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Responsabilità: l’anello mancante dei social media

Ai giorni nostri, prima di acquistare o consumare cibo o bevande, molti consumatori controllano l’origine del prodotto, indicazioni sulla sicurezza, gli ingredienti, gli elementi nutritivi e, naturalmente, il prezzo. 

I produttori sono liberi di mettere insieme una varietà di ingredienti (provenienti da diversi fornitori) e vendere qualsiasi prodotto finito purché sia ​​legale, anche se non necessariamente nutriente. 

La catena di distribuzione è chiara. Prima vengono i fornitori, poi i produttori, poi i distributori, e quindi i punti di utilizzo (negozi, siti online, ecc.). Per ogni anello della catena ci sono altrettanti  regolamenti e autorità di controllo. Se un consumatore si ammalasse a causa di un prodotto acquistato, ogni anello (ed ogni autorità di controllo) della catena sarebbe potenzialmente responsabile. 

Confrontiamo ora questo sistema con la produzione di informazioni da parte dei media tradizionali. In questo caso abbiamo un produttore (che raccoglie le notizie da diverse fonti), un prodotto (le notizie stesse), un distributore (per i mezzi elettronici, le onde elettromagnetiche) e un punto di utilizzo (radio, TV, giornali, ecc.). 

Prima di usufruire dei contenuti dei media tradizionali, il consumatore può verificarne l’origine, valutare l’autorevolezza, sondare l’accuratezza ed il valore del contenuto, esattamente come qualsiasi prodotto sul mercato. Anche in questo caso, se un consumatore venisse danneggiato dalle informazioni (ad esempio, si consigliasse consapevolmente o inconsapevolmente un medicinale pericoloso), il consumatore ha diverse opzioni: può perseguire azioni legali, può smettere di sostenere quel mezzo, può fare pressione sugli inserzionisti affinché rimuovano la pubblicità, può danneggiare la reputazione del mezzo o, nel caso di radio e Tv, contestarne la licenza. 

Ora trasferiamo questo processo ai social media. In questo caso, abbiamo il produttore di informazioni, il distributore (Internet) ed i punti di utilizzo (i social media). Nei social media sono i consumatori stessi a produrre i contenuti; mentre per i media tradizionali l’origine del contenuto è nota, nel caso dei social media, il produttore dei contenuti può non essere identificato o identificabile. In altre parole, la catena della responsabilità qui si interrompe. Quindi, quando sui social media compaiono informazioni pericolose (che possono danneggiare la salute o l’incolumità delle persone, e/o incitamento alla violenza), i consumatori non hanno alcuna protezione o ricorso. Anzi, negli Usa la Sezione 230 della legge protegge i social media dalle responsabilità per il contenuto delle loro piattaforme. 

Una narrativa che giustifica questa mancanza di responsabilità è che Mark Zuckerberg di Facebook e/o Jack Dorsey di Twitter, ad esempio, non hanno l’autorità di censurare o il potere di limitare la libertà di espressione dei loro utenti. Dicono di rappresentare solo il messaggero, non il messaggio. Mentre i media tradizionali sono responsabili se la fonte del contenuto che utilizzano si dimostra pericolosa, i social media ne sono esenti anche se questi sono, per loro stessa natura, raccoglitori di dati. Il che significa che presumibilmente sanno esattamente da dove e da chi viene generato il contenuto della loro piattaforma. 

Inoltre, il requisito di non limitare la libertà di espressione non si applica necessariamente nel caso di piattaforme private, che — come tali — possono scegliere il tipo di informazione da diffondere. Infatti, la libertà di espressione (Primo Emendamento negli Usa e articolo 21 della Costituzione italiana) protegge queste piattaforme sul diritto di decidere quali informazioni diramare.

Un’altra narrativa è che i social media sono equiparati alle società telefoniche, che si limitano a collegare gli utenti; quindi la società “C” non può essere responsabile se l’utente “A” mette in pericolo l’utente “B” utilizzando la piattaforma “C.” Questo ovviamente non è del tutto accurato, poiché la società telefonica “C” è responsabile se, ad esempio, l’utente “A” utilizza la rete per effettuare chiamate tipo robocall o scam verso l’utente “B.”

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Dom Serafini

Domenico (Dom) Serafini, di Giulianova risiede a New York City ed è
il fondatore, editore e direttore del mensile “VideoAge” e del quotidiano fieristico VideoAge Daily", rivolti ai principali mercati televisivi e cinematografici internazionali. Dopo il diploma di perito industriale, a 18 anni va a continuare gli studi negli Usa e, per finanziarsi, dal 1968 al ’78 ha lavorato come freelance per una decina di riviste in Italia e negli Usa; ottenuta la licenza Fcc di operatore radio, lavora come dj per tre stazioni radio e produce programmi televisivi nel Long Island, NY. Nel 1979 viene nominato direttore della rivista “Television/Radio Age International” di New York City e nell’81 fonda il mensile “VideoAge”. Negli anni successivi crea altre riviste in Spagna, Francia e Italia. Dal ’94 e per 10 anni scrive di televisione su “Il Sole 24 Ore”, poi su “Il Corriere Adriatico” e riviste di settore come “Pubblicità Italia”, “Cinema &Video” e “Millecanali”. Attualmente collabora con “Il Messaggero” di Roma, con “L’Italo-Americano” di Los Angeles”, “Il Cittadino Canadese” di Montreal ed é opinionista del quotidiano “AmericaOggi” di New York. Ha pubblicato numerosi volumi principalmente sui temi dei media e delle comunicazioni, tra cui “La Televisione via Internet” nel 1999. Dal 2002 al 2005, è stato consulente del Ministro delle Comunicazioni italiano nel settore audiovisivo e televisivo internazionale.

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