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Una mossa del cavallo del pensiero e dell’azione

Nel mio personale percorso di vita mi sono trovato molte volte a sentire raccontare (o a farlo io stesso…) la metafora più nota sul concetto di complessità, quella del “battito delle ali di una farfalla…” espressa da Edward Lorenz. In realtà (e come potrebbe essere diversamente, direte voi), la storia di questa metafora è più… complessa. L’immagine della “farfalla che sbatte le ali in Brasile per provocare un tornado in Texas” emerse solo in un secondo momento, dopo che lo scienziato aveva messo a punto (e forse ispirato da ciò…) il grafico forse più importante delle scienze complesse e che porta il suo nome: l’Attrattore strano, appunto chiamato “di Lorenz”. Lorenz, infatti, già nel 1963 in un saggio scritto per l’Accademia delle Scienze di New York, citando un meteorologo rimasto sconosciuto, affermò che, se fosse stato giusto il paradigma della teoria del caos, “il battito delle ali di un gabbiano sarebbe stato sufficiente ad alterare il corso del clima per sempre”.

Un “attrattore” è un insieme, una logica, un modello, un punto di tensione, un luogo di natura frattale, verso il quale evolve un sistema dinamico dopo un tempo sufficientemente lungo. L’arrivo della complessità metteva fine alle dinamiche lineari, al concetto di “prevedibilità dei sistemi complessi”, quei sistemi caratterizzati dalla presenza di un sufficientemente elevato numero di fattori indipendenti che, posti in relazione, sviluppano un’autorganizzazione spontanea che non risponde, direttamente, alle regole di nessuno dei suoi componenti. La relazione – potremmo dire parafrasando un pensatore politico italiano, studiato più all’estero che nel nostro paese come Antonio Gramsci – si sviluppa in base alla “potenza egemonica” delle qualità presenti nei fattori che compongono il tutto e nelle concrete forme di relazione che se ne determinano. Appunto né dalla specifica forza di un elemento, né  dalla sua specifica quantità, ma dalla sua qualità e dal sistema delle sue relazioni con il resto del tutto.

L’idea di un fenomeno micro, apparentemente insignificante, che determina fenomeni macro, rappresenta, probabilmente, l’unico insegnamento socialmente disponibile del nuovo paradigma della conoscenza rappresentato dalla teoria della complessità. Un insegnamento si “disponibile” (tutti ne hanno sentito parlare almeno una volta), ma non realmente “digerito”, come ci ammoniva quel grande personaggio che fu Giorgio Gaber: “Un’idea, un concetto, un’idea, Finché resta un’idea è soltanto un’astrazione. Se potessi mangiare un’idea avrei fatto la mia rivoluzione”.

Il portato delle acquisizioni della scienza di questo ultimo secolo, Relatività generale, Meccanica Quantistica, Scienze della complessità, solo per citare le principali, sono così lontane, non solo dalla percezione e dalla cultura di massa (pensiamo ai programmi scolastici ancorati, sostanzialmente, ancora alle acquisizioni dell’Ottocento positivista), ma dalla cultura delle “classi dirigenti” (imprenditori, politici, sindacalisti…) e della stragrande maggioranza degli intellettuali, che basterebbe fare un test INVALSI, su questi temi e sulla loro portata nelle società contemporanee, al corpo docenti delle scuole e delle università per comprenderne l’arretratezza. Abbiamo vissuto una “scissione” tra il portato delle nuove strutture della conoscenza e le classi dirigenti che per comprendere l’impasse che stiamo vivendo basta vedere con attenzione un TG.

Un esempio è lampante e sotto gli occhi di tutti. Ormai diamo per scontato che il decisore politico scelto con le leggi della democrazia rappresentativa (quello che governa, almeno apparentemente e almeno nelle società occidentali, dovrebbe farlo) non abbia gli strumenti per prendere le decisioni necessarie. Quella che si ostinano a chiamare “politica” può gestire (e diciamo è anche legittimata) solo la “quotidianità amministrativa”. Di fronte ai problemi che emergono nelle società contemporanee (e il caso del COVID-19 ne è solo l’ultimo esempio) la politica, il “governo delle decisioni necessarie alla comunità” passa la mano ai “tecnici”, cioè a chi dovrebbe possedere una conoscenza “più alta” (anche se non legittimata da alcun soggetto o luogo “trasparente”). La società si “accontenta” di una etichetta (il Prof. “Tal dei Tali”, il direttore “Pippo Bianchi”, ecc… ) senza domandarsi come quella persona sia giunta a tale livello, cosa abbia fatto per giungere lì in quel luogo, quali siano i meccanismi di selezione del personale chiamato a ricoprire tali incarichi o su come funzioni il meccanismo del dibattito scientifico nel pianeta. Questo è un punto ormai dirimente della natura delle decisioni che hanno impatto non solo nell’immediata emergenza, ma anche per le conseguenze “strategiche” delle scelte effettuate.

Ad esempio, la nostra società umana ignora quali siano i meccanismi di intervento delle strutture scientifiche nel mondo. Qualcuno ha mai ricostruito la mappa dei centri di ricerca? Delle linee di finanziamento che ne consentono la loro sopravvivenza (e le carriere, aggiungo io)? Quali rapporti legano gli interessi delle grandi multinazionali dei grandi settori economici nel finanziare le ricerche, anche delle strutture pubbliche, nei loro ambiti di interesse? Qualcuno si è domandato a cosa porta il processo di selezione delle ricerche validate dalle riviste “accreditate”, il famoso meccanismo dell’Impact factor, sconosciuto al 98% della popolazione e che determina le carriere professionali degli esperti e che è un vero e proprio monopolio che produce un filtro selettivo che risponde a specifici interessi economici e geopolitici? E a cosa porti una omologazione delle logiche “scientifiche” tutte controllate da “un solo modello culturale e da alcune ispirazioni sulla natura della scienza” da mortificare tutte le voci che non siano “concordi” ad essa. Addirittura attraverso la tagliola dello stesso linguaggio che non riconosce la ricchezza della produzione scientifica se non è scritta nel linguaggio imperiale dell’inglese?

Eppure, anche questo stesso meccanismo cosi omologato, così deprivante di linguaggi di ricerca in grado di rappresentare la diversità esistente nell’ambito scientifico, di fronte alla crisi pandemica è esploso in una miriade di soluzioni contraddittorie, di trame da palazzo sulla circolazione dei dati, di indicazioni contrastanti sull’interpretazione della realtà, di ricette, di spiegazioni, di proposte per l’azione, da rendere l’intero sistema trasparente nella sua totale fragilità e inconsistenza.

Inutile fare nomi e cognomi. Basta fare l’elenco degli ospiti delle trasmissioni televisive di questo mese e non solo in Italia. Li abbiamo visti tutti, trincerati dietro i nomi altisonanti delle loro cariche, pubbliche o private che siano, azzannarsi per dare indicazioni e suggerire espedienti. Sempre in contrasto tra loro. Abbiamo visto personaggi fare previsioni “certe” smentite dopo pochi giorni, tornare a “pontificare” altre ipotesi, in contrasto con lo loro precedenti, con la stessa sicumera e spavalderia, come se lo loro parole non avessero alcuna conseguenza sulla vita (e purtroppo la morte) reale delle persone, il destino sociale ed economico del paese, ma solo i destini delle loro carriere e delle loro consulenze.

Mai, ad esempio e in particolare per le persone che sono stipendiate da strutture private o da centri studi apparentemente indipendenti, ma finanziati da interessi privati, imprese e soggetti portatori di interessi economico-politici, che un giornalista che esplicita, prima di dare la parola “a questo o quello” chi ci sia dietro quel centro studi, chi lo finanzi, quali ricadute ci sono dietro il loro lavoro, dove vadano a finire i frutti delle loro ricerche. Così, tanto per capire meglio perché una persona sostiene una tesi o l’altra, oltre le sue personali convinzioni.

Eppure la complessità ci aveva insegnato che i sistemi complessi hanno una caratteristica fondamentale: sono non predicibili. Occorre accompagnarli imparando dalle loro evoluzioni cosa ci riserva il loro divenire. Tanto più ora che la complessità di sistemica si è fatta “mondo” e avvolge l’intero pianeta.

Erano gli anni ’80 quando un nuovo paradigma scientifico riusciva a raggiungere una massa critica che gli consentiva di affacciarsi sulla scena degli strumenti di conoscenza che l’umano depositava nella sua faretra della comprensione del mondo. Quello strumento di conoscenza, la scienza o teoria dei sistemi complessi e che alla fine verrà sintetizzato in teoria della complessità o semplicemente la complessità, non fu il frutto di una mossa del cavallo del pensiero di un solo genio, come accadde per la Teoria della Relatività con Albert Einstein. Quel nuovo modo di interpretare il mondo, le cose, le relazioni che connettono il tutto, emerse facendosi strada in mezzo a mille modalità di interpretare il mondo che erano state prodotte nella storia umana con fatica. La forza dei schemi millenari, di schemi di conoscenza che poggiavano sul rapporto diretto con la limitatezza dei 5 sensi di cui siamo dotati, di tradizioni improntate a meccanicismi diretti, relegarono per lungo tempo la potenza di questa nuova modalità di indagine, di tentativo di rendere comprensibile i fenomeni, prima nell’ambito dei matematici, poi dei fisico-matematici, poi del mondo della biologia, per approdare ad una dimensione potremmo dire olistica, solo da pochi decenni. La potenza di calcolo messa a disposizione dal digitale produsse un impulso enorme. Eravamo all’inizio di una nuova stagione del “conoscere umano”, una stagione che molti, nel mondo ignorarono pensando che riguardasse solo “gli scienziati”. E spesso neanche tutti.

È il governo dei sistemi sociali complessi che sta producendo il collasso di credibilità di istituzioni, paradigmi, modelli, a cui assistiamo in questi giorni di prima pandemia nell’era della globalizzazione. Questo collasso non riguarda solo i modelli economici, le leadership politiche, le istituzioni locali, nazionali o sovranazionali. È una babele di analisi, ricette, prospettive che riguarda il mondo della politica, quello della rappresentanza sociale, quello della scienza. Mai come oggi, infatti, emergono le debolezze, le mancanze di certezze, l’incapacità di avere visioni da offrire, in tutti i vertici, in tutte le leadership, in tutti gli ambiti dell’agire umano.

La sinistra novecentesca respinse tale nuove acquisizioni perché, non comprendendo il salto, le parve un attacco al suo impianto, svelando, in tal modo, il suo arroccamento anche rispetto al criterio “scientifico” che il pensiero di Marx attribuiva a se stesso. Invece, di utilizzare il modello di conoscenza più avanzata disponibile, in modo da ravvivare e rafforzare non solo la comprensione del mondo ma anche gli interessi delle classi che si volevano rappresentare e difendere, rifiutarono di essere quello che avrebbero dovuto essere e, piano piano, si condannarono alla gestione dell’esistente e alla difesa degli interessi di altre classi sociali, senza neanche accorgersene. Sarebbe bastata la lungimiranza del Dalai Lama quando ammonì la sua comunità di fedeli che ogni cosa che del loro impianto spirituale fosse stata smentita da una nuova acquisizione della scienza andava superata, archiviata e quella conoscenza “sussunta” nello schema risultante.

Ora abbiamo bisogno di ripartire. La crisi non può essere affrontata con gli schemi precedenti e necessita un salto di qualità, una discontinuità. Non possiamo solo “dare risorse” ad un sistema collassato, ma ipotizzare un nuovo modo di organizzare il soddisfacimento dei bisogni umani. Occorre rendere tali bisogni compatibili con i cicli della vita sulla terra e più socialmente conciliabili. Occorre comprendere il perché si produce, il che cosa vogliamo produrre e come farlo. Non basta più “difendere” un lavoro solo perché esiste, perché quell’esistenza non corrisponde ad un interesse generale ma ad uno privatistico. Dobbiamo sfruttare questo passaggio per determinare un vero cambiamento. Non solo perché siamo dalla parte di chi soffre, ha sofferto e soffrirà di più per la crisi che è giunta, ma perché potremmo essere ancora i portatori di una “logica nuova” del fare umano.

L’intervento che ci viene chiesto è complesso: cambiare questa società con la stessa leva con la quale dobbiamo salvarla. Che, del resto, è l’unico modo per salvarla realmente e non spostare un po’ più avanti la crisi, mitigandone ora gli effetti e moltiplicandone l’impatto tra poco tempo. Esattamente quello che i governanti fecero nel 2008.

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Sergio Bellucci

Sergio Bellucci, giornalista e scrittore, dirigente politico e manager, ha scritto numerosi editoriali, articoli e saggi sui temi della comunicazione e della società dell'informazione. Membro del Comitato d'Onore dell'Osservatorio Internazionale sull'Audiovisivo e la Multimedialità (OIAM) della Fondazione Roberto Rossellini per l'Audiovisivo. È stato dipendente del gruppo Fininvest dal 1978 e fino al 1993, durante tale periodo ha svolto anche attività sindacale nella CGIL come membro della Segreteria Nazionale della FILIS. Dal 1995 al 2006 è stato responsabile nazionale della Comunicazione per il Partito della Rifondazione Comunista. Dal febbraio del 2013 è direttore del quotidiano Terra e nel 2014 è diventato Presidente della Free Hardware Foundation Nel libro E-work. Lavoro, rete e innovazione analizza l'impatto delle nuove tecnologie digitali sulla vita umana con una particolare attenzione al mondo del lavoro. Secondo le sue analisi, l'avvento del digitale comporterebbe una "nuova organizzazione scientifica del lavoro", definita "taylorismo digitale", attraverso un impiego distorto della rete. Nelle tesi di E-work si prospetta la nascita del "lavoro implicito", il lavoro effettuato obbligatoriamente, senza nessuna retribuzione e attraverso strumentazione a carico del lavoratore, che le piattaforme digitali stanno espandendo nel loro ciclo produttivo. Insieme a Marcello Cini ha scritto “Lo spettro del capitale. Per una critica dell'economia della conoscenza” analisi del cambiamento epocale del capitalismo avvenuto negli ultimi venti anni: il passaggio da un'economia materiale ad un'economia immateriale, che produce un bene intangibile e non mercificabile: la conoscenza.

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