Alberto Giannoni, giornalista milanese che ha avuto formazione nel solco del socialismo riformista, scrive un post dal carattere ironico che più o meno dice: “Dichiarano di voler fare un partito socialista continuando ad alternare un segretario di formazione comunista e uno di formazione democristiana”.
Non bastano due righe in rete per sovvertire una procedura che dura da vent’anni. Prendo tuttavia lo spunto per ampliare l’argomento nel contesto in cui versa il Partito Democratico che ha richiesto – nell’interesse della credibilità della politica italiana nel suo complesso – una soluzione rapida e che, come nel caso Draghi per il governo, deve avere una certa autorevolezza nello scenario dei partiti italiani.
L’argomento è in stand by dal 1992, da quando cioè Bettino Craxi per conto del PSI e Antonio Cariglia per conto del PSDI accreditarono il PDS, di cui era segretario Achille Occhetto, presso l’Internazionale Socialista nell’anno in cui Willy Brandt portava a termine il suo mandato. Perché, ottenuto quell’accreditamento, che per gli ex-comunisti travolti dalla caduta del muro era un vero passaporto per il futuro, l’apprezzamento durò solo il tempo del viaggio di ritorno: dalle lacrime di Occhetto all’approvazione di quella proposta a Berlino alla ripresa di critiche e accuse a Craxi e al Psi da parte di Occhetto parlando con i giornalisti all’aeroporto di Ciampino al rientro.
Ci si può chiedere, ben inteso, se la dicitura socialista sia ancora parte importante nel definire la collocazione europea del PD pur essendo comunque rimasta marginale nella sua narrazione (Renzi la ritenne importante e al tempo stesso mantenne marginale la sua narrazione).
Ma ci si deve soprattutto chiedere se l’avere conservato la sostanziale diarchia tra ex-comunisti ed ex-democristiani alla guida del PD contenga ancora inevitabilmente la remora ad accogliere con pari diritti, rispetto ai nuclei post-comunisti e post-democristiani, la tradizione socialista, liberaldemocratica, post-azionista, radicale e altresì erede del civismo progressista nel quadro del riformismo che si ritiene di rappresentare. Con l’evidenza che si tratta di radici allusive, non più di apparati organizzati separati.
Il 1992 è anni dopo la drammatica morte di Aldo Moro e la fine dell’ipotesi politica del compromesso storico. Ma è anche tanti anni prima del teatro attuale in cui tutti (o quasi) i partiti della prima Repubblica hanno abbandonato nome e modelli organizzativi rimescolando anche gli elettorati. Con trasformazioni importanti circa il loro posizionamento e, per alcuni, anche circa il patrimonio ideale storicamente rappresentato.
Siamo tuttavia in un momento in cui non si può prendere il rosso della storia e invocarlo senza ragionare su alcuni punti neri del presente. Sarebbe necessario guardare quindi alla grave crisi di reputazione della politica; alla criticità di un quadro – pur salvifico – di governo ora costituito ma con i due maggiori partiti rappresentati in parlamento (PD e M5S) acefali; al tempo limitato che i partiti hanno per raddrizzare radicamenti e proposte. E ancora più limitato se si pensa all’imminente turno amministrativo che investe 1700 comuni e otto città capoluogo di grande rilievo.
Il PD si mantiene attorno a una rappresentanza di domanda e di consenso elettorale di un quinto del Paese. E’ un dato rilevante ma non sufficiente per contendere la forza dell’alleanza del centro destra.
Di conseguenza parrebbe necessariamente strategico rafforzare la percezione pubblica di una opposta complessa alleanza di centro-sinistra.
Con lo sguardo recente – era la proposta di Zingaretti – ciò avrebbe potuto avvenire tenendo in piedi una alleanza con i populisti, in maggioranza dichiaratisi disponibili all’etichetta di CS, ma rivelatasi paralizzante e comunque ora con la spina staccata, quindi appesa a conferme o a serie revisioni.
Oppure con lo sguardo ancor più al passato qualcuno potrebbe immaginare un PD inteso come era la DC con il centrismo: una forza egemone che consente a piccoli partiti di svolgere compiti di governo purché satelliti, cioè senza ruoli di regia. Una formula che già il centro-sinistra infatti mise in difficoltà sui contenuti. Ma che soprattutto il centrosinistra a guida socialista mise in discussione per sempre sul terreno di un vero e proprio sblocco della democrazia.
Quanto all’altra ditta, proprio come Bersani tuttora, scherzando un po’, chiama il gruppo dirigente ex-comunista, tanti furono gli appelli all’unità e alla mitologia della classe operaia. Ma l’unica vera alleanza riformatrice nel corso di una lunga storia in un contesto democratico fu per il PCI l’accordo – magari ruvido, me nella sostanza leale – nei territori, nella cooperazione, nel sindacato con i socialisti riformisti. Altro che gli “indipendenti di sinistra”, buoni solo per la vetrina! La scomparsa nei giorni scorsi di Carlo Tognoli, artefice di una di quelle giunte riformatrici più incisive, ha richiamato percorsi che hanno a che fare con le eredità vive e le eredità morte di cui stiamo parlando.
Per non ripetere le storie delle “due ditte”, insomma, la strada ora più praticabile sembrerebbe quella di un proposta di alleanza federata, con un modello fondato sui patti generazionali che oggi pare essere la via ibrida assunta dai Dem Usa. Da attuare con una carta di indirizzi che, nel quadro storico esistente, non può che riferirsi alla priorità dello schema europeista. Una carta tuttavia che richiede giocatori credibili, non inventati. E una forte discontinuità di governance e di indirizzo. E che, trovando magari i “giocatori credibili”, sia compresa e metabolizzata da quadri e elettori come la prospettiva più solida, più aperta, più post-ideologica. Certamente una strada che dimostrerebbe verità solo rimescolando profondamente e platealmente l’attuale gabbia correntizia.
Questa lunga premessa è scritta nel giorno in cui Enrico Letta – ex-democristiano, allievo di Beniamino Andreatta, accenti culturali cattolico-liberali e sicura vocazione europeista – assume la guida del PD dichiarandosi “interessato non all’unanimismo ma alla verità”. Diciamo pure uno che non viene da una passeggiata, se i titoli dei suoi ultimi due libri sono “Contro venti e maree” e “Ho imparato”.
Che ragione avrebbe uno così – che lanciò il tema dell’Italia che deve tornare a pensare in grande – a tornare in pista per dare un ennesimo effimero sbocco al vecchio schema con il piede sul freno di un ex-dc alternato ad un ex-pci alla guida di correnti che vengono chiamate “senza scrupoli e fratricide”?
Una figura temprata da successi e sconfitte, che dà segni di ragionare sui cambiamenti non per dare forma ai rancori ma per avere memoria degasperiana dell’umiltà della rappresentanza di un paese sconfitto che ha argomenti per riscattare tutti, forse potrebbe immaginare di chiudere la diarchia delle due ditte e tentare – contaminato dal contagio con i giovani e convinto che per far politica eticamente è meglio prima assicurarsi un mestiere per vivere con indipendenza – l’alleanza progressista del nostro tempo.
Che sia una via stretta pare presente allo stesso Letta nelle sue prime dichiarazioni, pur segnate da spirito di show-down.
Non a caso ciò avviene dopo il ridimensionamento del sovranismo nazionalista in Europa, ma finora senza la sicurezza che anche l’Italia metta da parte la retromarcia verso le culture produttrici di due guerre mondiali. Insomma, in attesa di una proposta per vaccinare le nuove generazioni contro il professionismo degli opportunisti.
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