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Mussolini e i gerarchi: alleanze e contrasti

9 novembre 1921: a Roma, i Fasci di combattimento, fondati due anni prima a Milano, tengono al teatro Augusteo il congresso nazionale che terminerà con la costituzione del partito nazionale fascista.

L’ascesa di Mussolini

Mussolini ha un unico concorrente alla direzione del partito: è Gabriele D’Annunzio, a cui fa riferimento l’ala nazionalista e che ha condotto l’impresa di Fiume, conclusasi con l’intervento delle truppe italiane che, in nome degli accordi internazionali, hanno messo fine alla effimera vita della Repubblica del Quarnaro.

Per Mussolini — e lo dice chiaramente nel suo intervento al Congresso — D’Annunzio e i suoi amici politici sono troppo democratici: non esita a dichiarare per l’occasione che “Noi, liberali in economia, non lo saremo in politica”. Il congresso elegge Mussolini alla direzione del neonato partito e D’Annunzio, forse l’unico avversario politico di Mussolini in grado di contendergli (almeno inizialmente) il potere politico, finisce per ritirarsi dalla vita politica e finire i suoi giorni nella villa “Il Vittoriale” sul lago di Garda.

Conquistata la direzione del partito, la strada per Mussolini è spianata: da quel momento e almeno per venti anni non ci sarà nessun altro esponente del fascismo in grado di contendergli seriamente il potere nel partito e, dopo il 1922, anno in cui divenne Presidente del Consiglio, nello Stato. Dissidenti ve ne furono, così come vi furono all’interno del partito lotte intestine tra i suoi esponenti di primo piano, ma si trattò piuttosto di odi e ripicche personali, di antipatie e rivalità che raramente assursero a dignità politica.

I gerarchi fascisti

La maggior parte dei gerarchi (appartenente cioè alla gerarchia, che era un punto irrinunciabile della dottrina fascista) proveniva dalle squadre d’azione, gruppi che avevano in comune la scelta della violenza come arma da usare contro gli avversari politici. Definiti “ras”, acquistarono dal 1919 al 1922 un potere localmente circoscritto ma tuttavia non per questo meno rilevante che, seppure in modi e forme diverse, alcuni mantennero anche dopo il 1922 (un esempio è Roberto Farinacci in provincia di Cremona).

L’elenco è lungo, soprattutto per quanto riguarda l’Italia settentrionale e centrale (nell’Italia meridionale ed insulare emersero poche personalità politiche di rilievo, tra cui Michele Bianchi, “quadrumviro” (comandante di colonna) della Marcia su Roma, sottosegretario al Ministero dei lavori pubblici nel 1925 e Ministro nel 1929, un rivoluzionario entrato presto in contrasto per le sue idee e che morì nel 1930. Araldo di Crallanza, che dal 1930 al 1935 fu Ministro dei lavori pubblici e successivamente Presidente dell’Opera nazionale combattenti. Oltre Farinacci, provenivano dal comando delle squadre d’azione, per citare solo alcuni tra i più noti Dino Grandi, Italo Balbo, Giuseppe Bottai, Achille Starace, Ettore Muti, Carlo Scorza, Affilio Terruzzi, Giacomo Suardo, Giacono Acerbo, Leonardo Arpinati, che saranno ministri, segretari del partito, capi della Milizia volontaria sicurezza nazionale, Governatori delle colonie in Africa.

Diversa era la provenienza di altri esponenti fascisti di rilievo: Alfredo Rocco, ministro della giustizia e costruttore dello Stato fascista, proveniva dai nazionalisti, così come Luigi Federzoni, che sarà tra l’altro Presidente del Senato, e Dino Alfieri, Ministro della cultura popolare dal 1936 al 1939. Dall’esercito provenivano Cesare Maria De Vecchi, che Mussolini nominerà nel 193 Ministro dell’Educazione nazionale e successivamente Governatore del Dodecanneso, ed Emilio De Bono, capo della polizia e della Milizia al momento della uccisione del deputato socialista Giacomo Matteotti e poi comandante delle truppe italiane in Africa orientale.

Sono gli uomini che più degli altri avevano contribuito alla conquista del potere e che con grande difficoltà Mussolini riuscì a riportare nell’area dello Stato da quella della rivoluzione contro lo Stato: ne è un esempio il conflitto tra Bocchini, capo della polizia, e Suardo (sottosegretario agli interni dal 1926 al 1929, presidente del Senato dal 1939 e uno dei principali accusatori di Ciano al processo di Verona) a proposito del rispetto della legalità.

Il gruppo di potere restò sostanzialmente composto dalle stesse persone che avevano seguito Mussolini dagli inizi: a loro sono da aggiungere Galeazzo Ciano, che entra nell’orbita dei potenti del regime quando – 1930 – sposa Edda, la figlia maggiore di Mussolini; Alessandro Pavolini, un intellettuale proveniente dalle fila del partito; Guido Buffarini Guidi, che da podestà di Firenze riesce ad entrare nelle simpatie di Mussolini conquistandosi al tempo stesso la fiducia di sua moglie e di Claretta Petacci; Edmondo Rossoni, un tempo sindacalista, poi teorico dello Stato corporativo e (1935 — 1939) Ministro dell’Agricoltura; Augusto Turati, dal 1926 al 1930 segretario del Partito.

Mussolini, i gerarchi e la gestione del potere nel ventennio fascista

È attraverso questi uomini e pochi altri che Mussolini gestisce il potere per più di vent’anni, dal 1922 al 1945, quando ha fine l’avventura della Repubblica sociale italiana: fallì il tentativo di inserire nell’organigramma nomi nuovi, come avvenne con Aldo Vidussoni, mutilato e medaglia d’oro della guerra di Spagna, nominato il 26 dicembre 1941, a 27 anni, segretario del P.N.F. e durato nella carica solo fino all’aprile 1943: in breve tempo era entrato in rotta di collisione con tutti i gerarchi fascisti. Ciano nel suo diario ne traccia (5 gennaio 1943) un ritratto impietoso: certo è che non avrà alcun futuro politico (malgrado la adesione alla R.S.I. in cui fu membro della direzione del Partito) né sarà soggetto dopo il 1945 ad alcun procedimento penale, finendo i suoi giorni come impiegato in una società di assicurazione.

La nomina di Vidussoni fu una delle poche eccezioni alla politica di Mussolini nei confronti di coloro che erano fin dall’inizio del regime restati al suo fianco anche nei momenti più difficili: mantenere sempre la situazione in equilibrio emarginando i dissidenti, salvo un loro reintegro nella gerarchia se esso fosse stato utile ai suoi scopi e l’interessato avesse dato utili segni di resipiscenza.

Altra sua preoccupazione fu di impedire sempre che qualcuno assumesse il ruolo di suo successore nella guida del partito e del Paese: quando intravedeva segni in tal senso si preoccupava immediatamente di ridimensionare l’importanza di chi aveva pensato di prendere un giorno il suo posto privandolo della carica rivestita e destinandolo ad altra di minore importanza.

Scrisse Sergio Panunzio, uno dei maggiori teorici dello Stato fascista (Teoria generale dello Stato fascista, Padova, 1935, pag. 168) che “nel nostro regime i Ministri altro non sono che dei collaboratori tecnici del Capo del Governo”.

Mussolini adottò questo principio anche con Alfredo Rocco, sottosegretario alle finanze e all’assistenza militare (1922 — 23), Presidente della Camera (1924 — 25) e Ministro della giustizia dal 1925 al 1928: seppe dai giornali di essere stato rimosso dal suo incarico mentre era a Ginevra, senza alcuna motivazione.

Lo stesso accadde con Italo Balbo, il “ras” di Ferrara, un uomo che amava l’avventura, perennemente in posizione critica nei confronti di Mussolini, comandante di una colonna nella Marcia su Roma, di cui fu acceso sostenitore, sottosegretario all’economia (1925) e poi all’Aeronautica, autore tra la fine degli anni ’20 e l’inizio del decennio successivo di audaci imprese aeronautiche, per le quali acquistò grande popolarità. Il 5 novembre 1933 fu nominato Governatore della Libia, alla periferia del potere fascista, una posizione da cui difficilmente avrebbe potuto insidiare la popolarità del Capo. Molti gerarchi si rallegrarono del suo dorato esilio: Ciano lo odiava ed era ricambiato dello stesso sentimento ma i suoi rapporti erano tesi anche con De Bono e De Vecchi, accusati a suo tempo di scarso entusiasmo per la marcia su Roma.

Balbo fu uno dei pochi nel 1938 ad esprimere a Mussolini critiche a proposito delle leggi razziali, una delle questioni di principio sulle quali era possibile costruire una dissidenza interna al fascismo, cui inizialmente avevano aderito anche alcuni ebrei come Aldo Finzi, che partecipò alla marcia su Roma, fu sottosegretario agli interni al momento del delitto Matteotti, si pose in posizione critica nei confronti del partito, da cui fu espulso nel 1942, e finì fucilato a Roma alle Fosse Ardeatine (1944) per l’aiuto dato alla Resistenza.

Prevalse il timore di contrastare la linea imposta da Mussolini a proposito della “difesa della razza” e quasi tutti si adeguarono: Farinacci sostenne che il problema era politico e che nulla aveva a che fare con la razza, mentre ambiguo apparve l’atteggiamento di Bottai, in quel momento Ministro della educazione nazionale, che sembrò critico nei confronti della legge ma poi diede ad essa, per quanto riguardava il mondo della scuola, rigida attuazione.

Bottai, per riconoscimento generale uno degli uomini migliori del fascismo per intelligenza e cultura, era con la sua rivista “Critica fascista” su posizioni critiche nei confronti del fascismo, che a suo avviso doveva cercare il consenso dei moderati valorizzando però le masse popolari. Era una linea politica che irritava Mussolini, che però riconosceva i meriti di Bottai che nel 1926 divenne prima sottosegretario e poi Ministro delle corporazioni. Varò (1925) la “carta del lavoro” dopo duri scontri sia con Rossoni, che avrebbe voluto costituita una unica confederazione dei sindacati dei lavoratori, che sarebbe diventata in tal modo potentissima, sia con gli industriali più legati al fascismo (Volpi, Cini) che alla fine riuscirono, attraverso Mussolini, a condizionarlo.

Nel 1932 Bottai viene allontanato e confinato in cariche di secondo piano (Presidente I.N.P.S., Governatore di Roma, Governatore di Addis Abeba) per divenire di nuovo (1936) ministro, questa volta dell’educazione nazionale: varò (1939) la Carta della scuola, che innovò e rese più moderna la riforma della scuola operata da Giovanni Gentile (1923). La sua polemica nei confronti di Mussolini divenne sempre più dura, così come andò crescendo la delusione nei confronti della esperienza fascista e la consapevolezza della crisi ormai vicina.

L’epilogo del regime fascista

È a questo punto che iniziò l’epilogo del regime fascista: Bottai, che nel febbraio 1943 perderà il ministero dell’educazione nazionale, nel quadro di un generale “cambio della guardia” operato da Mussolini nell’estremo tentativo di uscire dalla crisi, trovò un’intesa con Galeazzo Ciano, con il quale era da sempre in buoni rapporti, e con Dino Grandi, per una iniziativa che portasse ad una svolta nel regime.

Fu una scelta che pagherà duramente: in seguito alla sua adesione all’ordine del giorno Grandi nella seduta del Gran Consiglio del 1925 sarà costretto a fuggire all’estero per sottrarsi all’arresto da parte della polizia della R.S.I.: militerà per quattro anni nella Legione straniera francese per tornare in Italia nel 1948.

Grandi, ex squadrista, aveva saputo negli anni costruire una rete di relazioni personali che si riveleranno preziose. Sottosegretario agli interni nel 1924 con l’incarico di smobilitare le squadre d’azione (verranno parzialmente integrate nella neonata Milizia volontaria per la sicurezza nazionale) l’anno successivo divenne sottosegretario e poi (1929) Ministro degli esteri, incarico che mantenne fino al 1932 per divenire ambasciatore a Londra, occasione per intessere una fitta rete di amicizie nella diplomazia e nel mondo politico inglese e con Churchill in particolare.

Nel 1939 lasciò l’ambasciata a Londra e divenne prima Ministro di grazia e giustizia e poi, nello stesso anno, Presidente della Camera dei fasci e delle corporazioni, che aveva sostituito la Camera dei deputati. composta da rappresentanti delle corporazioni e del partito.

Nettamente contrario all’alleanza con la Germania e all’entrata in guerra dell’Italia, nel 1941 combattè sul fronte greco. Tornato in Italia, fino al febbraio 1943 restò ministro per poi perdere ogni incarico pubblico. Fu il momento della intensificazione dei rapporti con il re, attraverso il Duca di Aquarone, ministro della real casa, e con Ciano e Bottai per preparare una alternativa a Mussolini nella guida del Paese, pur conservando il potere al fascismo.

È la trama che troverà espressione nell’ordine del giorno presentato da Grandi e sottoscritto da altri 18 esponenti del regime alla seduta del gran Consiglio il 25 luglio 1943 e che segnerà, al di là delle intenzioni dei suoi firmatari, la fine del regime fascista.

Fu la prima ed unica volta in cui i dissenzienti dalla linea politica imposta da Mussolini riuscirono ad organizzare il dissenso mettendo in minoranza il Capo: Grandi sarà tra quelli del suo gruppo che riuscirà a salvare la pelle dalla vendetta: oltre a Ciano e al vecchio De Bono, dopo un sommario processo dinanzi ad un Tribunale speciale, saranno fucilati (1944) a Verona Luciano Gottardi, ex Presidente della Confederazione dei lavoratori dell’industria, Giovanni Marinelli, segretario amministrativo del Partito, nel 1924 capo del nucleo di polizia segreta fascista alla quale viene ricondotta l’uccisione di Matteotti, e Carlo Pareschi, ex segretario della Confederazione fascista degli agricoltori e nel 1941 Ministro dell’agricoltura: favorevoli all’ordine del giorno Grandi erano stati catturati dopo l’8 settembre.

Uscì vivo dal processo di Verona, condannato ad una pena detentiva, solo Tullio Cianetti, Ministro delle corporazioni, che aveva ritirato il suo voto favorevole prima della fine della seduta del Gran Consiglio.

Si trattava, salvo che per Ciano e De Bono, di personaggi del tutto secondari nella scena politica, che mai avevano manifestato il loro dissenso alla linea politica di Mussolini, che espressero il loro voto probabilmente senza nemmeno rendersi conto delle sue conseguenze e funsero da capri espiatori per un avvenimento più grande della loro statura politica.

Restò invece a difendere fino in fondo le posizioni politiche mussoliniane Roberto Farinacci, detto “la suocera del regime” per le sue continue e lo persistenti critiche a questo o a quell’esponente politico ed allo stesso Mussolini, al quale peraltro restò fedele fino alla fine.

Anche Farinacci proveniva dallo squadrismo: ferroviere a Cremona, anche se molisano di origine, interventista, fu con Mussolini tra i fondatori (1919) a Milano dei fasci italiani di combattimento. Divenne presto il “ras” di Cremona, fautore di una linea politica dura ed intransigente, in polemica spesso con Mussolini. Segretario del Partito nazionale fascista nel febbraio 1925, fu costretto da Mussolini tredici mesi dopo ad abbandonare la carica per il suo estremismo, che lo pone in rotta di collisione con tutti i gerarchi fascisti nei confronti dei quali spesso sferrava duri attacchi: fu ilcaso di Augusto Turati, che gli successe nella segreteria del partito e lo restò fino al 1930, quando si dimise anche per una campagna scandalistica montata nei suoi confronti tanto da essere (1932) espulso dal partito ed esiliato a Rodi per cinque anni per poi scomparire definitivamente dalla scena politica.

Altro bersaglio preferito di Farinacci era Guido Buffarini Guidi, dal 1933 al 1943 sottosegretario agli interni, che, in concorrenza con il Capo della polizia Bocchini tendeva al controllo occulto del Paese, in possesso di molte informazioni riguardanti gli uomini più in vista del fascismo, tra cui Farinacci.

Di dicerie su di lui, un isolato nel partito avente Mussolini, in nome degli antichi rapporti, come unico interlocutore, ne correvano molte, tra cui quella di essere divenuto, dopo aver conseguito la laurea in legge ed aver difeso Amerigo Dumini, accusato dell’uccisione di Giacomo Matteotti, l’avvocato più caro d’Italia non per la sua abilità ma per il potere che il suo nome evocava: fu forse anche questo (relativo) isolamento che lo condusse, dopo la partecipazione alla guerra d’Etiopia, in cui perse una mano, ad assumere fin dal 1936 un atteggiamento nettamente filo – tedesco, favorevole alla guerra accanto alla Germania anche quando le sorti del conflitto si mettono al peggio.

Il 25 giugno 1943, alla seduta del Gran Consiglio del fascismo, presentò una sua mozione nettamente filonazista: vestito da ufficiale tedesco dopo l’8 settembre 1943 fuggì in Germania. Si presentò a Hitler e pose la sua candidatura alla successione di Mussolini con l’appoggio tedesco ma Hitler non si fidò. Farinacci tornò in Italia, aderì alla R.S.I. ma restò privo di incarichi di governo, a Cremona. Dopo il 25 aprile 1945 tentò la fuga in Svizzera ma venne catturato dai partigiani e fucilato a Vimercate il 28 aprile.

Farinacci confidò che la sua incrollabile fede fascista gli avrebbe garantito con l’appoggio tedesco la successione a Mussolini: era lo stesso fine perseguito, con mezzi del tutto diversi, da Galeazzo Ciano, che di Mussolini era il genero. Intelligente, ambizioso, privo di scrupoli, ricco e con un nome che nel fascismo contava (suo padre Costanzo Ciano era stato fin dall’inizio con Mussolini, che lo aveva voluto fino alla sua morte Presidente della Camera dei deputati).

Ciano, che amava e al tempo stesso odiava il suocero, riteneva di essere il suo erede naturale e si comportava di conseguenza. Sottosegretario (1934) e poi ministro (1935) per la stampa e la propaganda, prese parte al conflitto etiopico e nel 1936 venne nominato ministro degli esteri. Divenne filotedesco, appoggiò la politica espansionista italiana in Africa voluta da Mussolini, firmò (1939) per l’Italia il “Patto d’acciaio” con la Germania ed il Giappone, spinse (1939) per l’occupazione italiana dell’Albania: a questo punto mostrò di rendersi conto che l’alleanza con la Germania nazista avrebbe portato l’Italia alla guerra, prese le distanze dai tedeschi e divenne portavoce del pacifismo fascista.

La sua linea politica sembrò premiata quando nell’ottobre 1939 Mussolini formò un nuovo governo in cui Alessandro Pavolini divenne Ministro della cultura popolare e Ettore Muti sostituì Starace nella segreteria del P.N.F.: entrambi erano legati a Ciano.

Il 16 dicembre Ciano tenne un discorso alla Camera nettamente antitedesco e favorevole alla neutralità italiana nella guerra già iniziata con la invasione tedesca della Polonia. Hitler non perdonerà mai a Ciano il mutamento di fronte: il suo odio sarà decisivo quando si tratterà della sua fucilazione a Verona.

Nell’ottobre 1940 fu Ciano a consigliare a Mussolini l’intervento militare in Grecia che avrà alla fine un bilancio disastroso per l’Italia (40mila morti e 115mila feriti). Ciano divenne uno dei gerarchi più impopolari, se ne rese conto e riempì i suoi “Diari” di giudizi critici su Mussolini e sui principali uomini del regime, da Balbo ad Anfuso, fino allo stesso Muti, che pure aveva voluto segretario del Partito.

Il 5 febbraio 1943 Mussolini sostituì Ciano al Ministero degli esteri e lo nominò ambasciatore presso la Santa Sede. Fu un ulteriore incentivo per lui ad entrare a far parte del complotto Grandi — Bottai contro Mussolini che il 25 luglio 1943 porterà al crollo del regime fascista.

Dopo l’8 settembre 1943 tentò una ulteriore carta: la riappacificazione con Mussolini. Lo incontrò il 19 settembre in Germania, usò toni concilianti, come se nulla fosse avvenuto, ma Mussolini non era d’accordo. I tedeschi lo trasferirono in Italia dove venne preso in consegna dalle autorità della R.S.I. e rinchiuso nel carcere degli Scalzi a Verona, città dove sarà fucilato l’11 gennaio 1944, malgrado i ripetuti sforzi di sua moglie Edda per ottenere dal padre la grazia.

Ad impedirla fu, tra gli altri, Alessandro Pavolini, un tempo legato da stretta amicizia a Ciano e che dopo l’8 settembre aveva aderito alla R.S.I. in nome del fascismo più duro ed intransigente. Ottenne da Mussolini la segreteria del Partito fascista repubblicano e successivamente (30 giugno 1944) la costituzione delle Brigate nere, il braccio armato del partito, forte di 20.000 uomini, sostenuti dai tedeschi ed usati contro le formazioni partigiane nell’Italia settentrionale. Uomo colto, intelligente, proveniente da una famiglia della buona borghesia fiorentina, Pavolini, squadrista in erba (non aveva ancora 18 anni quando sparava contro i “rossi” nelle strade di Firenze), vissuto per molti anni all’ombra di Ciano e divenutone dopo il 25 luglio 1943 acerrimo nemico, fascista fanatico ed irriducibile, nella R.S.I. acquistò un potere enorme ma era un uomo solo, che vedeva lucidamente la fine dell’avventura ma non si arrendeva: presentò a Mussolini un piano per una estrema difesa in Valtellina, dove affermò che si sarebbero consumate “le Termopili del fascismo”, ma Mussolini, che inizialmente sembrava credere nel progetto, preferì poi tentare di fuggire verso la Svizzera.

Pavolini lo seguì ancora una volta: quando la colonna in fuga fu bloccata dai partigiani presso Dongo, Pavolini, restato bloccato da un incidente dell’autocarro su cui viaggiava, unico tra i gerarchi, ingaggiò un conflitto a fuoco con i partigiani. Ferito, fu catturato e il giorno successivo fucilato.

Alla stessa sorte andò incontro in quei giorni a Milano Achille Starace, segretario (forse il più noto) del P.N.F. dal 1931 al 1939. Nato a Gallipoli ma presto trasferitosi Milano, aderì fin dagli inizi al fascismo e organizzò le squadre di azione fasciste a Trento, di cui divenne il “ras”. Aggressivo, polemico, sembrò a Mussolini l’uomo adatto per assumere la segreteria del P.N.F. dopo Giuriati, un uomo proveniente dai nazionalisti che, nominato segretario del partito nel 1930, venne sostituito l’anno successivo per avere espulso per motivazioni varie dal partito 120.000 iscritti ed aver mostrato troppa autonomia da Mussolini, al punto di rifiutare per tre volte l’ordine di espellere dal partito Farinacci, di cui condivideva le critiche a proposito della corruzione e del malcostume di alcuni gerarchi.

Avversato duramente da Giovanni Marinelli, amico personale di Mussolini, segretario amministrativo del partito e chiamato in causa per l’uccisione di Matteotti (aderirà all’ordine del giorno Grandi e sarà fucilato a Verona nel 1944) Giuriati aveva invece una intesa con Carlo Scorza circa la necessità per il fascismo di limitare lo spazio dell’Azione cattolica, in conflitto con la Chiesa cattolica. Presidente della Camera dei deputati fino al 1934 quando fu nominato senatore, lascerà la politica attiva per uscirne brevemente nel luglio 1943, quando in una riunione con Mussolini formulerà critiche alla sua linea politica schierandosi sulle stesse posizioni di Grandi.

Starace fu un fedele esecutore delle direttive mussoliniane: riorganizzò il partito e si impegnò a fondo nella fascistizzazione del Paese imponendo comportamenti e slogan che fanno ancora oggi sorridere e sollecitarono allora le critiche dei gerarchi più attenti al ridicolo. I “fogli di disposizioni” del partito, attraverso i quali Starace stabiliva quale dovesse essere il comportamento del buon fascista, e la divisa nera dovevano rendere l’immagine del fascismo e della sua gerarchia.

In breve tempo Starace venne odiato da tutti gli esponenti fascisti di rilievo (Grandi diceva di lui “non è un cattivo uomo, è soltanto un pover’uomo”) ma il segretario del partito, forte dell’appoggio di Mussolini, non mostrò di volerne tenere conto. Indusse Mussolini (1933) ad imporre le dimissioni a Leandro Arpinati, capo del fascismo bolognese, sottosegretario agli interni nel 1929, un conservatore liberale contrario al corporativismo ed alla milizia, antinazionalista ed antimilitarista, che aveva espresso critiche nei confronti di Mussolini: Arpinati, espulso dal partito, inviò a Starace una lettera in cui lo definiva vile e mentitore.

Confinato a Lipari (1934) Arpinati rivedrà Mussolini nell’ottobre 1943, rifiuterà la Presidenza del Consiglio e sarà fucilato nel 1945 dai partigiani a Milano.

NeL 1938 Starace si schierò decisamente a favore delle leggi razziali entrando in polemica con quanti (Balbo, De Bono) erano molto critici in proposito. Il suo avversario più accanito fu Ciano, al quale Arturo Bocchini, capo della polizia e suo amico, forniva compromettenti informazioni su Starace. Alla fine, Ciano riuscì ad ottenere la sua sostituzione con Ettore Muti, che a Ciano era legato da lunga amicizia.

Starace rientrò nell’anonimato: venne arrestato e poi liberato dalla polizia della R.S.I. e fucilato a Milano dai partigiani il 28 aprile 1945.

A quel momento Muti, il suo successore, era già morto da tempo: volontario nella prima guerra mondiale, a Fiume con D’Annunzio, ras di Ravenna, console della Milizia portuale, pilota combattente in Etiopia, (1935) in Spagna (1936) e in Albania (1939) divenuto a 39 anni segretario del P.N.F., non riuscì a prendere le redini del partito, privo com’era di qualunque senso politico. Deluse presto le aspettative di Ciano che ne aveva voluto la nomina e l’anno successivo (1940) si dimise e tornò a combattere nella guerra appena iniziata. Nel 1943 era in Spagna per conto del servizio segreto dell’aeronautica militare: il 27 luglio tornò a Roma, chiese un colloquio a Umberto di Savoia, incontrò il Presidente del Consiglio Badoglio, ebbe contatti con il comando tedesco. Nella notte tra il 23 e il 24 agosto 1943 venne ucciso nella pineta di Fregene, presso Roma, da un gruppo di carabinieri in circostanze e per motivi restati a tutt’oggi avvolti nel mistero.

Un tragico destino di morte violenta sembrò abbattersi tra il 1943 e il 1945 su tutti gli uomini più potenti del regime fascista: furono pochi quelli che in qualche modo riuscirono a sopravvivere: tra le figure di primo piano, oltre a Grandi, che fuggì in Spagna prima che i tedeschi lo arrestassero, c’è Luigi Federzoni, un nazionalista deluso legato a Grandi e a De vecchi, nel 1922 ministro delle colonie, nel 1924 ministro degli interni, in lotta con Farinacci per ristabilire l’ordine, nel 1926 di nuovo ministro delle colonie fino al 1928 e poi, nominato senatore, Presidente del Senato dal 1929 fino al 1939. Pieno di rancore nei confronti di Mussolini per essere stato emarginato, alla seduta del Gran Consiglio del 25 luglio 1943 lo attaccò duramente. Anche lui riesce a sottrarsi all’arresto e a fuggire in Argentina: nel 1948 tornerà in Italia.

Anche Carlo Scorza, segretario del P.N.F. per pochi mesi nel 1943, riuscì quasi miracolosamente a sopravvivere alle ire del fascismo della R.S.I.: fascista della prima ora, federale di Lucca e di Forlì, membro del direttivo del P.N.F., era detestato da Starace, segretario del partito, che nel 1931 trasse occasione da una aggressione contro giovani dell’Azione cattolica per esonerarlo dall’incarico di federale. Starace era in prima fila nei contrasti tra il regime e l’organizzazione cattolica. Non gli restò altra via che andare a combattere prima in Etiopia, poi in Spagna e infine in Africa settentrionale. Circondato dalla fama di “uomo forte”, fu scelto da

Mussolini per la segreteria del partito con la speranza che sarebbe stato in grado di dare nuova energia ad un sistema che andava alla deriva, compito che Sforza cerca di assolvere affidando ai gerarchi il compito di tenere comizi nelle grandi città italiane colpite dai bombardamenti alleati.

Il 25 luglio 1943 tenne nella seduta del gran Consiglio un atteggiamento ambiguo, presentando un proprio ordine del giorno che ad alcuni sembrò concordato con Mussolini, con grande sorpresa di Grandi e Bottai, che ritenevano di averlo dalla loro parte.

I fascisti della R.S.I. lo arrestarono accusandolo di aver scritto una lettera a Badoglio in cui sembrava mettersi a sua disposizione: processato, fu assolto per un intervento a suo favore di Mussolini, che si fece inviare copia della sua deposizione. Liberato, si nascose fino a quando riuscì ad emigrare, per ritornare solo dopo molti anni in Italia.

In Svizzera riuscirà invece a fuggire Dino Alfieri: ex nazionalista, volontario della prima guerra mondiale, ferito e decorato, fu trainato da Ciano nelle alte sfere del potere. Sottosegretario al ministero delle corporazioni nel 1929, nel 1935 divenne sottosegretario al ministero della stampa e propaganda, con Ciano Ministro. Ne conquistò la fiducia e nel 1936, quando Ciano passò al Ministero degli esteri, gli subentrò nel ministero, divenuto poi della cultura popolare. Nel 1939 sostituì Attalico, inviso ai tedeschi, quale ambasciatore a Berlino.

In Germania Alfieri diede nuovamente prova della sua disponibilità ad eseguire gli ordini: quando Ciano diventò antitedesco, Alfieri dimenticò l’amico per seguire le direttive di Mussolini che non lo stimava ma lo mantenne nella carica fino alla fine, malgrado gli attacchi del Ministro degli Esteri Ciano. Il 25 luglio votò a favore dell’ordine del giorno Grandi: ricercato dalla polizia dell’R.S.I. nei mesi successivi, condannato a morte in contumacia al processo di Verona, riuscì a fuggire in Svizzera. Dopo il 1945 tornò in Italia, fu processato ed assolto ed in seguito ricoprì importanti incarichi in organizzazioni internazionali.

Anche Giacomo Acerbo, un altro di coloro che avevano aderito il 25 luglio 1943 all’ordine del giorno Grandi, riuscì a sfuggire alla vendetta di Mussolini. Interventista, volontario nella I guerra mondiale, eletto alla Camera dei deputati nelle liste del Blocco Nazionale (1921), uomo della destra moderata, aderì al fascismo e fu sottosegretario alla Presidenza del Consiglio quando Mussolini formò (1922) il suo primo Governo. Coinvolto nel delitto Matteotti, lasciò la carica per divenire poi dal 1926 al 1929 Vicepresidente della Camera dei deputati e successivamente Ministro dell’agricoltura.

Nel fascismo rappresentò la destra moderata e filo monarchica in posizione defilata rispetto alla politica del regime che talvolta mostrò di non condividere, come sembrerebbe a proposito delle leggi razziali, questione che nel suo libro su “I fondamenti della dottrina fascista della razza” sembra voler ridurre a un problema politico, ciò che lo rese inviso ai fascisti razzisti come Giovanni Preziosi e Telesio Interlandi, che in un articolo su “Il Tevere” del 24 settembre 1938 lo definì “il più autentico dei marrani”. Dopo il 25 luglio 1943 si rifugiò a Loreto Aprutino, suo paese natio in Abruzzo, dove fu catturato dagli Alleati. Condannato a 48 anni di reclusione dall’Alta Corte di Giustizia con una sentenza poi annullata dalla Corte di Cassazione, fu poi riabilitato e riammesso all’insegnamento universitario.


Bibliografia

  • Renzo De Felice, Mussolini, Torino.
  • Marco Innocenti, I gerarchi del fascismo, Milano, 1992.
  • Piero Milza, Storia del fascismo, Milano, 1982.
  • Luigi Salvatorelli — Giovanni Mira, Storia d’Italia nel periodo fascista, Torino, 1964.
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Mario Pacelli

Mario Pacelli è stato docente di Diritto pubblico nell'Università di Roma La Sapienza, per lunghi anni funzionario della Camera dei deputati. Ha scritto numerosi studi di storia parlamentare, tra cui Le radici di Montecitorio (1984), Bella gente (1992), Interno Montecitorio (2000), Il colle più alto (2017). Ha collaborato con il «Corriere della Sera» e «Il Messaggero».

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