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“Mamma mia dammi cento lire che in America voglio andar”. Storia dell’emigrazione italiana

“Mamma mia dammi cento lire che in America voglio andar”. Versi di una canzone popolare antica, che conoscono un po’ tutti. Ma trovarle, quelle cento lire, non era mica facile. Quante volte abbiamo sentito dire – in questi tristi giorni di sovranismo e razzismo – “non hai notato che tra quelli che arrivano con i barconi a Lampedusa non ce ne è uno scheletrico, visibilmente morto di fame”? Sottintendendo con ciò che vengono per rubare, vendere droga, fare i terroristi. Mai nessuno, di questi signori sovranisti, che ragioni sul fatto che quei disperati per pagarsi i barconi, dove magari troveranno la morte, ci hanno messo anni di risparmio e sacrificio e con loro, tutta la famiglia. E mai nessuno che abbia un po’ di memoria: la stessa cosa la facevamo noi italiani mica poi tanti anni fa. Dal 1867 (anno in cui si è cominciato a catalogare il fenomeno) a quasi tutto il ‘900, hanno fatto le valigie quasi 27 milioni di italiani, per scappare dalla miseria, per fuggire “per terre assai lontane”.  Affrontavano mortificazioni e dolore, distacchi e angosce e disprezzo. E non andavano solo in America, e per America – anzi La Merica, dicevano, perché  non sapevano neanche leggere e scrivere – si intendeva tutto. Gli Stati Uniti, l’Argentina, l’Australia, il Brasile. Prendere quelle carrette del mare costava come costa oggi a chi viene in Italia. Molti rimangono nei loro paesi a morire letteralmente di fame, così come da noi c’era chi non aveva i soldi per imbarcarsi.

Migranti a Ellis Island 1892

Viene quasi da sorridere nel pensare che la maggioranza di questi poveracci erano veneti e friulani, due delle regioni dove è attecchita con maggior impeto e da maggior tempo la Lega. Due regioni dove c’è gente che si fa un vanto di mettere al muro i “negher”. Questo inverno abbiamo letto sui giornali due notizie molto indicative.  Paolo Polidori, leghista, vice sindaco di Trieste (Friuli Venezia Giulia) ha buttato in un cassonetto le coperte di un clochard rumeno. Massimo Ascquini, leghista , assessore a Monfalcone, ha creato una filastrocca che diceva: “il migrante vien di notte, con le scarpe tutte rotte; vien dall’Africa in barcone per rubarvi la pensione; nell’hotel la vita è bella nel frattempo ti accoltella; poi verrà forse arrestato e l’indomani rilasciato”.  Tutti e due, orgogliosi delle loro imprese, se ne sono vantati su Facebook. Tutti e due friulani. E allora andiamoli un po’ a vedere questi friulani. Insieme ai veneti, erano così poveri che non avevano neanche i soldi per pagarsi il viaggio per La Merica. Partivano cantando “Andiamo in Transilvania a menar la carioleta che l’Italia povereta no’ l’ha bezzi (soldi,n.d.r. ) da pagar”. Ovvero, andavano in Romania. 

Alla fine del diciannovesimo secolo migliaia di famiglie, vanno nella regione della Dobrugia,  “dove il clima era benigno e la terra munifica”,come  scrive Andrea Raluca Torre, antropologa, autrice di una ricerca sulla materia per l’università di Londra. Del resto, dai dati sulle partenze italiane, risulta che dal Veneto e dal Friuli, a fine 800 c’è stata una emigrazioni più alta di tutte le regioni meridionali messe insieme. 

Il regno di Romania nasce nel 1881 e annette la Dobrugia (oggi per metà bulgara). Ha bisogno praticamente di tutto e quindi incoraggia la migrazione, interna ed esterna. Ai nuovi arrivati viene data la possibilità di lavorare e di diventare proprietari di un pezzo di terra. Veneti e friulani, sono tra i primi a rispondere. La Dobrugia, per loro era diventato l’EldoradoErano tagliapietre, carpentieri, muratori, piastrellisti, fabbri, agricoltori. Altri vengono impiegati nella costruzione delle ferrovie di fine 800 e inizio 900. Nel 1899 solo in Dobrugia vivono quasi 1400 italiani, che crescono nel 1928 (diventano quasi 2000) quando alcuni di quelli che si erano stabiliti nelle città come Bucarest o Sinaia, scelgono di tornare in campagna. In tutta la Romania, nel 1901 erano 8000, nel 1930 circa 60 mila. 

Uno dei centri in cui erano più numerosi era Greci, dove le cinque cave di un granito particolarmente ricercato, davano lavoro a moltissimi di loro, soprattutto  per la particolare maestria che avevano nel trattare questa pietra così resistente e perché solo loro accettavano un lavoro così duro. Secondo il delegato italiano Beccaria Incisa – che lo scrive nel 1892 –  i nostri compatrioti erano molto contenti dello stipendio che ricevevano, “molto più alto di quello che possono avere nel loro paese“. “In un anno la somma totale dei risparmi accumulati dai lavoratori italiani è di circa 4 milioni di lire, in oro” rapporterà qualche anno dopo l’ispettore italiano per l’immigrazione Di Palma.

Era inevitabile che nascessero problemi di integrazione sociale. Il governo rumeno usava spesso la mano pesante contro gli emigranti che creavano problemi “d’ordine pubblico” o che, semplicemente, non avevano documenti in regola. I rimpatri erano all’ordine del giorno. Ma molti sfuggivano ai controlli e rimanevano come clandestini (dice niente?), tanto che Carmine Senise, capo della polizia fascista italiana, scrive che “La legazione in Bucarest segnala che alcuni connazionali, giunti in Romania a titolo temporaneo, non lasciano il Paese alla scadenza del loro permesso di soggiorno provocando inconvenienti con le autorità di polizia romene anche per il contegno non sempre esemplare da loro tenuto e per l’attività non completamente chiara dai predetti svolta”. Si arriva al punto che il ministero dell’interno del regime, il 28 agosto 1942 emana a tutti i questori del Regno, al ministero degli Affari esteri, al Governo della Dalmazia, alla direzione di polizia di Zara e all’alto commissario di Lubiana, un ordine preciso: evitare che gli italiani espatriassero in Romania.

Inoltre, in seguito alle proteste degli operai rumeni contro gli stranieri che, a loro dire,  gli “rubavano il lavoro” (ricorda niente?) il governo rumeno vara la legge dei mestieri, che imponeva la precedenza degli operai rumeni nelle assunzioni. Il che non può non far pensare all’odierno “prima gli italiani”. Un documento dell’epoca emesso dal Ministero dell’Interno italiano ci dà un’immagine della delicata situazione: “Stante il crescente afflusso dei connazionali in Romania, si dispone che le richieste d’espatrio vengano vagliate con massima severità per quanto riguarda la tenuta morale e politica degli interessati“, perché i locali si lamentavano che gli italiani erano indisciplinati e violenti. 

Chissà se i tanti Polidori e Asquini sparsi nello Stivale tutto questo lo sanno. Forse no, perché sono ignoranti. O forse preferiscono non ricordare come se nessun ricordo dell’emigrazione italiana oggi possa fare argine al razzismo dilagante.

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Stefania Conti

Giornalista. Nata a Roma e laureata in sociologia, ha lavorato presso (in ordine cronologico): Adnkronos, Il Messaggero, Tg2.

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