Se qualcuno ha in mente di avviare una politica economica che riduca gli squilibri esistenti tra il Mezzogiorno e il resto dell’Italia occorre cominciare a prendere di petto i tabù che la ostacolano.
Giorgio Garruzzo, con il suo articolo di lunedì 20 luglio (Il rilancio del Sud passa per il costo del lavoro: abbassarlo rispetto al Nord), ha il merito di sollevare un problema rimasto sepolto da oltre 50 anni: quello dei salari percepiti dai lavoratori delle imprese che operano nel Sud.
Posto in maniera nuda e cruda farà rizzare i capelli agli esegeti della storia economico sindacale che lo vedono come una riproposizione delle odiate “gabbie salariali” che furono abbattute negli anni ’60 del secolo scorso.
Confesso che, quand’anche io ero giovane, ho auspicato per la loro soppressione in nome di una giustizia sociale che allora si andava affermando con l’avvicinarsi e poi con l’ingresso del Partito socialista nel governo del Paese. E, oggi, non ho nulla da recriminare per le scelte allora compiute.
Tuttavia, è tempo di aprire gli occhi e guardarsi intorno per analizzare il mondo circostante che è radicalmente cambiato. Garruzzo accenna alla delocalizzazione delle produzioni verso paesi dell’est Europa, come Bulgaria e Romania, dove proprio il più basso costo del lavoro consente produzioni competitive.
Negli anni ’60 quei paesi appartenevano ad un altro mondo, il famoso “paradiso dei lavoratori” del sistema sovietico e, quindi, non c’era competizione e tanto meno concorrenza. Oggi quei paesi e tanti altri dell’ex blocco orientale sono parte integrante del mercato unico europeo e con essi le imprese italiane sono chiamate ad un confronto quotidiano.
Allora, se si opera sullo stesso mercato, il problema delle “gabbie salariali” va posto in termini generali. Ma perchè là nell’est Europa operai ed impiegati accettano retribuzioni nettamente più basse rispetto ai loro colleghi dell’occidente? La risposta è elementare, perché là il cosiddetto “costo della vita” è drasticamente minore e quindi il “tenore” se non è ancora uguale si sta ravvicinando.
Certo, pensare di risolvere la questione dello sviluppo meridionale ritornando in maniera secca alla riproposizione di salari inferiori non sta in piedi. E Garruzzo lo pone in evidenza quando accenna al problema della contrattazione sindacale ossidata a livello nazionale, mentre potrebbe e dovrebbe essere articolata per aree interregionali economicamente omogenee.
I grandi sindacati, o meglio quel che resta di loro, sono ovviamente restii non ad avviare ma soltanto a sentire questi discorsi. Ne va della loro presa sulla politica nazionale. Questo è un altro tabù, un conto era il peso della organizzazioni sindacali al tempo delle grandi fabbriche e delle masse operaie composte da milioni di individui. Quel mondo non esiste più, basta girarsi intorno e vedere come il sistema produttiva italiano si è sviluppato e si svilupperà sempre più su strutture più piccole e più capaci di dare risposte immediate all’evoluzione dei mercati e alla domanda che essi generano. Ciò significa che la contrattazione – eccettuate le grandi linee che riguardano i diritti e le tutele dei lavoratori – deve necessariamente scendere su piani diversi e più prossimi alla realtà delle imprese e dei territori ove esse agiscono.
Pensando al Mezzogiorno e al suo possibile sviluppo, c’è un altro tema altrettanto e forse più importante di quello salariale, esso riguarda la fiscalità.
Proprio in questi giorni il problema della fiscalità è sbattuto in faccia all’opinione pubblica italiana, sia sul versante internazionale che su quello interno. A Bruxelles, l’Unione Europea si è scontrata con un argomento sottaciuto ma divenuto gigantesco. Vale a dire le opportunità di abbattimento delle imposte che alcuni paesi, prima tra loro l’Olanda, garantiscono alle imprese estere che ivi si stabiliscono. Il caso emblematico è quello della Fiat, pardon della FCA, che dopo aver attinto in tutti i modi e a piene mani alle risorse italiane adesso ha dato il ben servito fiscale alla madre patria.
Come controfaccia di quanto avviene nel mercato unico, dove ormai si può chiaramente parlare di dumping fiscale, in Italia – dopo mesi di chiusura di difficoltà e non produzione – è caduta sulle spalle dei contribuenti una cascata di imposte e balzelli che il governo non ha potuto e nemmeno voluto rinviare di un paio di mesi.
L’ “avvocato degli italiani” e i suoi ministri hanno mai sentito parlare delle difficoltà in cui versano miriadi di imprese e la caccia spietata a cui sono esposte nei confronti dell’usura e della malavita? Queste non sono mance come il reddito di cittadinanza che frutterà voti, ma porta l’Italia allo sfascio.
Il Sud merita altro di quello che avviene, non si può immaginare che esso viva e prosperi soltanto di mare di sole di sagre della pizzica e canzonette. Un governo che si rispetti avvierebbe un politica economica fondata su più fattori, cominciando da quello fiscale, che recuperi – proprio al Sud – il deficit esistente verso “paesi frugali”, favorendo il rimpatrio di gruppi che sono emigrati attratti dal richiamo dei dividendi poco tassati, e maggiormente aprire spazi a imprese italiane e internazionali che possano stabilirsi nel Mezzogiorno.
L’avvio di una nuova politica sindacale, anche questo può essere favorito dal governo attraverso il livello dei contributi sociali sui quali va posta, come necessario, una quota defalcandola dall’indiscriminata pioggia del reddito di cittadinanza. Quando si capirà sarà sempre tardi.
Inutile riprendere il ritornello delle strutture civili da realizzare o migliorare, come porti, aeroporti, autostrade, centri logistici ecc.
Resta da ultimo un richiamo alla pubblica amministrazione, ai suoi tempi e alle sue devianze. Che a Bruxelles qualcuno lo abbia sollevato con qualche ragione?
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