Accadeva così.
Accadeva che il tempo passava e che le lancette dell’orologio non segnavano più l’ora ma il ritardo. Si poteva provare a telefonare, certo, ma per comporre i numeri i telefoni avevano un disco che girava e la linea arrivava da un filo attaccato alla parete.
Si telefonava, ma dall’altra parte non rispondeva nessuno; segretarie uscite, uffici chiusi, fabbriche deserte dopo l’ultimo turno.
Accadeva che si aspettava, si guardava dalla finestra, si fumava, si chiamava velocemente qualche amico o qualche parente per sapere se per caso fosse passato di lì, ma solo un attimo perché la linea era unica ed era meglio non tenerla occupata.
E poi si faceva quella telefonata che non si sarebbe mai voluta fare, quella telefonata che appena dopo faceva arrivare in casa un ispettore, qualche volta un commissario a seconda dell’importanza del cognome che aveva chiamato, a volte insieme a un’ausiliaria della polizia femminile che poteva essere utile per un supporto psicologico, e sempre con due agenti, uno che rimaneva ad aspettare sul pianerottolo e l’altro che entrava, rimanendo un po’ a distanza, per rispetto ma anche per guardarsi meglio intorno e capire la scena.
E poi il commissario telefonava anche lui, chiamava il magistrato di turno che poco dopo arrivava anche lui con altri due agenti che lo accompagnavano.
E la casa si riempiva, erano in tanti, c’erano tutti tranne lui, lui che sarebbe dovuto tornare già da qualche ora e che invece non era tornato.
Iniziava così l’attesa, nel tremore, nella paura, nelle solitudini delle notti insonni, nei troppi caffè che bruciavano lo stomaco, nel fumo di sigarette accese, fumate, ma spesso lasciate a bruciare su qualche posacenere.
Iniziava l’attesa perché una telefonata, prima o poi, sarebbe arrivata.
L’aspettavano tutti quella telefonata, la famiglia, i poliziotti in ascolto che avevano messo subito sotto controllo il telefono, il magistrato.
E la telefonata arrivava e dava un numero, spesso esorbitante, al di là delle possibilità, ma è così che iniziava la trattativa e giorni, settimane, mesi passavano così, con qualcuno che tornava, qualcuno che dopo ce la faceva a ricominciare a vivere, qualcuno che non sarebbe più ripreso e qualcuno che invece non sarebbe mai tornato.
Accadeva così nelle famiglie dei rapiti, quando il sequestro a scopo estorsivo era diventato il bancomat di criminalità varia, con ndrangheta, anonima sarda e banda della Magliana artefici di 669 sequestri di persona dal 1969 al 1997, con anni orribili il 1977 con 75 rapiti e il 1979 con 59: un’industria vera e propria.
Accadeva che si pagassero riscatti, accadeva che il pagamento del riscatto fosse organizzato dalla stessa polizia per tentare l’arresto dei rapitori, accadeva anche, però, che il magistrato disponesse il blocco dei beni familiari per impedirne invece il pagamento e fare terra bruciata ai rapitori.
Il primo a disporre il blocco dei beni per impedire il pagamento di un riscatto fu, nel 1976, il
giudice Pomarici in occasione del sequestro dell’industriale milanese Carlo Alberghini, ma fu solo la legge 92 del 1991 a stabilirne l’obbligo; legge probabilmente tardiva ma, altrettanto
probabilmente risolutiva, visto il significativo decremento dei rapimenti negli anni a seguire.
Sono anni passati, lontani ma non troppo per chi ha memoria delle cose italiane, una memoria che dovrebbe essere d’aiuto per tentare di dare una lettura asettica a quanto è avvenuto in queste ore e che terrà banco a lungo nelle più o meno strumentali polemiche a mezzo stampa: la liberazione di Silvia Romano dopo 18 mesi dal suo rapimento avvenuto in Kenya.
Le notizie che riguardano termini e modalità del suo ritorno a casa sono inevitabilmente
frammentarie e a volte discordanti, tali comunque, come accade ogni volta che un sequestro riguardi un cooperatore rapito all’estero, da essere ulteriormente divisive di un’opinione pubblica che fatica a trovare la strada della verità, aiutata in questa mancanza da una politica che sembra sempre più privilegiare la logica della photo opportunity, incapace forse di trovare il senso dello Stato.
Silvia Romano ha 25 anni, è un bene che sia tornata a casa e che possa tornare a immaginare la sua vita, la vita che vorrà, qualunque sarà.
Le polemiche sulla sua conversione all’Islam, il matrimonio, il suo essere o meno incinta, ci
entusiasmano quanto una bega da cortile e le consideriamo alla stregua di armi di distrazione di massa.
Gli aspetti su cui riflettere sono altri.
Dobbiamo chiederci se le norme che regolano l’attività all’estero delle ONG e l’invio di volontari in zone a rischio siano adeguate o meno.
Dobbiamo chiederci se sia corretto che un’impresa italiana che svolge lavori su commessa in zone a rischio sia giuridicamente responsabile della sicurezza dei propri dipendenti, mentre una ONG non lo debba essere.
Dobbiamo chiederci con quale criterio sia stato definito rapimento a scopo terroristico e non
economico quello di cui è stata vittima Silvia Romano.
Dov’è la finalità terroristica in un rapimento che si conclude con il pagamento di un riscatto? Si può declinare nel caso del rapimento di Silvia Romano la definizione di violenza illegittima finalizzata a incutere terrore nei membri di una collettività organizzata e a destabilizzarne o restaurarne l’ordine, così come il dizionario Treccani definisce il terrorismo? Dove si evince la finalità terroristica, così come definita dall’art. 270 bis del Codice Penale, nel rapimento di Silvia Romano?
La banda criminale che ha rapito Silvia Romano in Kenya ha venduto la ragazza ad altre
organizzazioni criminali e, al di là della sua dolorosa vicenda personale verso la quale tutti
dobbiamo il massimo rispetto, quali effetti destabilizzanti ha avuto il suo rapimento rispetto
all’ordinamento democratico italiano?
Le notizie lasciate filtrare dai comunicati ufficiali e dai tweet inarrestabili del presidente del
Consiglio, narrano di una liberazione dovuta a un’operazione congiunta dei servizi d’intelligence italiani, turchi e somali.
Una dichiarazione che, se confermata come al momento appare, fa saltare agli occhi due evidenze particolari.
La prima riguarda l’apprendere di una relativa operatività dei servizi d’intelligence somali, fatto in qualche modo sorprendente considerando che dal 1991 la Somalia arranca in una guerra civile di cui non si vede via d’uscita e che l’attuale presidente Mohamed Abdullah Mohamed, detto Farmajo, pur nella concreta prospettiva di una sua rielezione, non controlla la parte centro meridionale del paese, saldamente in mano ai fondamentalisti islamici di Al Shabab, e ha problemi al nord, dove sono attivi diversi gruppi legati all’ISIS.
La seconda riguarda la dichiarata collaborazione con i servizi d’intelligence turchi che testimonia, se mai ce ne fosse ancora bisogno, la proiezione in Africa come asse portante della visione geopolitica di Ankara che trova, nel sostegno alla Somalia, un tentativo di bilanciare il protagonismo arabo saudita ed emiratino che, nel corno d’Africa, ha favorito la rinnovata pace tra Etiopia ed Eritrea.
Tornando al novero delle domande, dobbiamo quindi chiederci a cosa serva, in termini politici, diplomatici e informativi, il dispositivo militare italiano dispiegato in Somalia che, nell’ambito dei programmi europei di addestramento Eutm e Eucap e dell’operazione di contrasto alla pirateria Eunavfor, assomma a oltre 500 uomini con capacità d’impiego operativo, se da tale presenza l’Italia non è in grado di affrontare e risolvere da sola, con la propria intelligence e con il proprio dispositivo militare operativo in loco, un intervento risolutivo per la liberazione di un rapito italiano.
Negli anni dei rapimenti economici lo Stato, prima per volontà individuale di alcuni magistrati e poi per legge, ha sancito il criterio della non trattativa economica con i rapitori.
Nel nome della non trattativa con i rapitori si è concluso tragicamente il sequestro politico di Aldo Moro, il cui corpo riverso nel bagagliaio della Renault 4 ritrovato il 9 maggio del 1978 ha segnato uno dei momenti più deflagranti della storia repubblicana.
Esiste uno Stato ed esiste un senso dello Stato.
Se il sequestro di Silvia Romano è stato un sequestro economico, come dinamica, fatti e
conseguenze lascerebbero supporre, il riscatto non doveva essere pagato, non ritrovando alcuna differenza rispetto ai casi di sequestri nazionali in cui alle famiglie è stato impedito di pagare per la liberazione dei propri rapiti.
Se il sequestro di Silvia Romano è stato un sequestro a scopo di terrorismo, allora lo Stato deve battere un colpo e decidere cosa vuole fare da grande, perché nessuna Nazione che aspiri ad avere un ruolo e un significato a livello internazionale non può prescindere dall’avere volontà e capacità di proiezione operativa nelle aree a risonanza strategica dei propri interessi nazionali.
Non è chiedere troppo.
È chiedere semplicemente di fare scelte definitive e univoche chiarendo quale sia il senso dello Stato al quale la Repubblica debba conformarsi negli anni a venire.
Il caso di Silvia Romano deve essere trattato non per guardare dal buco della serratura le sue vicende personali sorvolando sul suo essere donna al centro di una vicenda umana comunque tragica, ma per riproporre drammaticamente l’urgenza di dare una risposta a questa esigenza senza dover attendere il prossimo rapimento per riprendere il discorso.
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