Un tempo c’erano i sumeri, fenici, greci, ma soprattutto i romani, antichi conquistatori alla spasmodica ricerca di espandere l’Impero.
Poi è stato il tempo dei conquistadores spagnoli e portoghesi: soldati, esploratori, avventurieri che portarono gran parte delle Americhe sotto il controllo dell’impero coloniale spagnolo tra il XV e il XVII secolo. Tutti sappiamo come andarono quelle spedizioni: la colonizzazione fu caratterizzata dalla violenza dei conquistatori che sterminarono i conquistati. Le popolazioni locali furono spazzate via, distrussero intere civiltà e si avviò lo sfruttamento economico dei nuovi territori.
A distanza di 500 anni assistiamo ad una nuova conquista, una nuova forma di colonialismo, con i padroni della Rete che sono i moderni conquistadores. E’ vero, non si conquistano territori reali (per definizione la Rete è virtuale), ma genti: i conquistati stavolta siamo noi, tutti.
“In pochi altri momenti della storia le persone sono diventate prodotti: abbiamo avuto la tratta degli schiavi, la prostituzione, ed oggi il mercato dei dati”, scrive Christopher Wylie, ex direttore della ricerca di Cambridge Analytica, che prosegue il suo ragionamento proprio con un parallelismo tra colonialismo e neo-colonialismo.
“Penso che il colonialismo sia un esempio storico efficace per spiegare cosa succede quando lungo il cammino dell’umanità scatta una corsa ad appropriarsi delle risorse e delle persone in una terra di frontiera […] I colonizzatori venivano spesso considerati figure divine: avevano la polvere da sparo, le corazze, le navi… erano portatori di una tecnologia superiore, ma non erano altro che conquistatori. Il parallelo con quanto sta avvenendo nel mondo del digitale è evidente: abbiamo cominciato a considerare come semidei coloro che hanno rivoluzionato questa industria, ma in realtà sono solo persone che stanno entrando in questa nuova terra, esattamente come fecero i conquistadores con la popolazione indigena. Solo che questa volta gli indigeni (e la risorsa da sfruttare) siamo noi”.
Proprio dopo lo scandalo Facebook / Cambridge Analytica (l’uso scorretto di un’enorme quantità di dati prelevati da Facebook, da parte di un’azienda di consulenza e per il marketing online, appunto Cambridge Analytica, che avrebbe favorito l’elezione di Donald Trump, condizionato il referendum sulla Brexit e tessuto relazioni “pericolose” con la Russia di Putin) qualcosa si è mosso a livello di opinione pubblica. Nel frattempo è entrato in vigore il nuovo regolamento europeo sulla privacy (noto come GDPR).
Resta il fatto che nessuno sa dire con certezza quanti e quali dei nostri dati personali sono in possesso dei grandi player mondiali di Internet (Facebook, Amazon, Google, per citarne solo alcuni). Dati digitalizzati che non vengono più considerati “data as oil” (dati come petrolio) da raffinare per “estrarre” informazioni, (ed essere rivendute), ma “data as currency” (dati come moneta), essi stessa moneta.
La prossima rivoluzione capitalistica vedrà il dato come “capitale”, in sostituzione del denaro. Secondo Viktor Mayer-Schonberger, professore all’Università di Oxford e tra i massimi studiosi di big data, siamo alla vigilia di una nuova rivoluzione industriale, tanto epocale quanto la prima, che reinventerà il capitalismo.
Scrive Mayer-Schonberger: “Oggi un numero limitato di aziende gestisce i dati, quindi guida i mercati, rendendo il capitalismo più simile ad un’economia pianificata che ad una economia di mercato. Grandi aziende ci consigliano non solo dove e come, ma anche cosa comprare […]. Una soluzione (per contrastare questi monopoli ndr) potrebbe essere quello che io chiamo progressive data sharing […] Una condivisione progressiva dei dati cui si potrà arrivare solo previa regolamentazione, da parte dei governi, delle modalità in cui i dati sono raccolti, controllati e resi accessibili in maniera equa e condivisa da parte di tutti gli attori economici interessati”.
Interessanti esperimenti in proposito si iniziano ad intravedere all’orizzonte (molti basati su tecnologia Blockchain), uno molto interessante prevede ad esempio la possibilità per gli editori online di concedere la possibilità agli utenti mobile di scegliere se pagare l’accesso a contenuti con i propri dati anziché con la moneta tradizionale. Il cerchio si chiude: data as currency diventa realtà.
Soluzioni che riconoscano pari valore al dato rispetto alla moneta sono forse il futuro del marketplace digitale: una opzione che permette di scegliere se pagare un prezzo equo in cambio di un’esperienza che non richiede la condivisione dei dati da valore al dato e ripristina e rafforza la fiducia degli utenti nel player che la propone.
Ci informiamo… e vi teniamo aggiornati! 😉
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