Ritorna la lotta di classe, ma è ancora il padronato a condurla. E dopo avere vinto e stravinto (ce lo dice Warren Buffett e in modo del tutto spassionato: “forse abbiamo vinto troppo”) quella precedente; segnata dall’ordoliberismo, con annessa prevalenza delle ragioni economiche su quelle politiche, e della società di mercato sulle altre.
Perché? E contro chi o che cosa?
Primo e soprattutto perché l’ordoliberismo è morto, colpito dalla pandemia e dall’uso politico della medesima nelle sue stesse fondamenta. Anche se non si sentiva tanto bene nemmeno prima, con gli annessi e connessi dell’arrivo di Trump e della relativa distruzione delle regole e delle istituzioni; queste necessarie per l’esistenza di qualsiasi ordine mondiale e, a maggior ragione, di quello liberista (e, in questo caso, anche liberale…). A sperare nel suo ritorno, i nostalgici e a combatterlo, come se ancora esistesse, quelli della sinistra antagonista. Ma per pure ragioni ideologiche. Nella realtà la pandemia e, ancor più il post pandemia, riporteranno al centro della scena e la politica e lo stato. E in un contesto in cui la fuoruscita dalla crisi può portare verso esiti diversi se non opposti in un mondo che, in partenza, sarà, comunque, più povero, più ingiusto, più chiuso e più disordinato.
In questo quadro d’insieme, difficile pensare ad un ritorno della lotta di classe nei termini che abbiamo imparato a conoscere lungo tutto l’arco del ventesimo secolo. Il mondo del lavoro e i suoi tradizionali sostenitori non ne hanno i mezzi e la volontà; e il padronato non ne ha l’interesse.
In Italia, come in moltissimi altri paesi, il sindacato nazionale continua a perdere capacità contrattuale (sono scaduti da anni un’infinità di contratti, tra cui quello dei metalmeccanici e nessuno fa una piega) senza aver recuperato, anzi, il suo ruolo di “parte sociale”. Mentre i lavoratori si battono, spesso senza successo, ma quasi sempre per non perdere un lavoro che tende a sparire anzi a spostarsi continuamente verso lidi più accoglienti. Spesso in condizioni di impotenza, nell’alternativa tra perdere il lavoro o conservarlo/ottenerlo da altri e alle loro condizioni. In quanto ai socialisti, questi sono sì oggetto di una campagna propagandistica più o meno all’insegna del “pericolo rosso”; mentre poi si prodigano in ogni modo per apparire del tutto inoffensivi. Fatte salve le debite eccezioni.
In queste condizioni il padronato non ha alcuna necessità di sparare sull’ambulanza; con il rischio di risvegliarne i conducenti. E proprio mentre si trova di fronte a un pericolo infinitamente più grande; il risveglio dello stato.
Qui i segnali sono molti. E tutti preoccupanti. Tanto più in quanto la posta in gioco è enorme. Si tratta di sapere come sarà il mondo all’indomani della pandemia e soprattutto quali saranno le forze che lo governeranno e in quale direzione. E, più prosaicamente chi pagherà i costi della crisi e i prezzi del ritorno alla normalità (a partire dalla gestione di debito, ora giunto al 300 per cento e oltre del Pil mondiale e con un’inflazione vicina allo zero). Il tutto in un contesto in cui lo stato si è risvegliato, se non altro per la forza delle circostanze; governando, come se fossimo in guerra, la vita dei cittadini. E qui i segnali di pericolo sono tanti. C’è in primo luogo il ritorno generale di quello che viene chiamato sprezzantemente “assistenzialismo” ma che è in realtà soccorso generalizzato alle persone: dal reddito di cittadinanza, alla sovvenzione ai pasti nei ristoranti, fino ai cosiddetti “stimoli” che hanno portato lo stesso Bolsonaro a sostenere i redditi dei più poveri in una misura superiore rispetto ai precedenti programmi di Lula. E poi ci sono gli interventi a favore delle imprese con l’”assurda pretesa” di avere una voce in capitolo nella loro gestione fino a vagheggiare ipotesi di nazionalizzazione; il ritorno degli uffici del piano; i vincoli ambientali; l’insistenza crescente sui paradisi fiscali e sul dumping fiscale e sociale, gli ostacoli al commercio e quant’altro. Il tutto, in radicale contrasto con il sogno di totale libertà coltivato e praticato nel corso di questi ultimi decenni.
Che fare allora? Aderire ad un nuovo compromesso tra capitalismo e democrazia? Troppo presto per parlarne (e quello precedente, all’indomani della seconda guerra mondiale, fu il frutto di circostanze e di eventi eccezionali). Resistere, allora; ma con quali forze?
Qui il quadro è molto meno favorevole di quanto si pensi. I partiti liberisti/liberali, come la civiltà che li alimentava, sono in piena ritirata. Mentre, almeno per ora, il “politicamente corretto” pone un fortissimo freno all’alleanza aperta con il populismo di destra, pur ampiamente disposto a offrire i propri servigi. Infine, lo stesso fronte imprenditoriale, compatto tra i soldati, è, nelle altre sfere, profondamente diviso tra gli intransigenti e quelli disposti a pagare dazio al nuovo clima politico.
A, speriamo momentaneo, favore dei “duri” c’è, però, il grande disordine mondiale. E l’opinione, condivisa dagli stessi interessati, che gli stati e i governi non siano in grado di concepire e di guidare il ritorno a una nuova e superiore normalità condivisa. E, che, quindi, valga la linea dell’”ognun per sé e nessuno per tutti”.
Allo stato e magari alla stessa società l’onore e l’onere di smentire questo convincimento. A partire dal fatto che, senza recupero delle domande interne e un impegno collettivo in tale direzione, l’indurimento del padronato può portare a esiti catastrofici.
La partita, naturalmente, è tutt’altro che vinta. Qui e ora si tratta semplicemente di aprirla.
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