Leggendo questo libro ci accorgiamo di aver desiderato, fin dalle prime pagine di arrivare fino in fondo per soddisfare una curiosità che si sviluppa nel corso della lettura e che trova una risposta nel momento in cui ci si appropria del serio messaggio su cui ruota il tema trattato dalle autrici. Dal titolo del libro, che riporta un antico proverbio diffuso tra le classi contadine calabresi, “salute e pane asciutto”, s’intende come pur di ritrovarsi in buona salute l’uomo sia capace di accontentarsi di un pezzo di pane, un alimento che nella storia della sopravvivenza ha sempre conquistato un ruolo principale.
Questo lavoro di ricerca conferma che per la nostra buona salute dobbiamo ricorrere ad una educazione alimentare che consideri l’alimentazione mediterranea come uno stile di vita. Non si tratta di una difesa nostalgica delle nostre tradizioni ma una necessità emergente per la nostra salute tanto che questa dieta mediterranea acquisti il marchio DOP a livello mondiale per la sua varietà, ricchezza di nutrienti, e semplicità. Ma cosa rappresenta il Mediterraneo per la Zanoni e la Cauteruccio? Scopriamo che non è solo una metafora che coordina il senso di appartenenza di una civiltà, non è solo un processo di culture, di identità, di storie e di intrecci etici e filosofici, ma è soprattutto, come riporta lo storico francese Braudel, destino. Viviamo il Mediterraneo tra le tracce dei destini che i popoli ci hanno affidato e trasmesso attraverso i valori delle tradizioni che ancor oggi continuano a tenere in vita.
Nell’evolversi della cultura mediterranea la Calabria tra mare e terra ha rappresentato la culla di più antiche civiltà che qui hanno imposto è lascito la loro impronta indelebile. Maria Zanoni con la sua approfondita analisi ci conferma come i molti prodotti agroalimentari tipici tradizionali della sua regione meritino di entrare in un circuito promozionale per l’alto valore nutrizionale e l’originalità e autenticità dei prodotti che l’hanno fatti riconoscere e accreditare su tutti i mercati del mondo. La matrice gastronomica calabrese è strettamente legata alla civiltà contadina che si caratterizza per il costante e duro impegno per la sopravvivenza. Il pane in questa lotta è stato l’alimento di spicco Il contadino lavorava per il pane. La filosofia della sopravvivenza recitava così: “a chi ti toglie il pane togli la vita”! Ragioni storiche ambientali, climatiche hanno fatto sì che i cereali diventassero gli elementi del paesaggio e della cucina calabrese. Il pane era considerato addirittura sacro ed ogni pane era buono per riempire la pancia anche quando faceva la muffa. Non se ne poteva buttare neppure una fetta e non si poteva posare sulla tavola girato sottosopra perché era il volto di Cristo. Questo era motivo valido per ritrovare il pane anche indurito in zuppe o minestre saporite. La lucùrdia era, infatti una zuppa preparata con acqua bollente in cui erano stati uniti olio, cipolle, pezzetti di pomodoro, sedano, uova e un pizzico di sale, che veniva versato sul pane raffermo.
Non tutti i ceti sociali potevano accedere al pane. Quello consumato dalle classi contadine era una mistura di legumi, mais, lenticchie, segale, castagne e persino lupini. Con questa farina si ricavava il pane nero, disgustoso ma indispensabile per non morire di fame. Per le gravi carestie i contadini riuscirono a pianificare anche con lupini, cicorie ed erbe selvatiche, il pane bianco di grano era un privilegio riservato alle classi benestanti, per raccogliere prodotti diversi bisognava attendere la stagione estiva. Non mancava la carne di maiale che veniva considerata “la banca contadina”. È sorprendete pensare che una sola manciata di fichi secchi facilmente conservabili e ricchi di proprietà energetiche in certe situazioni potessero rappresentare un’importante risorsa alimentare.
L’astuzia del contadino riusciva anche a risolvere o alleviare la fame di una giornata interamente trascorsa nel campo scavando una pagnotta per riporvi ciò che a casa aveva a portata di mano dalle frittate alle patate e poi peperoni cipolle o stufati. Oggi vorremmo ritornare a queste abitudini per poter assaporare il gusto genuino di quanto la terra produce. Fare il pane era un’arte che si tramandava di madre in figlia. Le donne, di buon mattino, preparavano la pasta con il lievito preso in prestito la sera precedente dalle vicine o dalle comari, impastavano la farina nella madia, poi formano dei pani rotondi che sistemavano su un canovaccio steso sul letto; ricoprivano il tutto con delle coperte di lana perché con il calore lievitasse. Intatto riscaldavano il forno con fascine di legna e quando la volta diventava bianca toglievano la brace; in ultimo si segnavano la fronte con la croce e recitavano “Santu Martinu pane cuttu e furnu chijnu” nella credenza di allentare il malocchio, mettevano a cuocere i pani lasciando alla bocca del forno lo spazio per le pitte ovvero focacce a forma circolare del diametro di 30 cm sfornate prima del pane e solitamente offerte a chi aveva prestato il lievito. Sfornare e sistemare il pane nella madia rappresentava una gioia. Si arrivava a panificare anche ogni due mesi per risparmiare tempo e legna. Il pane veniva conservato anche in un graticcio appeso al soffitto.
Quando riuscivano a panificare più spesso si preparavano le frese cioè un pane che aveva come caratteristica la biscottatura che si otteneva spaccando dei cilindri a metà per essere poi infornati per altrettanto tempo di cottura. Le frese si consumavano dopo averle ammorbidite con acqua e condite con olio, origano, peperoncino e pomodoro. Mi sorprende scoprire come nelle antiche usanze durante il periodo pasquale in tutta la regione venissero preparati pani modellati a forma di pupo con l’uovo in testa “U cicciu”, oppure a forma di animale da regalare a bambini, amici e anche a parenti in lutto, anche oggi più diffusa l’abitudine di imbandire la tavola pasquale con pani preparati in varie forme nei quali compare spesso l’uovo come simbolo di fecondità e di rinascita. I calabresi li chiamano cuddùre o cullare. Allora al pane gli viene da attribuire onore e gloria in ricordo delle tradizioni ma anche al cibo in genere per essere stato capace di consolidare e mantenere i rapporti sociali assumendo, in varie occasioni, il ruolo di messaggero di amicizia, solidarietà, dono. Ruolo che anche la società moderna gli attribuisce affermando che i migliori affari si fanno a tavola.
Consumare il cibo insieme è sempre segno di amicizia anche d’amore, spesso di riappacificazione e senz’altro di gioia. Per questo vale la pena di scoprire, tutelare, vivere l’eredità mediterranea riappropriarsi della propria identità alimentare attraverso il recupero del piacere di mangiare, ma prima ancora del cucinare dovrebbe riportarci ad una sensibilità tale da rifiutare un’alimentazione industriale che la corsa frenetica di una società proiettata verso il futuro ha realizzato a discapito di una buona salute. Il modello fast-food ha forse, oltre tutto coltivato il piacere del mangiare in compagnia. Il gusto dei sapori dove è finito? Fast-food ha solo contribuito a farci correre di più impedendoci di riflettere. Concludendo la mia analisi, riaffiora la convinzione del ruolo predominante del pane nella tavola di ogni tempo. Guai se dovesse mancare! Oggi riempiamo i nostri cestini con pani di ogni genere freschi o conservati grissini, pancarrè, medaglioni morbidi, fette di pagnotte rustiche, pani bianchi gialli, scuri di segale, pani regionali, al sesamo alle olive. Insomma abbiamo l’imbarazzo della scelta per qualità e forma. Una volta seduti a tavola, tutti sono ponti con disinvoltura ad allungare la mano e soddisfare i primi morsi della fame a cui nessuno vuole resistere.
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