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Ravensbrück: orrore al femminile

“Considerate se questa è una donna,
senza capelli e senza nome
senza più forza di ricordare
vuoti gli occhi e freddo il grembo
come una rana d’inverno.”

(Primo Levi: Se questo è un uomo)

Ravensbruck è stato aperto nel 1939. E’ il campo in cui i nazisti rieducavano le donne antinaziste, le deviate, cioè rom, lesbiche, testimoni di Geova, oppositrici del regime, mendicanti, donne con disabilità fisiche e mentali. Oppure quelle ree di aver avuto, loro, ariane, rapporti sessuali con una “razza” sub-umana, violando così le leggi di Norimberga sulla purezza della razza: gli ebrei. Ravenbruck era il campo delle donne, considerate inferiori e reiette, che andavano corrette, punite ed estirpate dalla società per evitare che contagiassero gli ariani. Solo nel 1941 arrivò un drappello di maschi, provenienti da Dachau, circa 2 mila. E solo il 10% delle prigioniere era ebrea, perché il campo era stato concepito per i “soggetti asociali”.

 “Nascere per caso / nascere donna / nascere povera / nascere ebrea / è troppo / in una sola vita…..” Edith Bruck, “In difesa del padre”.

Fino a quando non è stato liberato dall’Armata Rossa il 30 aprile del 1945, sono passate più di 130 mila prigioniere (il numero non è certo perché i nazisti in fuga hanno bruciato molti documenti) soprattutto tedesche, italiane, polacche, francesi, austriache e russe. Oltre 90 mila furono uccise.

Tutti i campi di  concentramento o di sterminio sono stati atroci. In essi crudeltà e sadismo si sono espressi al massimo. Ma Ravensbruck è stato diverso proprio perché deteneva donne. Donne degli anni 40 del ‘900 ancora intrise di una cultura antica. Già solo spogliarsi di fronte ad un estraneo era un trauma, il taglio dei capelli era una mutilazione. Oltre alle torture, alle fatiche bestiali, alla fame che le attanagliava, c’era il disprezzo dei carcerieri. Doppio, proprio perché si trattava di donne.

“Nel Lager ho sentito con molta forza il pudore violato, il disprezzo dei nazisti maschi verso donne umiliate. Non credo assolutamente che gli uomini provassero la stessa cosa” , scrive Liliana Segre, che proprio da un sottocampo di Ravensbruck fu liberata.

Era a più o meno 90 chilometri da Berlino e sorgeva in un terreno di proprietà di Himmler, il capo delle SS. Una duna sabbiosa e desolata, circondata da conifere e betulle, talmente fredda da essere chiamata “la piccola Siberia di Maclenborg”. Poco fuori dal perimetro c’erano venti officine della Siemens di Berlino, dove le prigioniere venivano sfruttate come manodopera a bassissimo costo (le cui paghe, però, se le prendevano le SS) per lavorare ai manometri e ai missili V2. I turni erano di dodici ore, di giorno e di notte, ma c’era il vantaggio di poter stare sedute al coperto. Se si sbagliava bisognava trovare il modo di buttare tutto senza farsi vedere, altrimenti le aspettavano il frustino, il bastone e la cella di punizione. Una volta tornate nella baracca non potevano riposare, c’era l’appello, due-tre ore all’aperto nel freddo, vestite leggere, e si dovevano svolgere incombenze pesanti, tipo trasportare bidoni e caricare il carbone. C’era anche una industria tessile, la TexLed, dove le internate facevano le divise per la Wehrmach e per le SS. Resterà la più grande sartoria militare della Germania.

Lidia Beccaria Rolfi –  maestra e staffetta partigiana, arrivata nel campo nel 1944 – nel libro “Le donne di Ravensbrück”  racconta come si svolgeva l’appello. “La giornata nel blocco inizia alle 3,30 con il fischio della sirena. In mezz’ora bisogna scendere dal letto, infilarsi il vestito, rifare il letto alla perfezione secondo il regolamento, andare a lavarsi, fare la coda alla latrina e schierarsi, dieci per dieci, sulla Strasse davanti al blocco. L’appello del mattino è una delle tante torture del campo. Costringe a rimanere in piedi in ranghi di dieci per ore e ore. L’appello si svolge in posizione di attenti, sotto la pioggia, la neve o il vento. All’appello è proibito muoversi, parlare con le compagne, accoccolarsi quando le gambe non reggono più, battere i piedi per riscaldarsi, avere il petto ricoperto di un pezzo di carta rubata per difendersi dal freddo. Dopo la prima mezz’ora diventa una tortura. Il cervello si svuota, le gambe si gonfiano, i piedi fanno male, dolori atroci corrono per tutti i muscoli”.

Questo era niente rispetto alle altre angherie cui venivano sottoposte. Come negli altri campi, il fine – o il divertimento degli aguzzini – è annientare la persona, ridurla ad una cosa. Per esempio, il cibo. Ancora le parole di Lidia Beccaria Rolfi: “E’ una brodaglia insipida e dolciastra, molto liquida, che dobbiamo mangiare senza cucchiaio. Il leccare la minestra come i cani avvilisce, fa sentire bestie molto più di altre cose. La logica del sistema vuole proprio questo…” .

Un altro esempio. Si umiliava la prigioniera facendola lavorare alla preparazione di strisce di concime, pestando a piedi nudi masse di escrementi per poi impastarli, sempre a mani nude, con la cenere umana dei forni crematori. Secondo le SS diventava un ottimo fertilizzante.

Ma la cosa più terribile è il trattamento riservato ai bambini. Le zingare arrivano subito nel 1939. Con loro ci sono i figli. Non sono produttivi, quindi subito trasferiti nei campi di sterminio e di lì nel forno. In generale, per le donne incinte il destino è ancora più crudele. Dal 1943 le SS le lasciano partorire. Ma non si consente ai bambini di sopravvivere. Lo sterminio dei bambini in tutti i  lager avveniva più o meno allo stesso modo: dal colpo alla nuca all’annegamento, a volte gettati vivi nelle fosse comuni o usati come tiro al bersaglio. A Ravensbrück invece esisteva la “stanza dei bambini” in cui i piccoli venivano abbandonati a morire di fame e lasciati in pasto ai topi. Le madri erano costrette ad assistere a quella lenta agonia. Vuoi mettere con una banale, rapida uccisione? Molte donne impazzirono o si suicidarono. Nel massacro dei bambini si distinse Hermine Braunsteiner, SS femminile nel campo. Molti testimoni sopravvissuti a Ravensbrück ricordano che veniva chiamata la cavalla scalciante per la sua abitudine ad assassinare i bambini calpestandoli, spesso sotto gli occhi delle madri. A fine guerra, sarà rintracciata dal famoso cacciatore di nazisti, Simon Wiesenthal e processata nel 1981: ergastolo. Statistiche incomplete ci dicono che in tutto a Ravensbruck sono stati deportati 882 bambini più altri – pare 500 – nati nel campo: solo 5 sono sopravvissuti.

Un’altra sevizia era quella degli “esperimenti”. Il corpo delle donne diventa, per i medici nazisti, un laboratorio per vedere come reagivano ai trattamenti, per applicare vari metodi. E’ successo anche negli altri campi di concentramento, e anche agli uomini. Ma qui a Ravensbruck era diverso: i “dottori” erano particolarmente interessati al corpo femminile in quanto capace di riprodurre parassiti che avrebbero infettato la razza superiore. Ad alcune si prelevavano campioni di tessuto dell’utero per studiare eventuali tumori (anche se non c’erano), coi i raggi  X sterilizzavano le ovaie, ad altre si iniettava nell’utero un liquido irritante. Il tutto, naturalmente senza anestesia. Tutte quelle in età fertile venivano sterilizzate. Del resto nessuna di loro per le sofferenze, la debilitazione, lo sfinimento, aveva più le mestruazioni.

Alle polacche veniva riservato un altro tipo di “esperimenti”. Erano chiamate con disprezzo “i conigli” perché avevano una andatura altalenante. Ma non dalla nascita. I “dottori” le mutilavano e le infettavano con la gangrena gassosa per testare i farmaci che potevano servire sul campo di battaglia. Lo aveva chiesto specificamente Himmler.  

Nel 1946 al processo di Norimberga questi “dottori” furono tutti condannati.

Le prigioniere erano tutte contrassegnate. Un simbolo rosso per le polacche, con una P (Polonia) disegnata sul petto. Per le ebree, prima del trasferimento verso Auschwitz, un triangolo giallo. Per le criminali comuni il triangolo verde, per le Testimoni di Geova il triangolo viola. Le zingare, le prostitute e le «asociali» venivano identificate da un triangolo nero. Le lesbiche non meritavano un segno specifico: non avevano nemmeno il triangolo rosa, utilizzato per identificare gli omosessuali. Erano insignificanti in quanto donne con l’aggravante di un comportamento “deviato”: triangolo nero come per le asociali.

 A quasi tutte venivano rasati i capelli, utilizzati poi dall’industria tedesca. Quasi,  perché alcune “ariane” – per esempio un gruppo proveniente dalla Norvegia nel 1943 – il taglio era risparmiato.

Alle detenute “ariane” (delinquenti comuni, prostitute, politiche)  era concesso di scatenarsi contro le donne ebree. Alle donne con il triangolo viola (testimoni di Geova) era riservato il compito di versare in un lago vicino al campo la polvere delle prigioniere bruciate nel forno crematorio. Lo stesso lago in cui, ricorda Beccaria-Rolfi, “nella polvere nera che si addensava al centro dello specchio d’acqua, facevano il bagno, durante la bella stagione, i figli e le mogli delle SS”.

A proposito di SS., Ravensbruck è stato anche il campo in cui veniva addestrate la SS donna. Erano talmente belve da sconcertare perfino i loro colleghi maschi. Un po’ di loro, a guerra finita, fu processato e condannato a morte o a svariati anni di reclusione per crimini contro l’umanità; molte la fecero franca. Reclutate con appelli sui giornali patriottici e allettate dalla prospettiva di un buono stipendio, si presentarono a migliaia all’esame di ammissione. Si calcola che tra il 1942 e il 1945 fossero state addestrate a Ravensbrück circa 3500 di queste ausiliarie, inviate, poi, soprattutto in altri lager. Avevano stipendio e uniforme delle SS ma non avevano gli stessi diritti dei membri maschi. C’erano sempre uomini a comandarle e la struttura organizzativa restava maschile. Del resto queste ragazze erano state allevate dal regime con la formula delle tre K: kinder (bambini), kirche (chiesa), Kuche (cucina). Goebbles diceva che “la donna non è né un angelo né un diavolo. E’ un essere umano di solito non particolarmente significativo… Mentre l’uomo è padrone della sua vita, lei è padrona delle sue pentole”. Forse la scellerata ferocia delle Kapò è stato un modo per “emanciparsi” dalle tre K. Far vedere ai loro colleghi che non erano da meno in quanto donne, ma anzi, potevano superarli. Con l’esperienza a Ravensbruck, altro che pentole, bambini e chiesa! Potevano rifarsi, assaporare il potere di vita e di morte verso esseri altrettanto umani come loro, anche se non li consideravano tali. Ignobili signore che una volta prescelte per un compito fatto credere superiore dispiegavano tutta la loro malvagità. Malvagità che forse c’è in tutti, magari in piccola parte, ma che nei campi di concentramento esplode in tutta la sua criminalità proprio perché il limite non c’è più. Come si spiega la cavalla scalciante se non con l’ebbrezza di chi si può paragonare a dio?

Le Kapò invece erano scelte tra le detenute che avevano commesso i crimini più atroci, in modo che non ci pensassero più di tanto nel bastonare a morte le prigioniere che non avessero obbedito ciecamente ai loro ordini. Avevano stivaloni con un puntale di ferro. Ufficialmente per non consumare le suole. In realtà per sferrare calci più violenti.

“Qualunque delinquente comune aveva diritto di vita e di morte su noi donne ebree, generatrici di un popolo odioso. E tuttavia noi di questo, allora, non eravamo consapevoli. Sapevamo la sopraffazione, la vergogna, la brutale umiliazione che ci spogliava della nostra umanità, e con essa anche della nostra femminilità.” Liliana Segre.

Il campo di Ravensbrück ha fornito anche circa il 70% delle donne impiegate come prostitute nei bordelli interni di altri campi di concentramento; nel 1942, ad esempio, i tedeschi inviano circa cinquanta prigioniere politiche in vari bordelli di campi di sterminio tra cui Auschwitz, Mauthausen e Gusen. In alcune baracche, le giovanissime sotto i 25 anni, per lo più tedesche, polacche e ucraine (escluse le ragazze ebree che potevano “infettare”), dovevano offrire prestazioni sessuali a una particolare categoria di prigionieri, quelli più produttivi, che svolgevano compiti di sorveglianza all’interno del lager. Oppure venivano offerte come “premio” ai collaborazionisti. Molte di loro erano volontarie per sfuggire alle terribili condizioni di vita del campo. Non si dovevano sollevare pesi, i ritmi di lavoro erano più contenuti, si stava al caldo e si avevano razioni di cibo più sostanziose. Significava la speranza di vivere.

I tedeschi, essendo maniaci dell’ordine e dell’organizzazione, nel 1943 avevano elaborato un regolamento per il postribolo. Orario: dalle 20 alle 22, prolungato alla domenica pomeriggio. Per diventare cliente si doveva fare una domanda e dopo essere stati visitati da un medico, si attendeva il proprio turno e dopo si “accedeva” alla prestazione sessuale. Non più di un quarto d’ora e senza precauzioni, tanto le ragazze erano state sterilizzate. Il tutto, sotto la sorveglianza di una SS grazie ad uno spioncino. Naturalmente erano esclusi i maschi ebrei.

Per molte di queste prigioniere non è mai cessata la sofferenza di essersi sentite violentate, annullate nella dignità.

Una volta finito il periodo di “lavoro” nel postribolo, sfinite e annientate, tornavano nel campo per ricominciare il bestiale lavoro da schiave e ad essere oggetti degli “esperimenti”.

All’inizio del 1944 gli arrivi sono sempre più massicci. L’esercito russo avanza e bisogna portare via le prigioniere, prova vivente (se vivente si può dire di questi poveri scheletri umani) dei loro crimini: solo da Auschwitz-Birkenau ne arrivano 14 mila (questi dati sono stati salvati grazie a prigioniere francesi addette agli uffici di registrazione). Ravensbruck diventa super affollato e così le SS allestiscono una enorme tenda militare per decine di migliaia di detenute. La totale mancanza di igiene crea una moltitudine sporca, infestata di parassiti, coperta di stracci. In brevissimo tempo scoppiano furiose epidemie. Dissenteria e freddo atroce fanno il resto. La tenda diventa un involontario efficace strumento di sterminio. Le SS sono soddisfattissime. Non si aspettavano questo “aiuto” nella loro opera di sterminio. Tanto che ripeterono l’esperimento nel vicino sottocampo di Uckermark, approntato per i grossi spostamenti di deportate inutilizzabili per il lavoro.  Alla fine del 1944 Uckermark diventa campo di eliminazione.

Himmler visitò Ravensbruck alla fine del 1944 e stabilì che si dovessero uccidere ogni giorno cinquanta-sessanta donne. Detto-fatto, viene costruito un forno crematorio nel quale trovano la morte 6 mila donne, l’ultimo sterminio di massa del regime nazista.

Eppure qualcuna riesce a sopravvivere e a tornare.  “Voglio vivere per tornare, per ricordare, per mangiare, per vestirmi, per darmi il rossetto e per raccontare forte, per gridare a tutti che sulla terra esiste l’inferno”, scrive Lidia Beccaria Rolfi nei suoi “Taccuini del Lager” (e che lo storico Bruno Maida ha messo come appendice al libro “Non si è mai ex deportati”). Per tutta la vita lei andò in ogni luogo che volesse ascoltarla, a raccontare la sua esperienza. E ci ha lasciato una testimonianza preziosa.  

Ci spiega, ma lo hanno fatto molte altre internate, come nei campi si sia sviluppata una capacità di resistere e sopravvivere. Storie di coraggio, determinazione, volontà. A volte bastava poco per sentirsi ancora umane. Liliana Segre ne “IL libro della shoah italiana” racconta:

“C’erano in fondo al campo dei ragazzi francesi, prigionieri di guerra. Da lontano ci urlavano in francese e ci chiedevano chi eravamo. Noi rispondevamo: Siamo delle ragazze ebree italiane. E loro sbalorditi: Ragazze!? Eravamo degli ectoplasmi, dei fagotti informi, senza nessuna parvenza femminile. Tutti i giorni ci fecero sentire le loro voci di speranza: Non morite!. E noi rientravamo nella baracca pazze di felicità e dicevamo a quelle che non si alzavano più ciò che ci avevano detto questi ragazzi”.  

Si formavano catene di mutua assistenza che permettevano di sopravvivere grazie allo scambio di cibo, vestiario, informazioni, spiegazioni. Si organizzavano per esempio, lezioni segrete, che le prigioniere più istruite impartivano a quelle che sapevano meno. Le manifestazioni di maggiore solidarietà c’erano nei confronti delle donne madri che erano riuscite a nascondere i loro bambini. Si raccoglievano stracci per coprirli e cambiarli, si rubava un po’ di carbone per riscaldare stanze gelate, si procuravano bottiglie da utilizzare come biberon e molte madri che avevano ancora latte dopo la morte dei loro piccoli, allattavano altri neonati. I 5 bambini scampati agli eccidi, che abbiamo già citato, furono salvati così.

Di Ravensbruck si è sempre parlato e saputo poco. Anche gli storici del Terzo Reich hanno relegato sullo sfondo l’universo femminile, la cultura maschile anche in questo ha dominato,  ma non dimentichiamo che le donne sono state più delle metà delle vittime dello sterminio nazista. E che il sadismo e le atrocità nei campi li hanno commessi anche le donne, medici compresi.

Inoltre, dopo la guerra, Ravensbruck è finita sotto il dominio sovietico che aveva la regola del silenzio su tutto. E nonostante i proclami di uguaglianza del comunismo, non aveva per le donne certo  maggiore considerazione. Un esempio lampante è dato dalla storia di Grete Buber-Neumann. Comunista, scrittrice e giornalista, è stata internata in un gulag siberiano dopo l’esecuzione del marito, un leader del partito comunista tedesco. Dopo il patto Molov-Ribentrop Grete fu “regalata” da Stalin a Hitler come gesto di distensione.

“Le deportate erano, nel migliore dei casi, estenuati animali da lavoro e, nel peggiore, effimeri “pezzi di immondizia”. Ce lo confermano le pochissime a cui la forza, l’intelligenza e la fortuna hanno concesso di portare testimonianza».
Primo Levi

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Stefania Conti

Giornalista. Nata a Roma e laureata in sociologia, ha lavorato presso (in ordine cronologico): Adnkronos, Il Messaggero, Tg2.

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