondiale, fu cosa disse molto alla mia generazione.
Che Ho Chi Min (a cui una targa alla Pesa a Milano ricorda il posto che occupava in quel ristorante da giovane espatriato) fosse stato socialista in gioventù e consegnato alla alleanza con i sovietici dallo schematismo USA (con cui lo zio Ho era alleato storico nella resistenza ai giapponesi) anche al tempo ci parve una storia simile a quella di Castro che aveva un’indole indigenista (Mariategui) che gli States di Eisenhower consegnarono all’alleanza con i russi.
Insomma non credo di essere stato il solo a pensare che la resistenza vietnamita non andava consegnata alla sola voce dei comunisti. Argomento che penso tuttora, ovviamente anche a proposito della reattività popolare italiana dal Risorgimento alla Resistenza. Tanto che i vietnamiti, dopo la liberazione, non ci pensarono due volte a scontrarsi addirittura con i cinesi che coprivano i khmer rossi cambogiani cacciati dai vietnamiti cacciarono perchè tentavano invasioni del loro paese.
Ai primi anni ’80 – giovane direttore generale del Luce-Italnoleggio – pensai che c’era una narrativa americana hollywoodiana (almeno cento film prodotti) sul Vietnam (quella spettacolistica alla Rambo); ma che c’era anche una narrativa socio-psicologica più complessa. Così che nel 1983 con tutte le forze riuscii a far fare al cinema di Stato italiano la scelta di Streamers di Robert Altman per andare al Festival di Venezia, portando a casa il Leone per tutti i sette interpreti maschili, assicurando l’edizione italiana alle sale cinematografiche. Piccola battaglia, figlia di un’idea covata con senso di libertà per più di dieci anni.
La storia che attraversò la più grande contraddizione della democrazia americana contemporanea – e le vicende di cinque presidenti USA, che inizia come operazione di polizia e che portò in quell’inferno fino a cinquecentomila soldati americani, resta un capitolo enorme del ‘900 e della nostra vita. Troppo poco ripensato – malgrado l’enormità mediatica del suo impatto – circa la complessità formativa di alcune generazioni che hanno avuto libertà di pensiero ma non sempre la voglia e l’ostinazione di cercare la verità al di là della grande dominante propagandistica che, nel ‘900, non ha solo riguardato il fascismo, il nazismo, il comunismo ma anche – e profondamente – le democrazie liberali dell’occidente.
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