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Il rilancio del Sud passa per il costo del lavoro: abbassarlo rispetto al Nord

Perché al tempo dell’industrializzazione d’Italia nel dopoguerra, al Nord si costruirono migliaia di stabilimenti, e pochi al Sud? Furono i lavoratori a doversi trasferire, a centinaia di migliaia, con le loro famiglie, e avvennero migrazioni epocali, involontariamente derise dalla snobistica cultura del neorealismo, con  lo stereotipo delle valigie di cartone. Le città del Nord esplosero, e il Sud rimase sottosviluppato, malgrado i soldi che lo Stato vi profuse attraverso la Cassa del Mezzogiorno.  Un assistenzialismo ad personam, non certo volto allo sviluppo di lungo termine.

Questa stortura non viene per il motivo che tecnici ed operai del Sud sono meno performanti rispetto alle necessità dell’industria moderna. Lo dimostra il fatto che coloro, dirigenti impiegati ed operai, che decisero di trasferirsi trovarono facile impiego al Nord, si inserirono perfettamente nei processi produttivi, e diedero il loro contributo essenziale al cosiddetto “miracolo economico”, un’epopea collettiva di cui fu capace l’Italia nel ventennio che seguì alle distruzioni della guerra perduta. E lo dimostra  anche il buon funzionamento di quei pochi stabilimenti che si costruirono al Sud. Posso personalmente testimoniare tale affermazione per le fabbriche di cui mi sono occupato a lungo per il gruppo Fiat: a Foggia, Bari, Melfi, San Salvo, Grottaminarda, ecc. (unica eccezione Pomigliano, per motivi specifici dell’Alfa Romeo, ma eccezioni ancor più notevoli si ebbero al Nord).

Per rilanciare il Sud occorre abbattere un tabù, o meglio, abbattere gli stipendi

Oggi, come molte volte in passato, riaffiorano giuste lamentele e richieste di intervento dello Stato per un nuovo sviluppo del Sud: e veramente tra le tante potenziali riforme di cui si parla quella volta a creare posti di lavoro nelle regioni meridionali è certamente una delle più necessarie e positive per il futuro dell’Italia, anche in relazione ai suoi rapporti con l’Europa. Ma se si vuole fare una riforma efficace, oltre a metterci dei soldi è necessario infrangere un tabu: il costo del lavoro al Sud dev’essere più basso di quello del Nord. Altrimenti non si giustificano sul piano economico i maggiori oneri che il meridione comporta, per motivi geografici e storici: i mercati, i collegamenti e le strutture industriali stanno al Centro e al Nord dell’Europa.

Il tabu si è affermato in passato sulla base di considerazioni extra-economiche, di prestigio e di equità.

Prestigio? E’ un insulto che un operaio al Sud guadagni meno di un collega al Nord? Meglio allora che resti disoccupato, e riceva un’elemosina di Stato, camuffata da “reddito di cittadinanza” (finanziata da tasse o da debiti pubblici), oppure si debba trasferire, lui e la sua famiglia, abbandonando la sua terra?

Equità? E’ corretto che un operaio di Milano abbia un potere di acquisto e quindi un tenore di vita inferiore al collega di un paesino del Sud, per via dei costi molto maggiori che deve affrontare per vitto e abitazione e servizi (e persino per le vacanze al mare, che sono ormai un bene irrinunciabile)?

Contratto di lavoro: cosa succede nel resto del mondo

Il contratto di lavoro in Italia a livello unico nazionale è un’anomalia tra i paesi sviluppati. Negli Stati Uniti, in Inghilterra, in Cina i contratti sono a livello aziendale. In Germania a livello regionale, dei lander.

Ho alcune esperienze personali piuttosto precise. Negli anni 1980, acquisii per Weber, del gruppo Fiat, un’azienda decotta che stava a St. Louis in Missouri. La trasferimmo nella Carolina del Nord, dove l’ora lavorata costava 8 dollari invece che 30. L’area era poverissima, forse più che del nostro Meridione di allora, e il nostro arrivo in un paesino sperduto, dal nome evocativo di Lone Pines, fu determinante per la prosperità del territorio. Allo stesso tempo, nel 1979, la grande industria Cummins, trasferì la produzione di motori diesel da Columbus, nell’Ohio, a Rocky Mount, nella Carolina, così non solo arricchendo la collettività della regione, ma passando da azienda in crisi a competitivo operatore mondiale del comparto, sino a minacciare l’italiana Iveco: a fronte di tale minaccia mi sarebbe piaciuto aprire un nuovo polo produttivo per il produttore nazionale a costi inferiori rispetto a quelli del nord… A livello macro, negli Stati Uniti Detroit la storica città dell’automobile, fu abbandonata a favore di altre location meno costose e anche i nuovi produttori giapponesi si istallarono in aree a basso costo del lavoro.

In Italia nell’immediato dopoguerra si inventò un sistema di divisione in zone per quanto riguardava la retribuzione del lavoro, sistema basato su locali parametri di costo della vita: fu contestato dai sindacati con l’etichetta denigrativa “gabbie salariali”, ed abolito alla fine degli anni 1960.

Resta il fatto che – secondo me – oggi qualsiasi progetto di rilancio economico-industriale del Meridione d’Italia, comporta che il negoziato sul costo del lavoro si sposti su base regionale, sia per i compensi che per gli oneri sociali e, forse, per la tassazione. Dev’essere chiaro che differenziali simili alle gabbie salariali sono già poderosamente all’opera all’interno del mercato unico europeo, a favore purtroppo degli insediamenti in Polonia, Romania, ecc.

La mia è un’utopia? In effetti ci sono in gioco elementi extra economici quasi insormontabili, il primo dei quali è il potere del sindacato centrale, che sul contratto nazionale unico basa il suo potere a Roma nei confronti dei partiti, potere capillarmente diffuso nelle strutture dello Stato. E mi rendo conto che la canea mediatica avrebbe buon gioco a sollevare accattivanti slogan sui social, che nessun politico vedrebbe di buon occhio, anche se incuranti delle necessità vitali dell’industria del Sud, e, in definitiva, del benessere del Paese. Persino la Confindustria non vedrebbe volentieri le fatiche ed i rischi derivanti da negoziati locali, preferendo l’ombrello protettivo del negoziato nazionale, salvo poi esercitare il diritto del lamento, e giustificare le evasioni dal Paese.

Ma non si sa mai: l’Italia in passato fu capace di trasformare in realtà altre utopie. Per esempio, nel 1992, la Confindustria di Sergio Pininfarina e poi il governo di Giuliano Amato, riuscirono ad archiviare la “scala mobile”, un istituto che, in regime di rapporto di cambio della lira bloccato rispetto alle altre valute dal “serpente monetario”, in presenza di enorme inflazione interna, aveva condotto l’intera industria italiana sull’orlo del tracollo.

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Giorgio Garuzzo

Giorgio Garuzzo nasce a Paesana (Cuneo) il 30 novembre 1938. Laureatosi nel 1961 nel primo corso di laurea in Italia per ingegneri elettronici, ha iniziato la sua lunga carriera in industria nel febbraio 1962, lavorando per dodici anni nel centro di ricerca sui grandi calcolatori elettronici fondato da Adriano Olivetti, partecipando allo progettazione degli elaboratori italiani delle serie Elea e GE che negli anni 1960 fortemente contribuirono alla prima informatizzazione dell’industria italiana. Nel libro “quando in Italia si facevano i computer”, pubblicato come e-book nel 2015, racconta la sua giovanile esperienza nell’ambito di quell’avanzata avventura industriale. Tra il 1973 ed il 1976, è stato membro del Comitato Esecutivo di Gilardini, un gruppo quotato in Borsa, in rapida espansione nei settori dei componenti automobilistici ed industriali. Nel maggio del 1976 l’ing. Carlo De Benedetti, presidente di Gilardini, venne nominato Amministratore Delegato di Fiat, e l’ing. Garuzzo lo seguì in Fiat come suo consigliere personale. Tra il 1976 ed il 1978, l'ing. Garuzzo è stato responsabile dell’ufficio Nuove Iniziative del Gruppo Fiat, promuovendo, tra l’altro, la creazione di Comau, complesso nel campo delle macchine utensili e dei sistemi di produzione, nato dall’integrazione di sette aziende pre-esistenti. Tra il 1979 e il 1984 fu Direttore del Settore Componenti Fiat che includeva oltre 50 aziende del comparto componentistico per l’auto e per l’industria, aziende che riunì in nove raggruppamenti, di molti dei quali fu anche presidente o amministratore delegato: Aspera (compressori per refrigerazione e piccoli motori), Borletti (strumenti di bordo, condizionamento), Comind (componenti in plastica e in gomma), Gilardini, IVI (vernici), Fiat Lubrificanti, Magneti Marelli (componenti elettrici ed elettronici), Weber (carburatori e sistemi di iniezione), Sepa (sistemi elettronici); il Settore raggiunse nel 1982 un fatturato aggregato di 2.250 miliardi di lire, con un buon profitto complessivo. Dal 1984 al 1990 l’ing. Garuzzo fu CEO - Chief Executive Officer di Iveco, la società multinazionale del gruppo Fiat produttrice di veicoli industriali. Dopo le forti perdite riscontrate sino ad allora, Iveco raggiunse il punto di pareggio nel 1985; venne successivamente sviluppata anche tramite acquisizioni (Ford Truck e Seddon Atkinson nel Regno Unito, Pegaso in Spagna, Astra in Italia, Ashok Leyland in India), fino a raggiungere nel 1989 un fatturato superiore agli 8.000 miliardi di lire, con una posizione di leadership sul mercato europeo e un ragguardevole profitto. Da tale posizione Iveco condusse un programma di rinnovamento totale della gamma di prodotto e di 22 stabilimenti in 6 paesi d’Europa, con un investimento di oltre 5.000 miliardi di lire, in larga misura autofinanziato. In aggiunta, nel 1989 l’ing. Garuzzo assunse la responsabilità di Fiat Agri e promosse l’acquisto della divisione dei trattori e delle macchine per l’agricoltura di Ford, coordinando la creazione di un gruppo integrato, che, con la denominazione di New Holland e con un fatturato nel 1990 di 5,1 miliardi di dollari, divenne uno dei due leader mondiali nel comparto, giungendo rapidamente ad un ragguardevole profitto, che ne consentì la quotazione in borsa alcuni anni dopo. Tra il 1991 ed il 1996, l'ing. Garuzzo ha ricoperto il ruolo di direttore generale di Fiat, con responsabilità di tutti i settori autoveicolistici, che includevano Fiat Auto (automobili), Iveco (camion ed autobus), New Holland (trattori, macchine agricole e macchine movimento terra), Magneti Marelli (componenti), Teksid (fonderie), Comau (sitemi di produzione), Ceac (batterie elettriche) e Centro Ricerche Fiat. Tale carica comportava la presidenza del Consiglio di Amministrazione di Fiat Auto S.p.A., di Iveco N.V., di New Holland N.V. Nel 1992 la responsabilità dell’ing. Garuzzo fu estesa a tutto il settore industriale, con l'aggiunta di Fiat Ferroviaria (treni ad assetto variabile), Fiat Avio (parti per aerei ed elicotteri, turbine a gas e propulsori spaziali), Snia (bioingegneria, fibre e prodotti chimici). Nel 1991 partecipò alla fondazione di ACEA, l’Associazione Europea dei Costruttori di Automobili, di cui fu presidente negli anni 1994 e 1995. Nel libro pubblicato nel 2006 “Fiat – I segreti di un’epoca” (ed. Fazi, traduzione inglese ed. Springer), racconta gli eventi della sua esperienza in Fiat e delle realizzazioni industriali nel contesto economico e sociale dell’Italia di quel ventennale periodo. Dal 1996 si occupò di investimenti in “private equity”, esperienza che lo indusse nel 2007 a promuovere la fondazione e la quotazione di Mid Industry Capital SpA (da lui presieduta sino al 2015). E’ sposato con Rosalba Avaro ed ha un figlio, Carlo. L’Istituto Garuzzo per le Arti Visive (IGAV) è un’organizzazione “non-profit”, fondata nel 2005 e finanziata in gran parte dalla famiglia Garuzzo, che ha lo scopo di supportare l’arte contemporanea e in particolare ad aiutare i giovani artisti italiani emergenti a farsi conoscere sia in Italia sia, soprattutto, nei contesti internazionali. Ha sinora organizzato 86 mostre in 58 musei di 19 nazioni, e gestisce l’esposizione della Collezione Permanente alla Castiglia di Saluzzo.

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