Idea-Azione

Perchè la socialdemocrazia è necessaria

Saggio politico di Giuseppe Scanni

Per conquistare un destino comune di opportunità ed equità, di libertà e giustizia, di esaltazione della Dichiarazione universale dei diritti umani, per allargare e difendere i diritti civili, sociali, economici di tutti i cittadini, per realizzare gli indirizzi progettuali e programmatici della Costituzione Repubblicana, per una nuova internazionalizzazione capace di rispondere mondialmente alle esigenze poste dalla Rete globale, per una democrazia rappresentativa che ricomponga la “frattura sociale”, accompagnata da “secessione sociale”, e che metta fine alla disqualità sociale in Europa e nel mondo sono necessari nella società complessa il Socialismo Democratico e l’Intermediazione.

Il Documento-appello è stato scritto ed elaborato da Giuseppe Scanni e presentato il 3 novembre a Roma presso il Circolo Lungara all’Ufficio di Presidenza, al Comitato di segreteria nazionale, ai Coordinatori regionali ed all’Assemblea della ASSOCIAZIONE SOCIALISMO XXI SECOLO, che, dopo ampia discussione, lo ha approvato e fatto proprio.

La stagione politica che stiamo vivendo è spesso definita come “Terza Repubblica”; disgraziatamente è soltanto la quinta fase della Prima Repubblica, considerando la seconda quella che va dal 1994 al 2011 (l’illusione del maggioritario), la terza quella aperta dal governo Monti e terminata con le elezioni del 2013 (il salvataggio dal default) e la quarta quella dei governi Letta, Renzi e Gentiloni (la seconda bis).

Il primo nodo da affrontare è quello attorno alla natura locale, europea o mondiale della crisi.

Noi affermiamo che, nonostante una peculiarità italiana e tedesca, la crisi che siamo chiamati ad affrontare e sanare è planetaria. La peculiarità tedesca italiana è legata al lento processo di formazione di uno Stato unitario, a fronte di quanto è accaduto in Europa. Gli storici definiscono la Germania e l’Italia le “nazioni in ritardo” dell’Europa, perché, nonostante le apparenze, sono nazioni che hanno conseguito più o meno negli stessi periodi e nello stesso tempo la loro unità statuale.

Il nostro paese “in ritardo” affronta un periodo di destrutturazione – che ci auguriamo breve – assai somigliante alla Seconda Repubblica francese (febbraio 1848-dicembre 1851), con la speranza che non si affacci alla ribalta un Napoleone III. C’è il rischio che la destrutturazione del sistema peggiori in decomposizione del sistema politico; c’è anche la possibilità, però, che finalmente si affaccino sulla scena italiana forze che abbiano almeno l’obiettivo della ricomposizione e del rilancio, se non proprio del Rinascimento. Insomma, la stagione che dopo aver celebrato e sperimentato al potere il populismo, lo archivi essendosi sufficientemente spaventata delle conseguenze.

A favore della seconda ipotesi è possibile argomentare che il raggiungimento del potere ha corrosivamente contaminato una forza anti-politica come i 5stelle, con la conseguente crisi di consenso che ne è velocemente derivata, e che il modello nazional-populista proposto da Salvini si è platealmente svelato fragile e di impalpabile consistenza, attivando una attenzione critica e preoccupata per la irritualità di atti governativi basati spesso sulla omissione delle regole imposte dalle Leggi e dalle norme in materia di gestione dei pubblici affari; e pur tuttavia non è possibile ignorare che nonostante la plateale irrisione delle Leggi il leader della Lega gode ancora di un forte favore.  

Lo spazio politico al “centro”

Il governo Conte2 è stato lo sbocco possibile, seppur non eccellente e tuttavia migliore rispetto a quelli che si erano profilati, della crisi dell’alleanza tra 5stelle e Lega, prodotta con incredibile imperizia sua, e fortuna nostra, da Salvini. Tuttavia anche il Conte 2 è corso, con i suoi vari componenti, ad insediarsi nel centro politico, che, con tutte le sue declinazioni: centro destra, destra centro, centro sinistra, centro nostalgico dei bei tempi che furono, occupa in Italia  uno spazio enorme, superiore al 70% dei voti espressi; chi non si riconosce nel centro è facilmente individuabile nella Destra dell’onorevole Meloni che si avvicina al 10% di consensi espressi; un’area non di centro della sinistra è difficilmente quantificabile e si è rifugiata nell’astensione.

Il tanto agognato spazio di centro, da occupare per dimostrare di saper governare o pretendere di essere ammessi al Governo, non permette la mediazione tra netti e diversi programmi, anzi, è divenuto, come dimostra la trasformazione dei 5S, un serio corroborante alla desertificazione ed alla fuga degli elettori, prevalentemente verso l’astensione, aumentando il disprezzo per un sistema politico che premia gli opportunismi, i personalismi, mentre il così agognato centro espone gli elettori alle sirene della demagogia e del populismo, mitigando qua e là la cultura della gramigna con la falce della mediazione pubblica esercitata del Presidente.

Quanto ci sia di ritardo storico sulla acquisita coscienza di partecipare alla vita dello Stato, che significa (lo spirito repubblicano) comprendere ed accettare limiti, mezzi, obiettivi della nazione che agisce in quanto Stato, cioè trasformare con impegno e generosità il progetto politico in una coerente attività quotidiana, e quanto invece le interrelazioni mondiali abbiano imposto scelte che ictu oculi appaiono demotivanti e che sembrano spingere  verso sponde populiste, termine generico ma intuitivamente espressivo.

La destrutturazione in corso, è nostra opinione, non può ricomporsi con furbizie tattiche; è necessaria una analisi coraggiosa delle reali motivazione della crisi mondiale e di forti ricomposizioni istituzionali su valori condivisi, chiari e non generici, di rispetto ed esaltazione dei diritti dell’uomo e del cittadino alla libertà, alla dignità del lavoro, alla parità di genere, alla eguale soddisfazione dei bisogni sociali, al comune rispetto dei diritti e dei doveri che- pur nella diversità generata dal merito- consentono l’esercizio di una effettiva eguaglianza.

È evidente la necessità di rianimare e rinnovare culture politiche che hanno radici solide nella storia europea, per garantire la selezione rigorosa delle classi dirigenti.

Partiti personali e leaderismo

Oggi effimeri partiti personali, votati al culto del leaderismo o, peggio, al ricatto della cinica speculazione suscitata dall’indispensabilità dei loro numeri nel gioco parlamentare o, sempre peggio, entrambe le motivazioni, impediscono una coerente ricostruzione del sistema politico.

L’esempio che possiamo sezionare in questi giorni è offerto dalla scissione dal PD di un numero consistente di parlamentari guidati dal senatore Matteo Renzi.

A prima vista Italia Viva appare un tentativo possibile per riconquistare la fiducia perduta dei ceti produttivi – intesi sia come imprenditori che come lavoratori – in gran parte collocati al Nord e che in questi anni hanno progressivamente abbandonato la sinistra ed il centro-sinistra, gonfiando il partito nazional populista di Salvini, mentre il ceto medio impiegatizio e i dimenticati del Sud sono stati alla base della crescita del fenomeno penta stellato.

Se decidessimo che quella di Renzi è una “roba” seria, allora bisognerebbe pronunciare un altisonante <Ben venga!>.  Se invece pensiamo che la proposta di ripopolare il centro collocandosi nell’area che, per diverse analisi sociologiche e demoscopiche, fu di Forza Italia; per rafforzarsi con consensi che non soltanto praticarono, e praticano, una forma di populismo che potremmo definire “istituzionale”, ma hanno anche chiaramente offerto l’occasione di nascere e prosperare a forze che non esitano, giorno per giorno, a vilipendere e offendere la democrazia rappresentativa. Il “rieccolo” toscano appare, allora, più utile per una conta interna ulteriore al Partito democratico che per far crescere una soluzione nazionale della crisi.

Fin dalla sua nascita il partito di Veltroni e Prodi è stato una contraddizione in termini: ha voluto essere contemporaneamente un partito socialdemocratico, popolare e liberaldemocratico; un’alchimia impossibile e non riuscita, che richiede un sistema elettorale maggioritario puro (inglese, americano o francese che sia), mentre non può convivere con il proporzionale – neanche quello attuale- che, seppure imbastardito da un terzo di maggioritario, induce alla creazione di due o più forze, destinate, in caso di necessità, ad allearsi. Non è un caso che quella di Renzi sia la terza scissione nella breve storia del Pd dopo Rutelli (2009) e Bersani-D’Alema (2017): nel dna piddino è scritto che il suo destino è la diaspora, anche se la storia delle scissioni a sinistra dimostra che la somma finale degli elettori è sempre inferiore ai dati iniziali.

Renzi non considera un’accusa quella che gli viene rimproverata, cioè di voler ereditare voti e ruolo di Berlusconi; anzi, così come ha fatto alla Leopolda, invita gli elettori “liberali” di Forza Italia a rinverdire la promessa Rivoluzione del 1994 con ed in Italia Viva. E forse non ha torto perché, a ben vedere, il tentativo di occupare lo spazio elettorale di altri è il sale della politica, della democrazia, altrimenti tutti i rapporti di forza rimarrebbero eternamente invariati. Il problema è che Berlusconi non rappresenta più i voti che furono della Democrazia Cristiana e dei socialisti, che sono già in parte emigrati nelle liste salviniane ed in parte astensione. Berlusconi, Forza Italia non sono più in grado di dare continuità a sé stessi, possono soltanto implorare l’adultero Salvini a ritornare nell’ormai defunto centro-destra di antica memoria, sventolando una carta che dichiarano essere un valido Passaporto europeo essenziale per il riconoscimento politico.

Il voto dei Cinque Stelle per la Presidentessa dell’Unione ha già stracciato questa ipotesi.

Così la mossa di Renzi, condita da un indubbio talento tattico si rivela per quella che è: altamente strumentale. Osservatori distratti tentano di raffigurare Renzi come epigono di un nuovo Ghino di Tacco; sottovalutando la statura inferiore a quella del suo inventore, Bettino Craxi. Osservatori distratti, a volte non soltanto per deficit mentale ma per opportunismo; comunque insultanti a fronte della storia vera del socialismo italiano degli ultimi venticinque anni dello scorso secolo. I socialisti avevano ben chiara la necessità di una ricomposizione socialista e democratica della sinistra, prima in posizione critica del Partito Comunista durante gli anni della diversa collaborazione con la Dc ed i suoi alleati nella esperienza dei governi di centro sinistra, poi, con il crollo del PCUS e dei Partiti comunisti dell’Europa orientale, incalzandoli per la creazione di una Unione Socialista, che nonostante i propositi pubblicamente assunti in Italia e nella Internazionale Socialista dai maggiori dirigenti del PCI e della Cosa, non vide mai la luce per le note vicende che bloccarono sin ad oggi lo sviluppo democratico, economico, sociale della nazione.

Ghino di Tacco, masnadiero di Radicofani e discendente da nobile famiglia, non è imitabile perché soltanto un politico di straordinaria levatura poteva, in pubblico, fare ironia su sé stesso e nel contempo infastidire, sbertucciando, con un nome de plume trasparente e conosciuto, sulle colonne dell’Avanti! persone e gruppi politici o economici o entrambi, ai quali era resa difficile la vita, perché operavano fuori dalle regole di sostanziale e non formale legittimità.

Renzi non è Fanfani né Craxi perché le sue operazioni incorporano un tasso di strumentalità che ha oscurato il progetto politico. Non è un caso che Renzi squaderni la sua attenzione prioritaria al centro politico che aveva raggruppato la destra, un minuto dopo aver proposto e ottenuto, in piena contraddizione con sé stesso, l’alleanza del Pd con gli odiati grillini. La “mossa” si configura con tutta evidenza come un gioco di palazzo teso a ricattare in sede parlamentare (al Senato i suoi 15 adepti fanno la differenza) il governo di cui è stato ostetrico, e per di più con obiettivi non tanto politici quanto di puro potere (i riferimenti alle prossime nomine e ad operazioni tra società a capitale pubblico sono talmente espliciti da essere sfacciati). E allora si comincia a dubitare, ed il dubbio diviene certezza quando non si trova nelle interviste nemmeno il tentativo di un documento politico-programmatico che accompagni la nascita di “Italia Viva”, mentre il senso strategico del disegno renziano appare – come sempre è stato – un riferimento autoreferenziale del leader, una sottolineatura alla coerenza o meno dei suoi comportamenti, alla traiettoria personale del suo agire. La credibilità in politica si basa molto non solo sulla rispettabilità degli argomenti, ma tanto sulla coerenza dei comportamenti; gli stessi italiani meno avvezzi alle sottigliezze della politica e più inclini al giudizio sui personaggi, si erano già abbondantemente stancati di Renzi dopo l’insopportabile, oltre che autolesionistica, personalizzazione del referendum costituzionale da lui voluto.

Renzi, Italia Viva e l’eredità politica del partito repubblicano

Pur volendo considerare la tattica politica necessario succedaneo del progetto, dei programmi, non si comprende come il furbo Rottamatore non abbia calcolato almeno tre cose di tutta evidenza. La prima: in Europa il suo “cespuglio” è considerato un fastidioso fattore di instabilità per la maggioranza che sorregge il Conte2, nato con il padrinaggio del trio von der Leyen-Merkel-Macron. La seconda: mettendo in piedi il proprio “negozio” ha rischiato, prima delle elezioni umbre, di cementare e rendere permanente l’alleanza tra Pd e 5stelle; il che avrebbe dovuto essere l’ultimo dei suoi obiettivi politici; soltanto il basso risultato elettorale e la rumorosa divisione interna legata alla contestazione di Luigi Di Maio, ha impedito la saldatura tra il vago centro pauperistico ed inter sociale rappresentato dal Movimento ed il Partito Democratico. La terza: un politico, all’epoca di secondo piano, che aveva vinto le primarie e raggiunto il 40% dei voti (Europee 2014) –  avrebbe dovuto far nascere una cosa nuova, ma, nel momento favorevole non riuscì nell’intento. Tanto più se si pensa che il presidente Conte – coperto da endorsement internazionali di prim’ordine e sorretto da sponde che si chiamano Quirinale, Vaticano e grandi imprese – ha dimostrato di saper trovare a Palazzo Madama, nelle votazioni che “contano”, i voti necessari a supportare il governo quando i senatori renziani faranno scattare il loro “ricatto”.

Così, oltre che dubitare della mossa, non si può non vacillare nel coltivare la speranza che siano Renzi e la sua neonata creatura a mettere sulla giusta strada la politica italiana.

Pochi giorni or sono, Giorgio La Malfa, nel commentare sul Foglio i frequenti riferimenti al Partito Repubblicano da parte di chi, come Renzi e Calenda, si sta attrezzando a costruirne uno simile, ha ricordato che il PRI fu un partito di estrema minoranza che nel dopoguerra superò il 4% solo in tre elezioni (1946, 1983 e 1992), ma ebbe il massimo peso e incidenza politica nonostante faticasse ad attestarsi sul 3%. E questo perché aveva un solido radicamento culturale, una classe dirigente di straordinario spessore, una visione politica di medio-lungo termine, che travalicava le Alpi, e una capacità di analisi dei fenomeni economici e sociali che gli consentiva una produzione programmatica di altissima qualità. Il suo andare oltre la consistenza elettorale, esprimendo un’influenza sui governi a guida altrui ben maggiore del drappello di parlamentari che aveva conquistato, non dipendeva certo da un “potere di ricatto”, ma perché del PRI non si poteva fare a meno sul piano politico.

Ecco, se il nostro disastrato – e perciò da ricostruire da zero – sistema politico tornerà ad essere il combinato disposto di grandi partiti popolari e di forze di minoranza, per nulla frustrate delle loro dimensioni perché capaci di influire sulle grandi scelte strategiche del Paese, allora saremo davvero sulla buona strada. Altrimenti continueremo ad essere preda del populismo, vuoi di massa che in formato mignon. La povertà intellettuale dei cooptati renziani è sotto gli occhi di tutti dopo l’ultima impietosa edizione della Leopolda. Lì non si è riusciti ad intendere alcun programma, alcun progetto nuovo per la società italiana all’interno del contesto internazionale. 

La mancanza di una seria analisi della crisi occidentale

Queste riflessioni, scritte ma da considerarsi come la premessa di un dialogo pronunciato a voce alta, ci accompagnano ad una necessaria analisi sulla natura della crisi occidentale, che non è soltanto italiana.

Il mai troppo lodato Giorgio Ruffolo ci insegnava che se gli economisti riuscissero a sognare, il loro sogno sarebbe quello di argomentare attorno ad una società dell’abbondanza. Il che li avrebbe incoscientemente portati al suicidio, perché la scienza economica è basata sul concetto di scarsità. L’importanza dei beni materiali e del loro uso razionale hanno contribuito al benessere della società più di qualsiasi diversa e romantica proposta di felicità.

Ogni economista classico, da Smith a Marx a Keynes, ha considerato la ricchezza e la sua crescita come un mezzo e non come un fine, perché prima di essere economisti erano umanisti; erano convinti che il segreto della crescita fosse il progresso tecnico che, sostituendo la macchina all’uomo, perseguiva il sogno dell’abbondanza.

John Maynard Keynes formulò la nota profezia secondo la quale il progresso tecnico si era talmente portato avanti che era possibile prevedere a breve la possibilità per gli uomini di procurarsi tutti i beni necessari al loro confort con due o tre ore di lavoro giornaliero, dedicando il resto del tempo al riposo, all’amore, alla cultura.

Il Novecento è stato il secolo che più ha avvicinato l’umanità alla concretizzazione del sogno.

Nell’insieme del Novecento la produzione complessiva di beni e servizi nel mondo è cresciuta del 2,9% annuo, il prodotto pro capite dell’1,4%, rispetto all’1,3 ed allo 0,8% dell’Ottocento; a cifre vicine al niente per cento nella media dei secoli precedenti.

Se come indice sintetico della “felicità pubblica” – sosteneva Ruffolo – si fosse assunto quello della durata media dell’esistenza (d’altronde sarebbe altrimenti grossolano comparare per la ricchezza quello del prodotto nazionale) constateremmo che la scommessa di vita è aumentata da meno di quarant’anni nel 1820 a circa 50 nel 1900 a 77 nell’ultimo decennio del XX secolo (60 nei paesi arretrati).

Le quattro fasi dello sviluppo economico e del benessere sociale del secolo che abbiamo alle spalle sono, genericamente, distinte in una prima belle époque di prosperità e aumento generalizzato del benessere, dal 1880 al 1914; una età dei torbidi da 1914 al 1945, segnata da guerre, disoccupazioni, conflitti sociali ed ideologici, stragi; una seconda belle époque di grande prosperità economica, relativa pace mondiale e di parallelo miglioramento del benessere sociale almeno fino agli anni ’70; una ulteriore fase, che è quella che viviamo, alla quale non sappiamo dare un nome perché il quadro che ci si presenta non è catastrofico, ma non è rassicurante. La depressione seguita alla crisi del 2008 è stata sicuramente per volume superiore a quella della fine degli ’30, ma è stata meno devastante, al punto che non pochi si riferiscono agli effetti della crisi come “decrescita felice”. La diminuzione della crescita ha messo in evidenza lo spettro dei suoi limiti e l’impellenza della sostenibilità ecologica, ha evidenziato l’inizio e il rafforzamento di incupimento sociale e di aumento del disagio a fronte del peggioramento della qualità della vita, inasprito dalla generica considerazione che alla inquietudine delle masse faccia riscontro un mal celato compiacimento degli “intellettuali”, dei “professoroni” identificati come gruppo dirigente.

Gli ultimi decenni sono già ricordati come quelli in cui è riesplosa la diseguaglianza. Sul banco degli imputati sono apparse le grandi ristrutturazioni del mercato del lavoro e del mercato dei capitali, compiute sotto il segno della deregolamentazione.

È evidente che l’aumento delle diseguaglianze ha corroso i nodi alla base della coesione sociale. Non esiste modo di conoscere esattamente nelle società complesse nelle quali viviamo quale sia la quota di egualitarismo e quella di diseguaglianza che una società possa sopportare. Questo perché le nostre società sono complesse: la commistione tra capitalismo e democrazia ha permesso di crescere in potenza conservando la coerenza garantita dalla fitta rete delle interdipendenze che ne costituisce il sistema nervoso. È la lacerazione di questa rete, in modo generico spesso indicata come società intermedia, che costituisce assieme alla minaccia ecologica, il rischio più grave ed imminente; per questo è invalso l’uso della espressione “frattura sociale”, accompagnata da “secessione sociale” per indicare, in un processo di semplificazione barbaro, il pericolo del distacco verso l’alto o il basso di interi pezzi di società.

L’azione capitalistica successiva alla conclusione della “Guerra fredda” ed all’implosione dell’impero comunista ha alterato la bilancia tra beni pubblici e beni privati nell’allocazione delle risorse e tra settore privato e settore pubblico nella organizzazione sociale.

Già alla fine degli anni ’60 dello scorso secolo Galbraith aveva sottolineato che le grandi tecnostrutture gonfiavano la domanda opulenta di beni privati a scapito di quelli pubblici. All’epoca la tendenza era controbilanciata negli USA dalla Great society, in Europa dal welfare state.

Oggi lo spazio della spesa sociale si è fortemente ridotto nell’epoca del turbo capitalismo finanziario mondializzato. Le politiche economiche degli Stati sono oggi sottoposte ad un giudizio severo dei mercati che castiga comportamenti eterodossi rispetto ai canoni della buona condotta: stabilità monetaria; equilibrio del bilancio; allentamento della pressione fiscale che impongono rigidi limiti agli impieghi sociali del reddito, ai consumi, agli investimenti pubblici.

La “disqualità sociale” diviene così devastante: negli USA negli ultimi decenni gli investimenti pubblici sono stati più che dimezzati nonostante non sia stata registrata alcuna politica restrittiva della domanda che, grazie all’afflusso mondiale di capitali, si è espansa senza riguardo al mostruoso deficit commerciale.

In Europa le contrazioni della spesa pubblica sono state aggravate da politiche restrittive della domanda necessarie per garantire la stabilità finanziaria, mentre il dimezzamento del tasso di risparmio nella media dei paesi OCSE ha aperto la porta ad un altro mostro sinora sconosciuto: un capitalismo senza risparmio tutto basato sul debito.

Vi sarà tempo per studiare, analizzare, proporre soluzioni. Già nello scorso maggio la nostra Associazione propose una lunga serie di misure possibili per una politica di crescita e benessere sociale, oggi, alla luce, seppur fioca che irradia da questo Governo, chiaramente di transizione, il compito che ci aspetta, quello immediato, è individuare lo spazio politico nel quale intervenire. Non le alleanze, pur necessarie, ma, esattamente, lo spazio che è lasciato libero dalla corsa verso il centro di almeno quattro formazioni parlamentari (Italia Viva, PD, Calenda, Forza Italia), dalla radicalizzazione a destra (con buona pace di chi non riesce più a distinguere la destra dalla sinistra) della Lega e FdI; il timido controcanto a sinistra di Articolo1 e LEU.

Occorre radicalizzare la propria presenza a sinistra attraverso una difesa totale del dettato costituzionale.

La nostra Costituzione è uno strumento per la costruzione di quella società che potremmo sinteticamente descrivere con le parole con le quali il premio Nobel per l’Economia, Stiglitz auspica che si sviluppi il pianeta “un mondo in cui il divario fra chi ha e chi non ha si è ridotto, nel quale esiste il senso di un destino comune, un impegno condiviso a estendere opportunità ed equità, in cui le parole libertà e giustizia per tutti significano davvero quel che sembrano, in cui prendiamo sul serio la Dichiarazione universale dei diritti umani, che sottolinea l’importanza non soltanto dei diritti civili, ma anche dei diritti sociali, e non soltanto dei diritti di proprietà, ma anche dei diritti economici dei comuni cittadini”.

La Costituzione è il lascito più importante che i costituenti potessero fare alla nascente Repubblica e offre oggi prospettive alla vita quotidiana, alimenta il senso di giustizia, incita alla partecipazione politica. Quante volte abbiamo ascoltato o affermato che in altre nazioni esisteva un “senso dello stato”, una” etica repubblicana” a noi sconosciuta?

Prefiggiamoci il compito di animare il patriottismo costituzionale che unisce sensibilità diverse, aree sviluppate e aree depresse, intellettuali ed operai, sapendo che il progetto è nella Costituzione: diritti sociali; democrazia rappresentativa con divieto di mandato imperativo; nessuna nostalgia per un mal digerito Rousseau; rifiuto di ogni deriva anti capitalista.

L’economia di mercato, con i due suoi elementi cardine, la proprietà privata e la libera impresa, ha rilevanza costituzionale nel nostro ordinamento, il che significa che ogni forma di massimalismo non ha diritto di cittadinanza in Italia.

La terribile confusione di idee, lo scricchiolante balbettio su temi altrimenti complessi, portano grande incertezza nella diversificazione delle ragioni della crisi planetaria, europea e nazionale. Il comodo tentativo di ridurre tutto, come si dice a Roma “in gran caciara”, cioè strepitio, confusione, per non pagare il prezzo spesso salato che è reclamato dalla crescita e dallo sviluppo, ritarda e di molto la possibilità di offrire soluzioni alle disagevoli incertezze provocate da irrisolte questioni economiche e sociali. Il continuare a non rendersi conto che l’indifferenza, che s’accompagna sempre alla inerzia, condanna la classe dirigente alla irrilevanza e che questa condizione di minorità provoca ed amplifica tentazioni demagogiche attive e passive, è una condizione da superare.

Le scorciatoie di imposizioni più o meno evidenti di continue leggi elettorali che sfiancano l’elettorato, modificano de facto la Costituzione e non risolvono le crisi in atto, sono assai pericolose.

Il futuro del socialismo: in Italia? No, nel mondo

La spinta utilitaristica del maggioritario sarà riproposta oscenamente dopo il taglio dei parlamentari teso alla abrogazione per lo meno politica del Parlamento. Non è qui lo spazio dei socialisti, almeno quelli che rifiutano la frequentazione a Corte di questo o quel signorotto feudale, al fine di guadagnarsi, come accaduto dal ’94 sino a ieri, uno sgabelletto, ed oggi un buffetto affettuoso sul viso.

Soli come siamo, seppur vogliosi di aggregare socialisti, riformisti, garantisti, occorre sapere e dichiarare che non possiamo concorrere immediatamente ad elezioni parlamentari ma che sul piano di programmi per un buon governo abbiamo da mettere in campo un potenziale enorme di forze, idee, animo e passione che si poggiano sulla nostra storia pubblica e privata di lealtà repubblicana, di riformisti autentici, di figli della libertà, amanti dell’eguaglianza, difensori dei diritti sociali, allevati ed educati dalla Costituzione.

Indicare che il nostro progetto di società si identifica con quello delineato dalla Carta a me sembra indicativo ed identificabile. Ci sarà sempre chi cercherà di strumentalizzare, criticare, sabotare il nostro attaccamento alla Costituzione trasportando il dibattito sulla complessità, tanto discussa negli ultimi decenni, che riguarda per esempio le auspicate riforme per la governabilità. Sarà facile replicare che una delle straordinarie capacità della nostra Costituzione è quella di accettare modifiche, cambiamenti, purché esse avvengano in armonia con le norme ed i principi che la caratterizzano e non con le forzature che non poche volte l’hanno umiliata nel corso degli ultimi cinque lustri e passa.

Ora, l’Italia è una media grande potenza, forse febbricitante, che, assieme alle altre due grandi sconfitte della seconda guerra mondiale, la Germania ed il Giappone, ha partecipato una fila dietro le altre nazioni alla edificazione, entusiasmante ed in alcuni tratti drammatica, del mondo contemporaneo.

Quanto ha pesato non essere membri permanenti del Consiglio di Sicurezza negli anni d’oro del boom economico! Quanto è costato inventarsi una politica perennemente attiva nella cooperazione internazionale ad iniziare da quella alimentare! Partecipare a quasi tutte le missioni militari delle Nazioni Unite! Operare su più tavoli per superare la naturale alleanza continentale franco tedesca e quella onusiana franco britannica!

Nello stesso tempo aver compreso che, per una grande nazione manifatturiera e geograficamente essenziale alla stabilità ed alla pace, era essenziale calibrare il proprio sistema nel quadro di interdipendenza mondiale, rafforzò nella prima Repubblica il peso politico dell’Italia agli occhi statunitensi, ed a quelli di altri paesi europei, agli alleati della Nato, ed anche agli occhi di chi alleato non è: a quelli sovietici e cinesi.

La interdipendenza mondiale riserva molte sorprese: produce una pluralità di processi che si sovrappongono e si influenzano reciprocamente, mentre la eterogeneità dei fenomeni crea continuativamente nuove stratificazioni sociali che debbono altrettanto continuativamente essere soggette ad attente analisi.

Appare evidente che anche il cittadino meno attento sente, annusa, percepisce che i confini del suo mondo, anche a suo malgrado, sono quelli del pianeta e che, in conseguenza della minore dipendenza degli ostacoli d’un tempo, si è definitivamente modificato il concetto di “distanza”.

Il trasporto aereo, l’Alta Velocità, Internet, la comunicazione a distanza hanno modificato per sempre il sistema codificato nei millenni delle relazioni nazionali ed internazionali.

Pensare alla edificazione del Socialismo in un solo paese è come fantasticare di uscire oggi a passeggio sul Lago Maggiore con l’amica della nonna Speranza del poeta Gozzano: ”Carlotta! nome non fine, ma dolce! Che come l’essenze/risusciti le diligenze, lo scialle, le crinoline…”

Altro che scialle e crinoline. Un forte, profondo progetto comporta la necessità di determinare una nuova geografia nella quale vanno inseriti i grandi fenomeni della nuova era. Migrazioni e traffici mercantili assieme ai nuovi ed imprescindibili network tecnologici e finanziari hanno già sorpassato i tradizionali limiti nazionali. Oggi non è possibile ridare alla politica lo spazio fisico nel quale questa esclusivamente si esercita, senza partecipare alla nascita ed allo sviluppo di nuove Reti. Nuove Reti che rappresentino la connessione di interessi simili, per dare vita a legami nuovi all’interno dei quali rimodulare forme e modalità di interessi sociali, di flussi migratori, finanziari, delle merci, del sistema fiscale, delle idee, della rappresentazione collettiva dei bisogni, desideri e paure della nuova società, e cioè il superamento delle identità tradizionali che oggi avviene attorno a modelli precostituiti.

È uno spazio enorme da coltivare. Saranno ospitate solidarietà nuove ed antiche, nuove forme di impegno lavorativo legate da sistemi economici circolari ridando alla finanza il suo ruolo etico di partecipante essenziale alla creazione di prodotti e di lavoro. Nell’epoca della trasformazione la Sanità per tutti sarà esaltata e rafforzata da nuove forme di mutualismo e cooperazione.

Se il pianeta si è ristretto, occorre governare il pianeta, altrimenti – come sta accadendo – gli spazi della democrazia  si restringeranno,  gli abitanti di un territorio che sembra astratto ma è invece assai concreto, i cittadini del cyberspazio, del world wide web diventeranno degli extraterritoriali che, avvicinandosi a persone che nutrono i loro stessi interessi o che, per la maggior parte, accettano una vita di cessione di diritti tramite la dispersione della privacy , entrano in un universo virtuale basato su un nuovo ordine di tipo medioevale. Un ordine che di nuovo non ha molto, perché fondato su strutture di potere che erodono lo spazio sociale e vivono, bene, fuori dallo spazio fisico.

Noi possiamo vedere che si è già sviluppata una nuova gerarchizzazione dello spazio locale, che si è consolidata tramite la connessione ed il collegamento di parti dirigenti locali con altre parti del mondo senza passare attraverso lo Stato ed altre Istituzioni. Così si è scissa la triade popolo, territorio e cultura e nuovi gruppi dirigenti, nel vuoto di potere che ha messo in crisi le funzioni ermeneutiche e regolative delle istituzioni, hanno diviso l’autorità politica dallo spazio sociale.

Il famoso centro politico, che è immaginato come la verde prateria che attende i pionieri dopo la difficile traversata dei continenti, si riduce ad un giardinetto dove trova pelosa ospitalità chi immagina un ridimensionamento della cultura planetaria, globale; un restringimento dei poteri dei sistemi multilaterali e multinazionali; in parole povere un sovranismo venato di autoritarismo, che possa restituire alla amica di nonna Speranza, la mitica Carlotta, la possibilità di tornare a languire sulle rive del lago. In verità il lago è già stato recintato da una società a responsabilità molto limitata che ha, si scrive per esemplificare, la sede legale in Nigeria, quella operativa in una provincia mongola della Cina e paga le imposte nei Caraibi.

Al contrario, i grandi fenomeni della postmodernità, la globalizzazione, l’affermazione senza limiti e contrappesi del capitalismo e del libero mercato, possono essere governati soltanto attraverso la creazione di reti globali che riescano ad imporre nuove capacità normative in ambito sociale, discendendo sul piano regolativo dai livelli internazionali, a quelli statuali, ai livelli locali, traendo linfa programmatica e progettuale dai percorsi inversi.

La politica è entrata in crisi, lasciando senza guardia i portoni del tempio, quando non ha più potuto produrre ordinamenti e istituzioni abilitati ad esprimersi non solo attraverso la produzione di sistemi normativi ma anche attraverso il rispetto, l’osservanza delle decisioni assunte, a causa della impossibilità di usare una legittima coercizione al loro rispetto.

Nel secolo che avrebbe dovuto celebrare la fine della ideologizzazione se ne è imposta una, quella economica che ha sacrificato le dimensioni politiche e sociali in nome del nuovo dogma: l’autoregolamentazione del mercato che non ha certamente rappresentato quanto di meglio ha prodotto la storia dell’umanità, anzi ha allargato la discrasia tra l’economia umana e l’economia di mercato, perché la complessità della società contemporanea ha confinato l’interdipendenza nel sistema di governo di gruppi, tanto tecnicamente sapienti quanto ristretti,  naturalmente ostili a misurarsi con nuovi processi politici, che mettono in discussione, permanentemente, i precedenti.

Per assurdo che paia, il metodo regolativo che è stato, dal Trattato di Roma in poi, il modello di formazione della costruzione europea, a differenza di quanto accade negli USA, ma anche in Russia, in Cina, in India, nel Brasile, ha impedito nella parte che abitiamo del nostro continente la diffusione di culture autoritarie della democrazia; ha anche promosso il corrispettivo pendant dei sistemi regolativi, quello che traendo origine dal rafforzamento della sua speciale burocrazia si traduce in una federazione di welfare communes. Il continuo bilanciamento di interessi tra Stati, Parlamento ed Istituzioni locali, ha operato, ed opera, come una rete di transazioni e di accordi che lascia aperte alcune porte, attraverso le quali movimenti politici, sindacali, in generale la società intermedia, contro-attualizzano l’azione amministrativa, in opposizione a spinte individualiste e/o nazionaliste.

Alcuni Stati, tra questi l’Italia, negli ultimi decenni hanno trovato difficoltà a gestire con maggiore efficienza l’introduzione di logiche di mercato attraverso logiche contrattualiste, dovute al declino del modello dell’autorità legale dello Stato. L’affermazione di una governance legata alla interazione tra amministrazioni, gruppi di interesse, rappresentanze sindacali e di settore richiedono capacità di affrontare i problemi con una visione più larga degli stessi, allargando il campo ristretto nel quale si producono.

L’Unione degli Stati che chiamiamo Unione Europea, costruita per garantire la pace, ha iniziato, con successo, a costruire una nuova classe dirigente continentale che, in quanto tale, è mal vista da quella locale e crea serie preoccupazioni alle dirigenze politiche nord americane, cinesi e russe. È difficile sostenere che il sistema economico europeo sia mutuato sic et simpliciter da quello statunitense, o che la criticata burocrazia bruxelles e sia succube di Mosca o di Pechino. La stessa Brexit ha origine da una non disponibilità del gruppo dirigente del Regno Unito ad accettare la sfida planetaria che pretende il cambiamento.

È certo che, seppure “globalizzazione” non è sinonimo di America, oggi, come ieri e forse domani, la gran parte dell’umanità, persino chi gli è ostile, è ipnotizzata dagli USA; l’ama e la teme di quel sentimento assoluto che è assieme tentazione e respingimento, odio ed attrazione.

La certezza di Thomas Jefferson, sin dalla Dichiarazione di Indipendenza del 1776 e, sempre  in modo diverso, riaffermata da tutti i presidenti, che “ l’impero per la libertà agisce per l’umanità intera”, l’American creed che non può essere abiurato pena il suicidio, nonostante i modesti risultati dell’universalismo, scatena una potenza recondita, che fa dell’unico paese di migranti una nazione orgogliosa, coesa, sempre alla ricerca dell’impossibile risultato di divenire il Dio visibile sulla terra.

Qualcuno ha perso per strada l’amore appassionato del dopoguerra per gli Stati Uniti, ma l’ha trasformato in un amore diverso, più tenero; cerca in ogni dove di scoprire una traccia, un segnale, uno sguardo che riconfermi una leadership compatibile coi tempi attuali, un messaggio che non trasudi quell’aurea di decomposizione che impaurisce il pianeta per le sconosciute conseguenze.

Obama è stato amato per il disincanto che avvolgeva il suo messaggio di new beginning accompagnato dalle ripetute dichiarazioni di debolezza dell’America ad affrontare da sola le emergenze internazionali. Poi, scopriamo che l’acume filosofico del commander in chief si è doverosamente limitato alle dichiarazioni, al coraggio di cambiare le cose che si potevano cambiare, di accettarne le altre e di lasciare alla coscienza la saggezza necessaria per scoprire la differenza tra entrambe. Il che ci impone di verificare come le differenze tra Bush, Obama e Trump sono terribilmente dichiaratorie e che lasciano a noi, sia che accettiamo sia che rifiutiamo la teoria del declinismo, che è un obbligo indagare il presente per capire il futuro dell’impero, al fine di non essere travolti da una realtà incontenibile.

Solo nella prima parte di questa analisi-documento abbiamo individuato la crisi della politica come frutto della crisi dei poteri tipici dello Stato e la surroga alla rivoluzione digitale dei poteri effettivi di direzione dell’economia; rivoluzione vera che dopo trent’anni buona parte del mondo non ha ancora compreso.

Internet, la Rete, la politica

Abbiamo assistito a spettacolari intrusioni nella privacy di centinaia di milioni di elettori, Una intrusione secondo i democratici statunitensi la cui responsabilità è addebitabile al governo russo. Mosca accusa gli Stati Uniti di aver intossicato i sistemi democratici dell’Europa dell’Est, e Pechino inietta sufficienti dosi di veleno, quanto basta, per far capire che il monopolio del sistema informatico statunitense ha stravolto le regole di convivenza planetaria, propagandando così la sua nuova frontiera della comunicazione mondiale, il 5G.

È un fatto incontrovertibile che, prima delle elezioni che hanno portato Trump alla Casa Bianca e alla, a partire dal 2012 l’incumbent Obama decise di affiancare al suo comitato elettorale un gruppo di esperti quasi segreto soprannominato the cave (la grotta). Da quel momento la campagna elettorale fu indirizzata da un data center, composto da analisti di big data, e da esperti di comunicazione sui social network. L’obiettivo, pienamente conseguito, era quello di arrivare ad elettori non altrimenti raggiungibili, motivandoli ed indirizzando i loro comportamenti per portarli al voto per il primo Presidente 2.0

In tutte le elezioni il dovere dei candidati è quello di convincere e motivare, ma per la prima volta nella Storia il mezzo usato è stato basato sulle informazioni fornite dagli stessi elettori, che hanno delegato i dati della loro vita, anche la più intima, a sistemi in grado di immagazzinare e selezionare, con analisi complesse, miliardi di informazioni, permettendo che fossero spediti a loro stessi messaggi, i cui effetti erano monitorati in tempo reale.

Non so quanti abbiano assistito ad una o più puntate di un serial statunitense trasmesso dalla Rai, Bull, nel quale viene stravolto il diritto penale che si basa quasi sempre negli Stati americani sul potere decisionale delle giurie. Conoscere ciascuno dei giurati e presentare fatti e persone secondo schemi che approcciano i desideri nascosti dei dodici probi viri è il segreto della vittoria dei nuovi maghi. Immaginiamo che quel sistema sia usato, assai più scientificamente, per indirizzare le scelte di popoli che trasmigrano in uno Stato nuovo del quale non conoscono neppure l’esistenza, quello cibernetico.

I documenti conosciuti (tramite il Congresso degli Stati Uniti) riguardanti programmi di spionaggio globale e manipolazione dei comportamenti sociali posti in essere dalla National Security Agency ( è di questi giorni la deposizione di una gola profonda dell’agenzia, questa volta in riferimento ad azioni compiute dall’attuale Amministrazione) ci raccontano di un mondo nel quale, non gratuitamente, i social network e altre industrie del settore tecnologico traggono dai dati, dalle informazioni su ogni aspetto della vita degli utenti, la linfa che li protegge e rafforza.

Internet, questa Internet che conosciamo, è divenuta l’estensione del potere americano, assai meno soft di quel che si pensi.

Non è il primo sistema statunitense di controllo globale. Dapprima, e tuttora, la base del potere globale era ed è affidato al controllo delle rotte marittime, in superficie dei mari e, sotto l’acqua, di un enorme reticolo di cavi sottomarini, che costituiscono l’ossatura dell’Internet globale. Sui fondali è stata depositata nel corso dei decenni una rete di condotte in fibra ottica sui quali corre il 99% dei dati scambiati in Rete.

Questa ossatura è saldamente nelle mani degli Stati Uniti, addirittura fino ad un paio di anni or sono del Governo federale, oggi di un sistema controllato esternamente dalla Amministrazione.

Questo rende chiaro che sino alla minaccia tecnologica cinese extra Rete, il già noto 5G, il monopolio statunitense è stato assoluto, anzi, lo è tuttora perché il 5G ha un decorso complicato.

Le multinazionali americane impiantano cavi al ritmo di 100 mila chilometri l’anno e, entro la fine di questo che è in corso, Google sarà collegata attraverso tre direttrici a zone vitali per la raccolta di big data: Los Angeles-Cile detta Curie, Danimarca-Irlanda detta Havfrue e Guam-Hong Kong, Hfg. Già oggi miliardi di cittadini affidano attraverso post, mail, blog il loro bene più prezioso, la loro intimità, alle società di Silicon Valley, ed a quelle che risiedono a Seattle, Microsoft ed Amazon.

Eric Schmidt, che fu amministratore delegato di Google, affermò con malcelato orgoglio che “dalla comparsa della Civiltà al 2003 sono stati creati dati per cinque exabyte e che oggi produciamo la stessa quantità di dati in due giorni”. Google, Yahoo! e Bing controllano il 98% delle ricerche realizzate nel globo; Facebook, Twitter, YouTube, Pinterest, Instagram assorbono il 96% dei partecipanti alle reti sociali. Solo Facebook vale per il 66%, vale a dire 2,2 miliardi di utenti. Google gestisce in Italia il 90% delle ricerche, in Francia l’86%, in Gran Bretagna l’82%, il 70% in Giappone. Per non parlare di Indonesia, India, Brasile, Vietnam.

I giganti della Rete dipendono da Washington, non soltanto perché tutto il loro sistema è a disposizione della intelligence statunitense, questo è un banale ed ovvio risultato concreto, ma perché non c’è aspetto tecnologico che non sia stato finanziato per la ricerca e la realizzazione dal governo federale, particolarmente dalla Difesa. Alla faccia della vulgata dei bravi ragazzi geniali che dalle cantine e dai garage emersero vincitori con puri prodotti dell’ingegno.

La lettura dei bilanci ci racconta invece una storia diversa. Internet fu inventato da Arpanet, il network antesignano dell’attuale segretissimo e potente ufficio della Difesa chiamato DARPA. Il microprocessore fu creato su iniziativa di Washington per avere a disposizione un dispositivo leggero capace di telecomandare missili, aerei e sistemi complessi installati a bordo di aerei da combattimento, su missili balistici intercontinentali, su sottomarini nucleari. Il telefono cellulare fu inventato congiuntamente da una struttura dell’Esercito e da una società “Gte” oggi denominata General Dynamics, e fu usato per la prima volta dai soldati comandati dal generale Norman Schwarzkopf in Kuwait.

La nota boutade secondo la quale la ricerca Scientifica ed industriale è finanziata nelle società “sane” dall’impresa privata, che si ripaga con gli utili realizzabili con gli investimenti, è smentita dagli Stati Uniti, dove il solo Ministero della Difesa spende 72 miliardi l’anno per la ricerca, il doppio degli introiti di Google, Intel ed Apple.

I giganti della Silicon Valley non sono i nascosti gnomi che governano il mondo, perché non sono i proprietari dei brevetti di quegli strumenti alla base della rivoluzione tecnologica di cui gestiscono l’adattamento ad uso civile della loro natura militare.

Non soltanto non sono gli gnomi che nascostamente governano, non sono neppure autonomi perché totalmente subordinati con la paura di essere estromessi dal circuito che immette al mercato.

Quanto detto serve non per scrivere pagine attorno ai nuovi imperialismi, governati da paesi, come gli USA, dove il potere deve confrontarsi quotidianamente con crisi reali etniche, sociali, di produzione industriale, di sempre più affannata risposta alla concorrenza manifatturiera e generalmente commerciale; serve per introdurre alla riflessione su due temi: quella attorno al capitalismo della sorveglianza e l’altra sulla necessità oggettiva della elaborazione di una risposta e di una proposta politica e sindacale internazionale.

La scienza dei “dati” e la psicografia influenzano in modo determinante il comportamento dei consumatori e degli elettori. Dal 2016 sappiamo che una società britannica, dalla quale fu figliata Cambridge Analytica, ha guidato campagne che hanno alterato il risultato elettorale – per quasi venti anni- in numerosi paesi tra i quali i molto popolati Nigeria ed Indonesia. Sappiamo che una delle risposte organizzate dalla Nato alla diffusione del terrorismo come ideologia, specialmente nel mondo islamico, si basò su sofisticati modelli di comunicazione. Deduciamo, quindi, che gli strumenti digitali possono rappresentare una grave minaccia alla democrazia.

Molti si rendono conto ora ed in ritardo, che le infrastrutture digitali sono assai più evolute di quanto le medie conoscenze di deboli classi dirigenti siano in grado di affrontare. Si è allargato lo spazio che divide dal comune sentire sia l’infrastruttura informatica che le sue applicazioni sul web. Gli strumenti della comunicazione appaiono così sofisticati da rendere credibile la resa della politica alla tecnologia.

Molto del danno è già stato compiuto. Già oggi l’informazione ha subito un vulnus forse mortale. Quando, in modo spericolato, i governi in Italia come altrove, ammisero nell’ambito dello spettacolo i sistemi di informazione radio televisivi (l’infotainment), non prevedendo le stesse garanzie sulla qualità del prodotto informativo, si dette origine alla prima grande apertura al sistema delle false notizie, che, inevitabilmente fu messa in conto alla parte più debole, a quella che si faceva pagare ma non faceva ridere. Indebolita la Stampa, che nel sistema intermediato è una garanzia di libertà, le fakenews hanno reso poco credibile il sistema generale delle informazioni, decisamente addebitato ai poco comprensibili “esperti” dei vari settori. Da domani la diffusione di nuove tecnologie destabilizzanti quali il deepfake, i falsi filmati, farà uscire dalla porta principale i guitti dell’informazione spettacolo.

Da qui una ulteriore spinta a riconoscere la necessità di una internazionalizzazione della risposta democratica, sulla base della conoscenza del sistema tecnologico, sapendo che questa struttura materiale e immateriale non si limita ad influenzare il mercato, entra e scava nella vita interiore del genere umano. 

La nuova religione statunitense, definiamola il Dataismo, cioè la fiducia nei dati e negli algoritmi, è propagandata come passaporto verso la Epicrazia, ovvero il conseguimento della felicità. Quale sia questa felicità è arduo saperlo perché è valutata secondo indici che escludono di fatto la politica, sfruttando una asimmetria universale della conoscenza che, non basandosi su dati politicamente ed economicamente certi ed univoci, trasforma l’informazione da bene immediato in uno strumento che si proietta in quanto tale nel futuro, essenziale per esistere sempre, per non morire, trasformando l’escatologia dell’anima nel ricordo conservato in un archivio, magari in una nuvola, un cloud.

Per un socialista, libero di scegliere la sua prospettiva, la qualità della vita terrena si misura secondo parametri precisi che riguardano la politica: sanità, educazione, occupazione, produzione, sicurezza sociale, diritti dell’uomo come individuo e come parte del corpo sociale, struttura della democrazia e regolamento dei poteri equilibrati da norme cogenti, sono il limite minimo accettabile. Insomma PIL contro indice di felicità.

Abbiamo bisogno della socialdemocrazia, quella vecchia, quella vera.

Il Socialismo Democratico è l’unica agenzia sociale che ha dimostrato nei fatti di saper cementare una federazione di giovani ed anziani, di donne e di uomini, di lavoratori e di professionisti, di occupati e di assistiti; l’unico ordinamento complesso necessario per solidificare una alleanza nell’era digitale, capace di promuovere una nuova lotta di classe per scongiurare il declino della democrazia. In quest’epoca in cui i consumatori si autoconvincono – grazie alla rivoluzione informatica- a comprare questo piuttosto che quel prodotto, a votare per questo o quella, al di là delle indicazioni politiche e dei progetti che dovrebbero essere espressi chiaramente, è urgente la rifondazione della democrazia; è impellente ripristinare l’intermediazione, la rappresentanza, impedendo alla asimmetria della conoscenza l’esercizio di un nuovo inedito schiavismo. Nella società cibernetica la libertà esiste ma non la responsabilità, e l’uomo che non è responsabile del suo destino non è effettivamente libero.

La socialdemocrazia non è morta

Un uomo libero è un uomo che sa battere la manipolazione. Non c’è spazio di mediazione sul tema. Ecco perché all’inizio del nostro ragionare indicammo che progetto e programma sono scritti nella nostra Costituzione.

Ecco perché non è convincente un eterno gioco attorno al “centro” politico ed è necessaria una nuova radicalità, che metta in chiaro come il pragmatismo senza riforme è una strada chiusa e senza prospettive.

Gli Usa hanno imposto un mondo che non c’è fisicamente ma è operante nei grandi sistemi. I singoli Stati europei non possono in modo isolato affrontare un impegno difficile come quello di restituire dignità e libertà all’uomo consumatore e cittadino. L’Europa degli Stati può invece intervenire ed è necessario che le diverse minoranze progressiste e riformatrici trovino l’opportunità di coalizzarsi per un nuovo patto di crescita, sviluppo e libertà. In questi decenni ultimi si è consunta la classe media e quella operaia, sono nate altre e diverse forme di lavoro e promozione sociale.

L’invidia sociale ha preso il posto delle lotte per l’alternativa democratica al potere di classi diverse. Oggi negli USA ed in Europa si discute molto del focus di una politica di “identità” o di “classe”.

Trovo assai facile parlare di identità, perché alla fine in questa si trova una facile sintesi alle diverse questioni sociali. Più impegnativo non rinunciare alla lotta per l’uguaglianza, sia di genere che razziale, per l’inclusione oggi dei migranti, per l’ambiente; eppure neanche questo sarebbe sufficiente se non si ritrova lo spirito che muove alla indignazione per la mancata condivisione proporzionale tra tutti i lavoratori ed i datori, per i gestori e i beneficati delle rendite finanziarie, dei sacrifici necessari.

Riportare i deboli nella tutela di uno Stato egualitario è la caratteristica di qualsiasi serio programma di sostenibilità economica, e non è possibile realizzare questo programma senza riconoscere che l’unica agenzia capace di efficacia per il pianeta è la socialdemocrazia.

La nuova lotta di classe oggi è necessaria per ostacolare e rovesciare il processo di diseguaglianza economica fra i pochi privilegiati che governano dal mondo cibernetico e i tanti diseredati che soffrono per la crescente disoccupazione, l’emarginazione, o, addirittura la paura, quella vera, fredda, che stringe allo stomaco, di sentirsi irreparabilmente separati dall’altro mondo, quello dove ola certezza è frutto destinato a pochi.

La nuova lotta di classe, perché aperta, pubblica, legittimata dall’alternative di politiche, propositi e progetti, è l’antidoto all’odio razziale, alla xenofobia ed è l’opposto dell’invidia sociale, fertile terreno di malapiante politiche. La lotta di classe è utile per ricostruire un popolo drammaticamente diviso e perso tra i clamori di affermazioni urlate e non spiegate ed il silenzio tenebroso dell’assenza di proposte. La nuova lotta di classe è oggi presente in tutto il mondo, compresa quella parte eccitante occupata dagli Stati Uniti chiamati a riflettere con sinistre similitudini tra poveri.

In Cile e in modo diverso in Argentina, Brasile, Perù Venezuela, in Libano, ad Hong Kong i senza potere si rivoltano. Ciascuno per cause diverse; dal Kashmir ad Hong Kong si chiede libertà civile e politica; ad Haiti e nel Cile si denuncia la povertà; in Azerbaigian e nel Libano la corruzione e le mancate riforme; in Francia, Gran Bretagna e Catalogna l’opposizione è verso politiche impopolari o imprudenti.

La battaglia non è tra democrazia e populismo, tra democrazia e rivolta. Nel nuovo millennio è invalsa la teoria del tutti uguali, destra e sinistra, identificando lo scontro tra chi è sprovvisto di potere contrattuale a fronte delle oligarchie nazionali ed internazionali, tra popolo minuto e governi e dirigenti, intesi come establishment.

La democrazia è un invito alla continua partecipazione alle scelte, alla corresponsabilità identificata in rappresentanze politiche e sindacali, che portano le istituzioni ad occuparsi di temi fondamentali, attraverso quel metodo di democrazia che è conflittuale perché pubblicamente oppone tesi ad antitesi, analisi delle forze e degli interessi, divenendo condizione di stabilità e libertà.

Il liberismo ha regalato l’illusione della libertà dei singoli attraverso internet, attraendo qui piuttosto che altrove capitali avidi nello sfruttamento delle risorse e/o delle opportunità fiscali o incentivanti, ripagando i lavoratori con mancati investimenti, bassi salari e de contrattualizzazioni.

Spetta ai socialisti denunciare il fallimento del liberismo

Ci sarà modo di approfondire ulteriormente temi ed argomenti. Quello che oggi è presentato è una griglia metodologica, necessaria per discutere con chiunque ispirato da idee di progresso e libertà, di democrazia e giustizia sociale, assieme a noi voglia edificare una necessaria ed indispensabile organizzazione socialista, che guarda con coraggio e speranza al futuro.   

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Giuseppe Scanni

Giornalista e saggista.

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