Massimo D’Azeglio, futuro Presidente del Consiglio dei Ministri, arrivò tardi alla vita politica. Fuori da sette e società segrete, legato da profonda amicizia a Vittorio Emanuele II.
Restò sempre su posizioni politiche moderate, favorevole all’unificazione nazionale attraverso una confederazione di Stati e per ciò stesso in contrasto non solo con Mazzini ed i mazziniani. Ma anche con Cavani e lo stesso Governo del regno di Sardegna, che puntava invece alla unificazione attraverso la politica delle annessioni.
Inizialmente tutto sembrò portarlo lontano dalla vita politica. Nacque a Torino il 24 ottobre 1798 in una famiglia nobile. Suo padre era marchese e Massimo ne ereditò il titolo. Con la famiglia si trasferì a Firenze quando (1800) il Piemonte fu occupato dai francesi di Napoleone.
Tornò a Torino nel 1807 ma l’abbandonò presto. Sette anni dopo era a Roma, il padre era stato nominato ministro (cioè ambasciatore) sardo presso la Santa Sede, ma vi restò poco.
A 13 anni era di nuovo a Torino dove venne ammesso alla facoltà di filosofia dell’Università. Abbandonò presto gli studi. A 16 anni era ufficiale a Torino del reggimento di Cavalleria reale, ma fu una breve esperienza.
Nel 1820, dopo alcuni anni di vita brillante nella capitale sabauda, tornò a Roma per studiare pittura (1820).
Iniziò a dipingere secondo i dettami del romanticismo, ma nemmeno questa esperienza risultò per lui appagante. Nel 1831 si trasferì a Milano e conobbe Alessandro Manzoni. Lo elesse a suo maestro e ne sposò la figlia Giulia, ma non sarà un matrimonio felice. Nel 1833 pubblicò un romanzo storico (Ettore Fieramosca o la Disfida di Barletta) che ottenne un buon successo. Già alcuni anni prima aveva dipinto l’evento in un grande quadro.
Seguono altri due romanzi storici (Niccolò de’ Lapi, 1841, La Lega Lombarda, restato incompiuto) tutti mirati ad esaltare il valore degli italiani.
La notorietà derivatagli dai romanzi ed il patriottismo che li permeava, fecero sì che i liberali romani pensassero a lui per propagandare in Romagna la causa dell’unità nazionale. Ciò che egli fece percorrendo quei territori e sollecitando i liberali locali a rinunciare alle agitazioni rivoluzionarie e ad avvicinarsi alla monarchia sabauda (1844 — 45).
Ebbe poco successo e nel settembre 1845 la popolazione si sollevò a Rimini contro il malgoverno pontificio, ma l’insurrezione fu duramente repressa.
L’anno successivo a Firenze fu pubblicato clandestinamente un opuscolo, “Degli ultimi casi di Romagna”, in cui D’Azeglio attaccava duramente il governo pontificio, ma al tempo stesso ribadiva le sue convinzioni a proposito della inutilità delle congiure e delle insurrezioni per modificare la situazione politica in Italia.
Sua tesi era invece che occorresse trovare una base comune tra le diverse posizioni politiche. L’unità d’Italia non era a suo avviso di possibile realizzazione senza una opinione pubblica nazionale per quella che definì “una cospirazione pubblica”.
Ritenne che Pio IX, divenuto papa nel 1846, potesse esercitare un ruolo molto importante in tal senso. Lo incontrò a Roma (febbraio 1847) ed elaborò (agosto 1847) un “Programma per l’opinione moderata progressista italiana”.
Qui egli esprimeva la convinzione che in Italia il partito dei moderati fosse ormai nettamente prevalente. Era tempo dunque di una unione tra i principi italiani dando vita ad una comune politica riformistica e di reciproca leale collaborazione.
Nel 1848, in un “Ragionamento” successivo letto a Roma, si individuava nel Piemonte il protagonista determinante dell’unità nazionale. Esprimendo implicitamente la sua convinzione del primato dei Savoia tra i principi italiani. Ma al tempo stesso senza chiudere la porta in faccia a Pio IX, la cui collaborazione riteneva essenziale in quanto al vertice della chiesa cattolica in un Paese cattolico ma che però riteneva persona troppo debole per assumere la guida del processo di unificazione nazionale.
Scoppiata (1848) la guerra contro l’Austria, convinse Pio IX ad affidare il comando delle truppe pontificie ad un generale piemontese di cui, con il grado di colonnello, divenne luogotenente.
Restato ferito alla battaglia di Monte Berico, tornò a Firenze ed iniziò sul giornale fiorentino “La Patria” una dura polemica con i repubblicani di ogni tendenza.
Ormai aveva nettamente sposato la causa sabauda. Nel 1848 venne eletto deputato al parlamento subalpino e rieletto l’anno successivo.
Tornò in Toscana e si sottrasse avventurosamente all’arresto ordinato dal governo provvisorio di Guerrazzi costituito dopo la fuga del granduca Leopoldo II. D’Azeglio aveva appoggiato il progetto del Presidente del Consiglio Gioberti di inviare truppe piemontesi per sostenere il granduca.
Dopo la sconfitta dell’esercito piemontese a Novara accettò da Vittorio Emanuele II l’incarico di Presidente del Consiglio dei Ministri (7 maggio 1849).
Pochi mesi dopo, di fronte alle resistenze della Camera ad approvare il Trattato di pace con l’Austria, ottenne dal re lo scioglimento del Parlamento e l’emanazione da parte di Vittorio Emanuele II del “Proclama di Moncalieri” (20 novembre 1849). Scritto quasi interamente dallo stesso D’Azeglio, in esso venivano rivendicate le prerogative regie nei confronti del Parlamento per salvare il paese dalla “tirannia dei partiti”.
La nuova Camera approvò (5 gennaio 1850) il trattato di pace: D’Azeglio potè interamente dedicarsi ai problemi interni del regno che certamente non mancavano, primo fra tutti quello dei rapporti con la Chiesa cattolica.
Contrariamente ad ogni aspettativa, D’Azeglio sostenne la legge predisposta dal Ministro della Giustizia Siccardi, che aboliva il foro ecclesiastico ed il diritto d’asilo in chiese e conventi. Limitava le festività religiose ed introduceva il controllo pubblico sugli acquisti di immobili da parte degli ecclesiastici (1856). Nella polemica che ne seguì con la chiesa cattolica, giunse a far arrestare l’arcivescovo di Torino.
L’approvazione delle leggi Siccardi fu l’occasione per i primi attacchi alla Camera dei deputati da parte di Cavour, che come D’Azeglio sedeva nei banchi del centro — destra, ad un Presidente del Consiglio che, a suo avviso, poco si curava del Parlamento e della maggioranza parlamentare puntando tutto sul rapporto fiduciario con il re.
Il 22 ottobre 1852 D’Azeglio, in seguito a contrasti con Cavour, si dimise. Il 20 ottobre, a segnare il suo distacco dalla politica attiva, intervenne la sua nomina a senatore del Regno. Due anni dopo accompagnò il re nella visita ufficiale a Parigi e a Londra per poi (1860) essere nominato commissario del governo sardo in Romagna per facilitare il plebiscito a favore della riunione al Regno di Sardegna. Nello stesso anno Cavour lo inviò a Milano come Governatore con un compito preciso: bloccare l’arruolamento di volontari per l’impresa dei Mille.
Presto si dimise dall’incarico, ritenendo l’azione governativa nei confronti di Garibaldi troppo debole. D’Azeglio non riteneva infatti ancora giunto il momento dell’unificazione dell’Italia meridionale, di cui temeva le ripercussioni internazionali.
Fino ad esprimere, in una lettera inviata al senatore Matteucci all’inizio del mese di agosto 1861, dubbi sulla legittimità dell’annessione dell’ex regno delle due Sicilie.
Coerente ai suoi principi, nello stesso anno, con l’opuscolo “Questioni urgenti” (1861), riprese la polemica contro i repubblicani ed il Partito d’Azione. Si espresse contro il trasferimento a Roma della capitale del Regno ritenendo che la città dovesse restare sotto la sovranità spirituale del Papa.
Il 3 dicembre 1864, nell’ultimo suo discorso parlamentare, pronunciato al Senato quando si discuteva della ratifica della Convenzione di settembre con la Francia, che garantiva l’aiuto militare a quello dei due Paesi che avesse subito l’aggressione di un terzo. Ma soprattutto significava l’implicita rinuncia, con il trasferimento della capitale a Firenze, a Roma capitale, D’Azeglio fece appello alla pacificazione ma al tempo stesso non dimenticò di attaccare il suo antico nemico Cavour asserendo che la sua formula “libera Chiesa in libero Stato” era solo un “motto d’occasione che ha terminato il suo servizio, ma non dà pratica soluzione”.
Fino alla morte, avvenuta a Cannero il 15 gennaio 1866, si dedicò alla stesura dei “Ricordi”, che divenne uno dei libri più diffusi sulla storia del risorgimento italiano.
Fu sepolto nel cimitero monumentale di Torino. Molti suoi quadri sono conservati nella Galleria d’arte moderna di Torino.
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