Chi si è candidato a sindaco della Capitale ha il dovere di dire agli elettori ciò che pensa, ciò che ha in programma di fare e quindi come intende concretamente realizzare le opere e far funzionare i servizi e con quali risorse e competenze avendo la consapevolezza della grave situazione in cui versa da tempo la città e del contesto culturale ed economico di transizione in cui si trova la società italiana.
Uso e spreco del territorio, delle risorse artistiche, culturali e storiche e di quelle finanziarie sono in sintesi i mali di Roma che Moondo intende mettere al centro della riflessione in questa vigilia di campagna elettorale.
Sono mali gravi della città, certamente non di oggi ma che il tempo (e la pandemia) hanno aggravato e che le Amministrazioni dell’ultimo decennio hanno ignorato portando Roma al collasso e alla invivibilità per i suoi abitanti.
Vogliamo offrire ai nostri lettori il risultato della nostra riflessione.
La libertà di scegliere. I cittadini romani non vogliono cambiare stile di vita. Non vogliono rinunciare alla libertà di muoversi nella città. Compito di chi governa non è quello di indicare un modello di vita, ma di fare in modo che ciascuno possa liberamente scegliere come vivere la città. Così non è: la vita di un cittadino romano è dura.
I nostri concittadini rimangono bloccati in media due ore al giorno nella propria auto, e ci si trova costretti a impegnare altro prezioso tempo nella ricerca di un parcheggio. Sconcertanti sono i disagi dei pendolari.
Un grande male come quello della mobilità non può essere affrontato invocando un trasporto pubblico che non c’è, nè tanto meno progettando e realizzando uno sviluppo edilizio di sole case senza strade e senza servizi.
Quello che sorprende è il silenzio sul traffico sul grande raccordo anulare (malgrado l’inutile terza corsia), sulle vie consolari, su qualsiasi strada, dal centro alla periferia: tutti immobili, rassegnati.
Come sembra anche essere il carattere del dibattito culturale che, nell’ultimo decennio, non ha generato idee nuove, proposte concrete né tanto meno individuato una soluzione ai mali della città. Interi quartieri hanno da anni carenze infrastrutturali e gravi ritardi dal punto di vista sociale: Corviale, Bravetta, Tor Bella Monaca, Laurentino 38, Quartaccio sono i quartieri simbolo di quello che può considerarsi un vero e proprio terzo mondo romano.
Il degrado di Roma non si ferma alle sue periferie, in maniera diversa è avanzato indisturbato verso il cuore stesso della città, dove i monumenti sono utilizzati come spartitraffico e i parchi come “edilizia provvisoria”.
Ad aggravare le possibilità di una crescita e di uno sviluppo equilibrato e duraturo vi è la situazione economico-finanziaria in cui versano le casse del Comune di Roma che fanno registrare un debito di molti milioni di euro. Da un lato, occorre quindi un’intensa azione di risanamento finanziario agendo anche sulla riorganizzazione della macchina comunale, dall’altro occorre imprimere un maggiore dinamismo all’economia accelerando soprattutto la modernizzazione delle infrastrutture.
Non a parole ma concreta e reale, indispensabile per rendere più stringente le relazioni collaborative fra i diversi operatori, per integrare le grandi energie e il patrimonio delle capacità potenziali, per creare maggiori economie esterne e favorire lo sviluppo di nuove iniziative economiche. Per realizzare tutto ciò, occorre che Roma esca dalla logica dell’improvvisazione, dalle politiche di corto respiro.
Un piano Strategico è necessario per la città capitale, in cui siano fissati grandi obiettivi e politiche per raggiungerli, un Piano che abbia alla base un’idea forte, moderna e visionaria capace di imprimere una svolta allo sviluppo non solo per migliorare la qualità della vita ma soprattutto per dare competitività alla Città con uno sguardo deciso verso il futuro prossimo.
Manca una holding che gestisca le aziende del Gruppo (l’attuale stato delle aziende del gruppo del Comune di Roma è disastroso) non è presente una sistema di checks and bilance che favorisca una dialettica fra organi di governo e organi di controllo, le società in house sono serbatoi clientelari talora ereditati dal passato che producono soltanto inefficienza e deficit finanziario.
Chi governa il Comune non ha il compito di gestire il tessuto sociale della città ma piuttosto di valorizzarne le autonome attività secondo un modello partecipativo profondamente liberale, post leaderistico e post dirigista, che si esprima tanto al Comune quanto nei Municipi.
In questi anni i sindaci romani hanno viaggiato su altri binari: hanno lanciato idee ambiziose e progetti mediaticamente efficaci, ma non sono riusciti a realizzare un semplice stadio per il calcio o candidare la città per i giochi olimpici.
Molte cose sono cambiate e nessuno si farà più incantare dalle parole. Oggi i problemi sono reali e concreti e le esigenze hanno modi e tempi definiti. E’ a questi che è necessario far fronte mentre, nell’ultimo decennio, il Campidoglio ha preteso di dirigere in prima persona una rilevante quantità di attività economiche, ha disegnato opere e progetti, ha organizzato concerti e ha gestito servizi, ha vestito i panni dell’imprenditore disponendo dei soldi dei cittadini senza nessun controllo, selezionando le risorse secondo propri indiscutibili criteri. Il risultato non è una città più bella e più vivibile ma un enorme debito e uno spoils system che ha impedito la selezione di manager capaci e competenti.
Sono tre i candidati nuovi: l’avvocato Michetti, il prof Gualtieri e il dottor Calenda.
Enrico Michetti, chi è costui? Lo sanno quelli che ascoltano Radio-radio e lo sanno Salvini, Tajani e la Meloni che lo hanno selezionato nella società civile per fare il candidato unitario della destra.
Roberto Gualtieri, pacifico professore universitario di storia contemporanea con la passione per la politica, catapultato dal PD come parlamentare europeo a Straburgo, risultato vincitore indiscusso delle primarie della sinistra come sette anni prima era avvenuto con il chirurgo Marino, eletto Sindaco con il simbolo PD, ma poi dal PD messo alla porta. Fu incapacità politica e gestionale del Marino o guerra delle correnti nel suo Partito?
Carlo Calenda è un brillante dirigente d’azienda. Da viceministro e poi ministro allo sviluppo economico è apparso capace e incisivo. Le sue idee sulla città coincidono con quelle di molti romani, ma a Sindaco di Roma si arriva per consenso popolare come espressione di una volontà maggioritaria che si realizza oltre la Roma bene e soprattutto nella popolosa periferia consolidata.
Moondo non si ferma alla denuncia, non fa propaganda. Abbiamo più volte espresso il nostro dissenso rispetto alla gestione del sindaco Raggi per cui riteniamo che sia superfluo tornare sull’argomento: la signora Raggi è bene che torni alla sua occupazione professionale. Come collaboratori del giornale abbiamo voluto impegnarci nell’individuare una proposta per lo sviluppo di Roma capace di aprire prospettive nuove per la Città Capitale, con i poteri derivanti da una legge costituzionale che consentano di realizzare progetti e opere come proposto dai socialisti con la proposta di legge del 27 gennaio1986 cui seguì il disegno di legge del governo Craxi del 15 dicembre dello stesso anno. Un progetto riformatore che mantiene tutta la sua attualità e costituisce un oggettivo contributo al programma enunciato da Carlo Calenda che condividiamo.
La nostra riflessione si estende all’attuale forma istituzionale e amministrativa di Roma. La città è la Capitale d’Italia e per questo assolve ad una funzione e ha un ruolo nella Nazione e per il mondo che va oltre i pur legittimi interessi locali. È urgente e necessaria una riforma costituzionale che dia alle sue istituzioni poteri speciali.
Attraverso la nascita dei Municipi sarebbe dovuto avvenire il decentramento amministrativo ma, nonostante ci fossero gli strumenti legislativi per attuarlo come la riforma del titolo V della Costituzione negli articoli 114 e nel 118 e il Testo Unico sugli Enti Locali, esso non è mai decollato. Ad oggi infatti i 15 municipi esistenti a Roma sono altrettante scatole vuote. Viene da domandarsi perché il decentramento non si sia attuato: la risposta è in una carenza strutturale che vede chiamati a svolgere poteri che dovrebbero essere analoghi a quelli di un comune con più di 250.000 abitanti con gli strumenti che possono servire al massimo per il rilascio dei certificati e il riempimento delle buche nelle strade. Anche questa parte della gestione amministrativa cittadina va rivista nel contesto di un’area metropolitana con un governo centrale e municipi con poteri comunali, gli stessi che hanno i comuni facenti parte della stessa area metropolitana.
Il cittadino si deve riavvicinare al governo del proprio territorio restituendo ad esso una funzione centrale per la soluzione delle problematiche locali. Solo con questi cambiamenti è possibile parlare di vero decentramento e solo attraverso questi passaggi può nascere la nuova Città Capitale.
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