Il 20 gennaio sarà esattamente il centenario della nascita di Federico Fellini, nato a Rimini appunto nel 1920 e scomparso a Roma il 31 ottobre del 1993 a soli 73 anni. Da Lo sceicco bianco (1952) a La voce della Luna (1990) ci ha lasciato ventiquattro film veri e propri e una trentina di sceneggiature scritte per altri registi. Quattro volte ha vinto l’Oscar per il miglior film straniero (La strada, Le notti di Cabiria, 8½, Amarcord), ha vinto due volte il Festival di Mosca, una Palma d’oro a Cannes e il Leone d’oro a Venezia alla carriera nel 1985. Nel mondo è tuttora considerato uno degli interpreti più creativi – dentro e fuori gli stereotipi – dell’identità italiana contemporanea. Con quelle forme oniriche e visionarie capaci di trasformare il provincialismo nel carattere di un universo immaginario. 8 e mezzo arrivò sugli schermi nel 1963, con l’Italia in bilico tra passato e futuro. Avvicinò categorie antagoniste (pubblico e privato, sogno e realtà, possibile e impossibile, vero e falso, eccetera) così da dare una robusta pedata verso la modernità.
Enrico Giacovelli ha riunito quaranta contributi internazionali per aggiornare in “Tutto Fellini” la lettura critica del regista, un mastodontico volume di 575 pagine, più altre 100 di illustrazioni (per quel che propone anche con un prezzo conveniente, 33€ nelle offerte in rete). Il libro appena uscito ora appare davvero come un esauriente commento al centenario[1].
Federico Fellini ha fatto parte di una trama umana, artistica, creativa di un’Italia straordinaria. Attori, sceneggiatori, musicisti, costumisti, scrittori, poeti, giornalisti. Mestieri che ha in parte praticato, in parte adoperato, in parte raccontato. Ennio Flaiano – uno di loro, uno dei più intricati nelle vicende – inizia così il suo “felliniano” Un marziano a Roma (libro del 1960 che Adelphi ha ripubblicato nel 2010): «Verso le sette ho incontrato pallido, sconvolto dall’emozione il mio amico Fellini. Egli si trovava al Pincio quando l’aeronave è discesa e sulle prime ha creduto si trattasse di un’allucinazione. Quando ha visto gente accorrere urlando e ha sentito dalla aeronave gridare secchi ordini in un italiano un po’ freddo e scolastico, Fellini ha capito. Travolto subito dalla folla, e calpestato, si è risvegliato senza scarpe, la giacca a pezzi. Ha girato per la villa come un ebete, a piedi nudi, cercando di trovare un’uscita qualsiasi. Io ero la prima persona amica che incontrava.»
Unisco qui un coriandolo all’evento del centenario. Due paginette scritte nel 2008, all’interno di una ampia raccolta di scritti civili di una vita (Quarantotto, Bompiani, 2008). Nel percorso della mia vita ci sono stati anche cinque anni di televisione (alla Rai, anche come assistente, dopo Paolo Grassi, di Sergio Zavoli alla presidenza) e tre anni di cinema (all’Istituto Luce, come direttore generale con la mission di riavviare l’attività produttiva e distributiva). Devo a Sergio – che ha condiviso con Federico Fellini ben di più della riminesità – la conoscenza diretta del maestro. Le paginette raccontano la vicenda. Credo emblematica di quel che si può immaginare essere una figura così, nel concreto mondo dello spettacolo in cui come tutti sanno due più non fa quasi mai quattro.
In questa rubrica alterno note dedicate anche all’immagine e all’identità italiana. Per cominciare il 2020, questo scampolo mi è parso la cosa più indovinata per parlare, in fondo, di questo.
Quando fu presentato a Roma quel Quarantotto, dodici anni fa, Giuliano Amato ebbe la cortesia di dire che questo su Fellini gli era parso il brano più sorprendente.
Un “progetto povero” per Federico Fellini [2]
Quello che segue è un appunto di memoria, risalente alla primavera del 1984. Dal febbraio 1982 dirigevo l’Istituto Luce e la fatica di riportare in vita il vecchio monumento dell’audiovisivo italiano era immensa. L’Italnoleggio cinematografico era stato chiuso e le funzioni distributive erano state incorporate nella società riorganizzata. Nel vecchio listino c’erano pagine straordinarie del cinema italiano, tra cui il film Roma di Federico Fellini. Fellini che aveva appena dato a Giovanni Grazzini una bella e lunga intervista sul cinema edita da Laterza. Lì pescai un’idea che doveva servire a noi, a Federico e al cinema italiano. L’amicizia con Sergio Zavoli aprì le porte a questa piccola, breve, infruttuosa, divertente vicenda.
Roma aprile 1984 – Non si fa davvero cinema in Italia se, prima o poi, non si trova l’occasione di misurarsi con i mostri sacri. Ci fa sempre così ridere Leo Pescarolo quando racconta i suoi primi giorni a Cinecittà, negli anni cinquanta, avendo spiegato ai suoi amici “camalli” a Genova che poi avrebbe raccontato tutto. E così, al ritorno al porto, questi a chiedere: “Ma la Gina l’hai vista? Ma Sophia l’hai avvicinata? E Nazzari ci sei diventato amico?”. E Leo che a malapena aveva varcato i sacri recinti era costretto a risposte vaghe. “Ma Leo insomma tu fai il cine o ci conti delle musse?”.
Dopo un anno di nomina a direttore generale di una società mezza cotta (l’Istituto Luce) e mezza defunta (l’Italnoleggio cinematografico), posso dire che giusto per essere uno noto per minimizzare le difficoltà ho accettato l’incarico e che ho passato mesi di ginnastica e lacrime. Ora grazie a inaspettati risultati (una palma d’oro con Gian Maria Volonté a Cannes e un leone d’oro con Robert Altman a Venezia, ma soprattutto un programma industriale che ci permette di negoziare creatività e risorse) mi sento pronto per bussare alle porte di chi ti consente di far dire, agli amici lontani, che effettivamente hai varcato i “sacri recinti” del cinema. Quei recinti li varco in verità tutti i giorni da trecentosessantacinque giorni e penso di aver maturato un ragionamento che vorrei fare addirittura al regista principe degli studi, al mito del teatro numero cinque. E, in più, ad un regista nel passato distribuito anche dall’Italnoleggio (il film Roma, con l’indimenticabile finale di Anna Magnani che sospira “A Federì, ma vaddormì…”). Appunto Federico Fellini.
Ci vado dopo un paio di “prove generali”. La prima con un discorso diciamo di mercato fatto con un amico e già collega nel gruppo Rai, Riccardo Tozzi, ora forza commerciale della Sacis. La nave va – pur splendido film – pare sia stato un disastro economico.
Dico a Riccardo che ora il maestro dovrebbe fare nel vero senso della parola “un film a basso costo”.
In sostanza un’altra Prova d’orchestra. Il cinema deve credere in Federico Fellini. E il passaggio obbligato è – per il presente e per il futuro – montare un’efficace operazione in cui ci guadagnino tutti. Togliendo il velo cupo che ombreggia il cinema di Fellini quando, dicono i produttori, esso si iscrive ormai nella storia della creatività ma nel registro delle passività. Il mio amico ne conviene. Il sostegno comincia a farsi stimolante.
E così la seconda prova generale è nella bella villa di Sergio Zavoli a Monte Porzio Catone.
Con Sergio la prendo letterariamente e sul suo stesso snodo identitario. Ho letto da pochi giorni la creativa intervista che Federico Fellini ha dato a Giovanni Grazzini, pubblicata nei tascabili di Laterza. C’è un passaggio in cui il maestro dipinge un cinemino di Rimini, il Fulgor, così importante dalla fine degli anni venti in poi perché sullo schermo passava il grande cinema del tempo (quello americano, quello popolare, quello dei divi e delle divine, quello d’avventura). Mentre la sala si popolava del mondo felliniano di Amarcord (il farmacista, il federale, lo spione, la culona, eccetera).
“Lo vedi anche tu Sergio il film da fare? Lo schermo, la sala, la storia del cinema con le scelte fatte da Federico Fellini. Ma ne convieni anche tu, Sergio, che l’operazione deve essere a basso costo?”
Non sono stato solo l’assistente di Sergio Zavoli in Rai – dove lui è ancora presidente, nella parte più elegante del “settimo piano” come lo chiamiamo noi – ma anche inevitabilmente un amico sempre sedotto dalle sue maniere, dalle sue paroline, dalle sue suadenze. È sempre attento alle cose che riguardano Federico Fellini. Si spende per l’amico geniale. Anche se i bilanci della Nave sono noti, lui guarda a Fellini come a un autore classico di cui in futuro nessuno parlerà per incassi e costi, ma per sogni e metafore. Per Fellini pensa sempre in grande. E pensa che ci sia sempre qualcuno nel sistema finanziario disposto a pensare in grande. Ciò detto condivide l’idea di un progetto “ridimensionato”. E propone di combinare lui stesso un propizio incontro.
Anche se il mio mestiere ora è quello della “gestione”, ricorro alla penna per scrivere io stesso le “quattro paginette” che dovrebbero servire ad affrontare il maestro con argomenti. Il costo deve stare nella ricostruzione della sala. Ma essa sarà popolata di comparse.
Il grottesco sociale di Fellini, in fondo, non ha bisogno di protagonisti. C’è già lui, nell’impronta di ogni scena. E qui poi il protagonista è il cinema. Anzi la sua storia. O meglio ancora la storia del cinema secondo Federico Fellini. Un’antologia di cinquant’anni di cinema, con tagli, spunti, associazioni, allusioni, omissioni e un solo autore per ridare a tanti autori il premio del loro posto in questo viaggio immaginario. Finito.
Diritti d’autore, certo. Montaggio, una grande mano. Musiche, di collegamento. Ma poi, alla fine, tutto qui. Tutto il mondo comprerebbe questa “occhiata” di Federico Fellini capace di riproporre ricordi collettivi universali.
Sergio Zavoli cela una punta di sospetto. Ma mi propone una serata al “Fico” (quello nuovo, che Fellini preferisce, che è un posto per banchetti di provincia, per matrimoni, piuttosto che quello vecchio, romanticamente inerpicato sulla strada tra Frascati e Grottaferrata).
La serata non servirà quasi a niente. Quando gli presento mia moglie Renata, lui tende la mano e come se fosse uno sconosciuto dice in un sussurrato riminese “piacere Fellini”. Solo per questo dettaglio c’è da ricordarsela. Quanto al progetto poca attenzione.
Sguardi, simpatia, frasi accennate, piccole liturgie di una corte bonaria (quella dei Rotunno e dei Notarianni, presenti al tavolo con Fellini). Cenni, vaghezze. Se ne parlerà altrove, per esempio sul set di uno spot pubblicitario (che Fellini chiama “filmino”) che si gira, naturalmente al teatro 5, per la Campari.
A fine pranzo, già in piedi tra i tavoli del “Fico”, lascio il mio appuntino, quasi scusandomi di aver parafrasato un brano della sua intervista. Quasi proteggendo l’incauta invasione – pur dilatata e razionalizzata – tra i suoi personaggi, ampliandone un po’ le caratteristiche e certamente dando corpo all’idea produttiva che l’intervista manteneva al di sotto della superficie del sogno ad occhi aperti.
Così arrivo (duecento metri dal mio abituale ufficio, anch’esso sotto i pini di Cinecittà, là dove un tempo il cinema italiano aveva conosciuto il “ristorante di lusso”, per distinguerlo dalle mense di campagna) al tempio, al tabernacolo, all’ara votiva. Davvero inteso così un po’ da tutti, ma in particolare per la presenza del suo più grande “sacerdote”. Cavi, polvere, tende, séparé. Poi altri cavi, reti, falegnameria (guai a chi trapianta accademicamente il cinema nel mondo dell’immaterialità!). Odori strani sul set. Un po’ bottega, un po’ campagna. Lui sta seduto come in una caricatura: dalla sciarpa al cappello, la semiologia felliniana è compiutamente rispettata.
Espressioni carine nei miei confronti. E una battuta a bruciapelo: “Allora la valigia dei miliardi, dove ce l’hai?”.
“Quali miliardi? Questo è un film da salvadanaio, eh…”
“No, miliardi, miliardini, pochi, dieci, dodici, così…”
“Ecco, ma il senso del mio appuntino…”
“L’appuntino, sì, carino, l’ho letto… anzi ho registrato la cosa alla Siae nel frattempo… ma va guardato con realismo…”
“Insomma ti convince l’idea?”
“Oh, sì, mi convince… anzi, io farei proprio un atto di polemica, una sorta di protesta contro la fine del cinema, perché penso proprio che alla fine del film arrivi una scavatrice che se lo porta via tutto quel cinemino… ci faranno dei supermarket, cosa vuoi, un garage…”
“Bene, bella idea, ma proprio perché c’è questo accento deve restare l’impianto dell’antologia, no?”
“Sì, ma insomma, devo rivedere, devo riguardare… non so… tu come te la immagini Mae West?”
“Federì… così com’era!” (questa frase l’ho pensata così, a bruciapelo, ma non l’ho detta).
Taccio perché capisco che – dopo i folgoranti dieci minuti di apertura della Nave (che coincidevano con l’analogo approccio della produzione di Zelig di Woody Allen) Federico Fellini, lui, la storia del cinema non la vuole spigolare dai cesti delle cineteche. Se la vuole rifare da cima a fondo, tirandola fuori dalla centrifuga delle sue categorie percettive, oniriche, estetiche. Geniale! Ma anche sconsideratamente costoso. Rumino mestamente la cosa tra me e me. “Va bene, maestro, ci aggiorniamo.”
Avevo fatto il mio primo anno di ginnastica. Ma evidentemente non bastava.
Lui riprenderà la cosa, con molta aderenza
persino, nella Intervista. A me
resterà comunque un sentimento allegro da questo episodio, con un briciolo di
apertura di credito personale che sta conservandosi proprio ora mentre scrivo
un anno dopo questa noterella, in cui lavoriamo – come distributori – al
successo di Ginger e Fred e che sarà
di riferimento nel dibattito tra cinema e televisione che penso si farà più duro
e su cui Fellini ha deciso di mettere il suo peso anche internazionale. Con Federico Fellini apriremo il listino
del Luce del prossimo anno e apriremo, se ci sarà concesso, con un film amaro e
polemico un dibattito sulla dignità e l’indegnità dello spettacolo italiano in
questi strani, importanti anni.
[1] Enrico Giacovelli, Tutto Fellini, prefazione di Michel Ciment, Gremese, dicembre 2019.
[2] Tratto da: Stefano Rolando, Quarantotto, Bompiani 2008 (pagg.262-265, capitolo “Dalla televisione al cinema”)
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