Secondo Papa Bergoglio, se vogliamo sconfiggere il virus dobbiamo pregare Maria madre di Dio. Affidarsi al Cielo è una tentazione che riaffiora sempre in tempi di crisi. In Sicilia vanno in scena processioni per invocare l’intervento divino. Un paio di settimane fa a Marianopoli, nella zona di Caltanissetta, gli agricoltori si sono messi in fila e hanno portato un antico crocifisso e la statua di Sant’Antonio Abate in giro nelle campagne per farli rendere conto di persona di come la terra fosse assetata e pregandoli di mandare la pioggia.
L’idea che una divinità possa intervenire nella vita degli esseri umani è dura a morire. Così adesso a Roma c’è chi vorrebbe mettere in campo contro il virus un antico crocifisso conservato nella chiesa di san Marcello al Corso. Nel 1600 Roma fu colpita da un’epidemia pestilenziale e il cardinale Raimondo Vich fece portare quel crocifisso in una solenne processione. Vi presero parte migliaia di persone, nobili e umili, donne e bambini che “scalzi et coverti di cenere a una et alta voce, gridavano: misericordia santissimo crocifisso”. Si racconta che nei rioni in cui passava la processione la pestilenza spariva, così adesso quel crocifisso è ritenuto miracoloso.
Siccome sono vietati gli assembramenti, in Sicilia don Giuseppe d’Oriente, parroco di Favara, è stato protagonista di una processione solitaria con crocifisso e megafono per chiedere al Signore di debellare il coronavirus. Mentre a Palermo si sono riuniti sul monte Pellegrino i fedeli, non solo italiani ma anche stranieri, di santa Rosalia per invocare “la fine di questa nuova peste”. Per rendere più efficaci le invocazioni il parroco don Gaetano ha spostato la cassetta con le reliquie della santa vicino ai fedeli. Le ossa di santa Rosalia sono ritenute infallibili. Grazie ad esse si dice che in passato avvenivano miracoli in continuazione. Ma all’inizio dell’Ottocento lo studioso inglese William Buckland poté analizzarle e scoprì che erano ossa di capra. Da allora furono sigillate in una cassetta e a nessuno è stato più permesso di vederle, con la scusa che “la santa non gradisce”.
Sant’Agostino sosteneva che “tutte le malattie dei cristiani vanno attribuite ai demoni”. Un rimedio efficace era ritenuto l’adorazione delle reliquie dei santi. La mania delle reliquie è ancora viva e ha spinto il Vaticano a conservare la camicia imbrattata di sangue che papa Wojtyla indossava quando fu ferito in piazza san Pietro. Quando poi è morto, gli hanno succhiato un mezzo litro di sangue che ora è preservato in una teca, forse per fare del papa polacco un novello san Gennaro.
Il 14 gennaio 1703 Roma fu scossa da un terremoto che, secondo un cronista dell’epoca, fu “accompagnato da torrenti d’acqua e da bufere”. Anche gli edifici più solidi tremarono, caddero tre archi del Colosseo, le campane delle chiese suonarono e suonò anche un campanello che il Papa teneva sul tavolo. Clemente XI si spaventò molto e corse subito nella sua cappella a pregare. Le persone che si trovavano in chiesa caddero in ginocchio e si raccomandarono a Dio. Un nobile, don Livio Odescalchi, duca di Bracciano, fu calpestato dalla folla spaventata che fuggiva. La mattina successiva all’alba il Papa disse messa in una basilica di San Pietro affollatissima. Era convinto che il terremoto fosse un castigo mandato da Dio per i peccati commessi dai fedeli e invocò tutti a fare penitenza e digiuno. Ordinò che si tenessero processioni e canti di purificazione. Anche papa Alessandro VI all’apparire della peste, il 9 giugno 1656 ordinò litanie in tutte le chiese.
Papa Callisto III si appellò all’Onnipotente per motivi diversi. Il 29 maggio 1453 i turchi infedeli avevano conquistato Costantinopoli, capitale dell’Impero romano d’Oriente. Proprio in quel periodo apparve in cielo una grande cometa. Il papa era sicuro che segnalava, oltre alla caduta di Costantinopoli, l’arrivo di nuove sventure. Cercò di contenere i danni. Ordinò giornate di preghiere per chiedere al Signore che i disastri annunciati dalla cometa fossero deviati verso i turchi.
Invocare le divinità per ottenere miracoli e salvezza da eventi tragici non è solo un fenomeno cristiano. La gente comune credeva in passato che anche i regnanti, ai quali si attribuiva il ruolo di mediatori con gli dei, fossero in grado di compiere opere sovrumane. Si racconta che al faraone Ramesse II era attribuito il potere di far riempire di acqua i pozzi nel deserto. Compiva prodigi Apollo. Nel tempio di Terapne, vicino a Sparta, un bimbo deforme fu trasformato in un bel ragazzo. Dioniso, ci dice Euripide nelle Baccanti, trasformò l’acqua in vino. Mica una volta sola. Diodoro Siculo assicura che Dioniso nel giorno della sua festa fece addirittura sgorgare vino da una sorgente.
Ad Alessandria d’Egitto, Vespasiano appena proclamato imperatore guarì, con l’aiuto del dio Serapide, un cieco e un paralitico. Mani, il fondatore del manicheismo, compiva guarigioni e altri prodigi al pari di Gesù. Nell’Inghilterra del Seicento, cattolici e protestanti credevano che il tocco del re fosse miracoloso, e così Carlo II Stuart, uno svergognato libertino, fu costretto nel corso del suo regno a imporre mani a più di centomila sudditi sicuri di ricavarne fortuna e benefici fisici.
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