Partiamo dalla realtà. La campagna olearia si sta concludendo e il bilancio è negativo: sono state prodotte meno di 300.000 tonnellate di olio. E’ un evento straordinario, un incidente, forse è colpa dei cambiamenti climatici? Più vicino alla verità è che si tratti di un risultato largamente prevedibile: il frutto avvelenato di scelte sbagliate, di errori fatti tanto tempo fa e ripetuti per tanto tempo. L’Italia è mercato che consuma un milione di tonnellate di olio d’ oliva l’anno: invece di attuare un piano di reimpianti e quindi produrre più olive, abbiamo scelto di bleffare dichiarando produzioni che non facevamo per qualche sussidio in più.
Per questa strada abbiamo favorito lo sviluppo di una fiorente industria di confezionamento di olio d’importazione, un’industria che non produce nulla, che l’olio lo passa, come dice la pubblicità, di mano in mano fino al “povero” consumatore che, con soli due euro, è convinto di acquistare un buon extravergine per la sua insalata, mentre il suo omonimo negli USA pensa con 6 dollari di comprare una bottiglia di “vero” italiano. Intanto le banche spagnole, proprietarie di Bertolli e Carapelli, sospettate di utilizzare i famosi marchi italiani per “commercializzare sottobanco olio spagnolo”, come sottolinea una ricerca di Eurispes, hanno un nuovo piano strategico: trasformare il core business dell’olio in nuovi condimenti “meno costosi e più nutrienti dell’olio d’oliva”, come ci informa il Corriere della Sera.
Diamo a Cesare quel che è di Cesare: un anno fa l’onorevole Colomba Mongiello ci ha dato una buona legge che attende soltanto di essere applicata, con il necessario rigore, una volta che a Bruxelles la smetteranno di farsi dettare le norme dalla lobby della cosiddetta industria olearia. Intanto nella sala stampa della Camera dei Deputati mercoledì 29 gennaio è stato presentato il libro del giornalista americano Tom Mueller “Extraverginità, il sublime e scandaloso mondo dell’olio d’oliva”, mentre a New York un autorevole giornale pubblicava un fumetto sul tema “l’olio taroccato che ci mandano dall’Italia è il suicidio dell’extravergine”. Apriti cielo! Tra le tante diverse reazioni spicca quella di due associazioni, Federolio e Assitol, note agli addetti ai lavori per essere quelle che organizzano e rappresentano gli interessi di famosi marchi dell’industria di confezionamento del nostro Paese, dagli spagnoli di Bertolli e Carapelli agli italiani di Farchioni e De Santis.
Per non citare quel Francesco Fusi, titolare dell’azienda Valpesana, che attende il rinvio a giudizio richiesto dal p.m. Natalini della Procura di Siena per frode in commercio avendogli, la Guardia di Finanza, sequestrato 8000 tonnellate di olio contraffatto d’importazione classificato come extravergine italiano. La domanda è legittima: quanto di quest’olio sta nelle bottiglie da 2 euro nei supermercati italiani e quanto in quelle da 6 dollari che stanno sugli scaffali americani. Questo è il “suicidio” di cui parla il New York Times.
La Coldiretti, l’Unaprol e l’AIFO sono scese in campo, sostenuti dal Ministero delle Politiche agricole, contro le frodi e in difesa del vero, autentico olio italiano con un progetto di informazione e promozione che va dalla televisione ai punti vendita della GDO. E’ un segnale importante: sembra che le cose possono cambiare e forse stanno già cambiando. Mostra di crederci un gruppo di imprenditori di AIFO, che – rivendicando di essere l’unica realtà produttiva dell’olio extravergine italiano e non rinunciando all’idea di rispettare il diritto dei consumatori ad avere un cibo buono, sano e al giusto prezzo – producono e vendono un olio di cui è certa l’origine del frutto, trasparente il processo di produzione e stoccaggio, garantito il know how del mastro oleario, valorizzata la diversità e originalità dei prodotti per la soddisfazione di tutti i gusti. In definitiva l’olio dei frantoi artigiani: un extravergine di alta qualità, ottenuto con un processo produttivo certificato, garantito da un artigiano che fa della sua creatività e professionalità il valore aggiunto del suo prodotto.
E così è nato CONFADI, il Consorzio dei frantoi artigiani guidati da Stefano Caroli. L’obiettivo non è certo quello di vendere qualche bottiglia in più, né quello di mettersi un fiore all’occhiello, ma piuttosto organizzare un nuovo mercato “specialità” contando sulla lungimiranza di alcuni grandi operatori della GDO, sui nuovi indirizzi del Ministero dell’Agricoltura e sulla base di un sistema di imprese che rispetta i valori del prodotto e del produttore . Sarà bene che importatori e confezionatori di oli comunitari ed extracomunitari, azionisti e manager, se ne facciano una ragione: l’olio artigianale esiste ed è l’unica riscossa possibile dell’olio italiano.
Con questa consapevolezza e partendo dalla crisi che sta investendo l’attuale vecchio sistema commerciale dobbiamo aprirci a idee nuove per lo sviluppo: l’impresa artigiana del cibo, che costituisce il tessuto produttivo del mondo agroalimentare italiano, si è sempre trovata di fronte ostacoli che hanno impedito il successo pieno del suo prodotto. Infatti il problema principale è il valore del prodotto, perché non è sufficiente mettere a punto “prodotti specialità”, ma è necessario far nascere “mercati specialità”. Pensare ancora che basti fare il prodotto tipico o naturale e inserirlo all’interno di mercati competitivi per avere distintività e successo è assolutamente velleitario. L’esperienza di migliaia di piccole aziende sta lì a dimostrare che l’operazione “nicchia” non solo non funziona, ma crea un indebito vantaggio ai prodotti speculativi dell’industria che, sfruttando le virtù e le qualità dei prodotti artigianali, ne hanno capitalizzato gli aspetti qualitativi – assumendone spesso i connotati – e vincendo la partita sul piano economico.
“Guadagnare con le nicchie non è affatto facile: di solito i cibi particolari vengono lavorati da piccole imprese, che fanno fatica a produrre grandi quantità di merce, a distribuirla”, ha scritto il presidente del Censis, Giuseppe De Rita, “è questa la sfida futura del settore agroalimentare italiano: continuare a puntare sulle diversità, riuscendo allo stesso tempo ad accrescere il volume della produzione e delle vendite”.
Questa è la sfida dei frantoiani, degli artigiani del cibo, che si può vincere alla condizione di fare sistema e di creare un nuovo mercato.
Poi la parola passa al consumatore.
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