I media italiani danno giustamente ampio risalto alla crisi di governo, tuttavia i loro commentatori e analisti sembrano poco interessati a indagarne la genesi. Nei più seguiti talk-show televisivi i volti più noti del dibattito politico accreditano la motivazione squisitamente personale dell’ex Presidente del Consiglio, caduto in disgrazia e bisognoso di visibilità per far crescere il suo nuovo partito. Oppure, peggio ancora, mosso da risentimenti personali e voglia di rivalsa. Ne vien fuori una narrazione, oramai largamente accettata dall’opinione pubblica – anche perché non contrastata dalle opposizioni – di un Paese sotto il ricatto di un politico, con scarso consenso, senza scrupoli, incurante della fase drammatica che viviamo, disposto a tutto, pur di vedere prevalere il proprio personale interesse.
Oltre l’improbabile semplificazione cui è ridotta la genesi di una crisi di governo in un contesto di emergenza sanitaria ed economica epocali, assordante appare, come sempre, il silenzio su eventuali e possibili origini esterne al nostro Paese. Una costante ormai consolidata da decenni nel dibattito politico mainstream nazionale, è la pochissima consapevolezza – apparente o reale – che gli italiani hanno della propria rilevanza geopolitica nel mondo. Anzi, a dirla tutta, è proprio il mondo che pare non esistere. Dalle stragi senza colpevoli (i “misteri d’Italia”) agli omicidi eccellenti “di mafia”, dal caso Moro a Mani Pulite, tutti i grandi eventi, che hanno modificato il corso della storia nel nostro Paese, sono sempre stati analizzati come se vivessimo in una sperduta isoletta dell’oceano Pacifico, invisibili ai radar delle maggiori potenze del globo, totalmente esclusi dai loro movimenti e dalle loro azioni nell’infinito gioco competitivo e conflittuale, che da sempre contraddistingue gli aggregati umani.
Al contrario, l’Italia occupa geograficamente il centro di una delle zone del globo di maggior rilevanza strategica – il Mediterraneo – vanta una storia e quindi un patrimonio culturale, in senso allargato, con pochi eguali al mondo e una delle maggiori economie del pianeta; last but not least, al suo interno risiede il Vaticano.
“Un tempo era così, ma ormai non contiamo più nulla! Biden ha chiamato tutti in Europa, ma si è dimenticato dell’Italia!”, l’obiezione più comune all’ipotesi di una genesi estera dei maggiori avvenimenti italiani. Appunto! E’ proprio con la perdita di rilevanza come soggetto geopolitico, che l’Italia rischia di essere sempre più un oggetto geopolitico. Se il nostro peso di player strategico si è drammaticamente ridotto negli ultimi decenni, la nostra penisola è stata spostata in un angolo remoto dell’oceano Pacifico oppure la sua posizione geografica cruciale nel cuore del Mediterraneo è rimasta immutata? E la nostra economia non è ancora tra le maggiori del mondo nei flussi di reddito (PIL) e, soprattutto, negli stock di ricchezza accumulata? Il Vaticano per caso si è trasferito da qualche altra parte o è ancora nel cuore – geografico, culturale, sociale, economico, politico – del nostro Paese? Il declino della soggettività geopolitica significa quindi perdita di autonomia, di autodeterminazione, di sovranità nelle decisioni interne – oltre che esterne – a tutto vantaggio di altri attori, che invece hanno conservato o conquistato un ruolo da protagonista nella contesa strategica.
In geopolitica, più che in qualsiasi altro terreno di competizione umana, la teoria aristotelica dell’horror vacui è pienamente verificata: ogniqualvolta viene a crearsi un vuoto, la natura lo rifugge e quindi tende costantemente a riempirlo. E la storia c’insegna che nella penisola italica un vuoto di potere, almeno dai tempi delle Guerre Puniche, è riempito con una velocità altamente rivelatrice dell’importanza della posta in gioco. Così oggi la progressiva perdita di capacità degli italiani di beneficiare della grande rilevanza strategica del proprio Paese, genera, per osmosi, la progressiva ingerenza di soggetti esterni attratti da quei benefici. È verosimile credere che, in un ambito di oggettività geopolitica nella quale vive da qualche decennio, l’Italia possa autonomamente entrare in una crisi di governo, per giunta generata da un leader politico con scarso seguito e una grande avversione nell’opinione pubblica? Ipotesi alquanto improbabile.
Ciò non significa avere la soluzione pronta del dilemma – nel caso specifico, sui reali “mandanti” dell’attuale crisi di governo – per rispondere a un’altra obiezione automaticamente mossa a chi ritiene poco verosimile la narrazione ufficiale di un evento. Tuttavia si può ragionare partendo da determinati contesti, costatando curiose coincidenze temporali, interpretando dei segnali, verificando l’attendibilità di alcuni rumors, scoprendo delle similitudini con il passato. “Si può” o piuttosto “si deve”, se si tratta di analisti, commentatori, editorialisti, intellettuali, direttori di giornali.
Il contesto da cui partiamo è ovviamente quello internazionale.
Innanzi tutto ci troviamo nel bel mezzo di un avvicendamento alla presidenza degli Stati Uniti, con un rilevante cambiamento di tattica geopolitica, già ampiamente annunciato in campagna elettorale. Il Mediterraneo vive una fase di grande instabilità, come non si vedeva almeno dai tempi della nazionalizzazione del canale di Suez – ma sarebbe più appropriato dire, dai tempi della Seconda Guerra Mondiale. In Europa, la Germania ha chiaramente annunciato, nei fatti, all’inizio della pandemia, il ruolo cruciale e assolutamente imprescindibile dell’Italia per il suo potente motore manifatturiero e quindi di essere disposta a sacrifici fino a pochi mesi prima inimmaginabili, per venire in suo soccorso. Non da ultimo, il Vaticano continua a perseguire il suo percorso di convergenza geopolitica con la Cina.
Elenchiamo alcuni elementi, che possono aiutare nell’analisi.
Quando arrivò a Palazzo Chigi nel giugno del 2018, fu presentato dal mainstream italiano come il “signor nessuno”, arrivato lì quasi “per caso”, utile a fare il “maggiordomo” dei due padroni del governo giallo-verde, Di Maio e Salvini. Tuttavia è quantomeno ingenuo credere che in un Paese come l’Italia, un “emerito sconosciuto” possa arrivare alla Presidenza del Consiglio senza essere espressione di qualche potere, organico a un qualche apparato. Infatti, basta scavare un po’ nella biografia e si scopre che l’avvocato Giuseppe Conte, proveniente da una famiglia modesta del Foggiano, devotissimo di Padre Pio, ha studiato a Roma presso l’istituto religioso di Villa Nazareth. Collegio universitario cattolico fondato nel dopoguerra, per formare giovani, provenienti da famiglie bisognose, rigidamente selezionati per intelligenza e capacità, a carriere di vertice. Il cardinale Achille Silvestrini ha diretto il collegio per tanti anni, vi è rimasto legato per tutta la vita ed è stato il mentore, durante gli studi, e un prezioso “consigliere” in seguito, del dimissionario capo di governo. Decano della diplomazia vaticana, tessitore di grandi reti internazionali, mediatore di conflitti per la Santa Sede, il “Kissinger vaticano”, è stato cardinale di fama, caratura e carisma, equivalenti a quelli di un Papa. In Italia è stato amico e “consigliere” di grandi figure della politica italiana, quali Andreotti, Scalfaro, Prodi e l’attuale presidente della Repubblica. Nel pieno di una serrata e decisiva riunione tra le delegazioni di PD e M5S nell’ambito delle trattative che portarono alla formazione del Conte II, l’ex-studente del collegio di Villa Nazareth, si assentò per partecipare al funerale del cardinale Silvestrini, in occasione del quale poi si appartò con Papa Francesco. Bergoglio gli parlò del Nuovo Umanesimo – concetto ben illustrato successivamente nell’enciclica Fratelli tutti, vedi La Nuova Società Etica – e della necessità di un cambio radicale della politica sull’immigrazione del nuovo governo che si accingeva a formare. Non è dato sapere se in quell’occasione o in altre successive il capo del Vaticano e il capo del governo italiano parlarono anche di Cina, ma è un dato che entrambi gli esecutivi di Conte sono stati i più filocinesi degli ultimi due decenni (vedi accordi su “Via della seta” e su 5G, tra gli altri).
Da buon neo-democristiano, tradizionalmente con una gamba ben salda nel patto atlantico e con l’altra altrettanto salda nell’Oltretevere e orientata nella direzione opposta, Conte ha usato i servizi segreti, in modo a dir poco disinvolto, per aiutare una fazione politica statunitense, quella trumpiana, a danno dell’altra, i Dem, e di uno dei più potenti apparati dello Stato americano, l’FBI, entrando – come un elefante nella stanza dei cristalli – nella delicata vicenda interna del Russiagate. L’ormai celebre “Giuseppi”, partì con l’affettuoso appellativo utilizzato da Trump per l’endorsement al suo secondo governo, atto dovuto per i servizi resi (in entrambi i sensi). È forse questo il principale motivo per il quale in seguito non ha voluto cedere la delega sugli apparati di sicurezza – anomalia nella storia della Repubblica – dando buon gioco a Renzi, nell’ergersi a paladino del buon funzionamento delle istituzioni (“Conte vulnus per le regole democratiche”), incalzandolo sulla sua cessione? Non dimentichiamo, poi, che il “Rottamatore” l’ha direttamente accusato di compromissione con l’amministrazione Trump, denunciando una fredda e generica condanna del nostro governo degli incresciosi fatti di Capitol Hill. Non stupirebbe, quindi, se in America, con il profilarsi del cambio di guardia alla Casa Bianca, il nuovo inquilino – e/o qualche potente apparato – avesse chiesto la testa di chi aveva usato così maldestramente i servizi di un Paese “alleato”, intromettendosi in delicate questioni interne. A corroborare la tesi, l’incredibile coincidenza nei tempi, poiché Renzi ha iniziato la sua opera di affondamento del governo proprio il giorno in cui l’affermazione del democratico è apparsa chiara e irreversibile.
Allarghiamo ora il campo a una visione più ampia della situazione geopolitica.
Biden aveva già anticipato in campagna elettorale il cambio della tattica geopolitica statunitense nel Mediterraneo e in Europa, rispetto a quella inaugurata da Obama e consolidata dagli illusori propositi di Trump su un utopistico “ritiro” dall’Impero. La nuova amministrazione non tollererà oltre mire egemoniche regionali più o meno velleitarie (vedi Germania e Turchia), conflitti tra membri della NATO (vedi Turchia), eccessive “effusioni” con la Cina (vedi Germania, Italia e Turchia) e con la Russia (vedi Germania e Turchia). Insomma una sorta di “fine della ricreazione nel Mediterraneo e in Europa!”, l’America ha bisogno di serrare i ranghi per riprendere la morsa soffocante sulla Cina e non può permettersi instabilità e “falle” nelle retrovie.
In Medio Oriente il tradizionale duello tra l’Iran sciita e l’Arabia Saudita sunnita è diventato un triello da quando la Turchia, approfittando del momentaneo disimpegno tattico americano, ha costituito un asse con il Qatar e mosso guerra non solo all’egemonia dei sauditi nel mondo sunnita, ma anche ai loro interessi nel Mediterraneo. Un anacronistico tentativo di ricostituzione della vecchia supremazia ottomana, che va in rotta di collisione, sia con i vitali interessi italiani in Libia, sia con il più importante alleato americano nel mondo sunnita – i sauditi – oltre che dar luogo ad ammiccamenti con l’Iran, perno dell’Asse del Male, secondo la storica definizione di Bush figlio.
Qual è stato l’atteggiamento del governo Conte con i turchi nel Mediterraneo? Ha eseguito una manovra di convergenza verso i sauditi, loro nemici? Nient’affatto. Sulla carta, al contrario, l’Italia è alleata di Erdogan, anche se nella pratica si è mossa su un’ambigua traiettoria di “amicizia con tutti”.
Gli amorevoli intenti di Renzi con la dinastia saudita, pubblicizzati fino al ridicolo proprio nei giorni cruciali della crisi e delle negoziazioni per la formazione di un nuovo governo, cosa vogliono comunicare a chi deve capire? Pare una questione cruciale. Curiosa la risposta di autorevoli analisti di casa nostra. La trasferta saudita è citata non per cercare di dipanare il bandolo della matassa di una crisi in apparenza incomprensibile, ma per biasimare l’”unico responsabile”: “Mentre tiene un Paese intero sotto ricatto dall’alto del suo 2,5% di consenso, se la fa pure con una feroce dittatura teocratica e sanguinaria, finanziatrice delle madrasse islamiche che sfornano integralisti e terroristi, assassina di giornalisti non allineati” (vedi omicidio Kashoggi).
Da un giorno all’altro la nostra intellighenzia veste improvvisamente i panni dei “complottisti”, smascherando la regìa dei “Paesi arabi moderati” – gli emirati del Golfo, guidati dall’Arabia Saudita, così chiamati perché i più fedeli alleati degli Stati Uniti e dell’Occidente – dietro il terrorismo islamico, che funesta le nostre vite e le nostre libertà di cittadini occidentali da almeno un ventennio. Allo stesso tempo sembrano dimenticare che dall’altra parte della barricata c’è l’Iran, nemico giurato degli Stati Uniti da quarant’anni e la Turchia, pericolo primario per i nostri interessi vitali nel Mediterraneo. E se il primo è un nemico della NATO, il secondo è uno dei suoi membri militarmente e strategicamente più importanti. La domanda sorge spontanea? Chi sarà il prossimo Segretario Generale della NATO, che dovrà districarsi da una tale situazione?
Sette anni fa la candidatura italiana di Frattini avanzata dal governo Letta e dal presidente Napolitano sembrava la più accreditata, fin quando però nel rush finale la Merkel propose il norvegese Stoltenberg, che accolse i favori di Obama. Nel frattempo Renzi, avvicendato Letta alla Presidenza del Consiglio nel modo che tutti ricorderanno, con uno dei suoi tradizionali coup de théâtre, propose proprio la candidatura di Letta. Ufficialmente per ricompensarlo dello “scippo” di Palazzo Chigi, in realtà per venire incontro ai desiderata di Obama, bruciare la candidatura di Frattini e lasciare via libera al norvegese.
Sembrerebbe però che allo stesso tempo abbia strappato all’ex presidente americano la promessa di sostenerlo vittoriosamente alla successiva tornata. Eventualità che pare molto probabile alla luce dell’elezione di Biden, in virtù degli ottimi rapporti intrattenuti con Obama anche in seguito e poiché la poltrona manca all’Italia da esattamente cinquant’anni. Ciò spiegherebbe anche in questi giorni la richiesta da parte di Renzi di ministeri chiave, come Difesa ed Esteri, per agevolare l’elezione.
Nel frattempo l’8 gennaio il ministro degli esteri turco, Cavusoglu, in un incontro con l’omologo francese, Le Drian, dichiara: “La Turchia non vuole mai avere delle cattive relazioni con nessun Paese e, se la Francia è sincera, la Turchia è pronta a normalizzare i suoi rapporti con lei”. Il giorno seguente, Erdogan, in occasione dell’incontro con la presidente dell’UE, Ursula Von Der Leyen, dichiara che “il futuro della Turchia è in Europa”. Il 12 gennaio, otto giorni prima dell’insediamento del nuovo presidente alla Casa Bianca, convoca tutti gli ambasciatori europei ad Ankara e manifesta la volontà di “rimettere in sesto” i rapporti tra Turchia e Europa. “Speriamo che i nostri amici europei abbiano la stessa intenzione”, aggiunge. Anche in questo caso la coincidenza dei tempi induce a pensare a un preventivo rientro nei ranghi del Sultano, con la speranza di non ricevere il prevedibile “scappellotto” dalla nuova amministrazione americana, per aver approfittato un po’ troppo della ricreazione.
Tornando alla situazione specifica del nostro Paese, riusciamo a trovare qualche somiglianza tra la crisi attuale e una del passato con genesi Oltreoceano? Qui ci viene in aiuto Prodi, che evoca la similitudine con quella del suo primo governo. Era da poco passata l’estate del ’98, la NATO aveva già deciso il bombardamento di Belgrado per risolvere ai danni della Serbia la contesa per la sua regione del Kosovo. L’Italia, data la vicinanza al teatro di guerra, era ovviamente fondamentale per la logistica delle operazioni belliche. L’esecutivo Prodi-Bertinotti non era certamente il più indicato per fornire le basi da cui sarebbero partiti i raid, né tantomeno per contribuire al bombardamento con i propri caccia. Il leader di Rifondazione Comunista, pur avendo strappato a Prodi la storica riforma delle 35 ore, con motivazioni pretestuose, tolse la fiducia al governo. La regìa italiana dell’operazione fu affidata a D’Alema, che formò velocemente un esecutivo di guerra con l’appoggio decisivo dell’ex-presidente della Repubblica, Cossiga. Nel marzo seguente partirono i bombardamenti della Serbia, l’Italia fornì le basi militari e bombardò attivamente con i propri caccia – quindi entrò tecnicamente in guerra – senza la preventiva autorizzazione del Parlamento, come prevede la nostra Costituzione. A giugno la Serbia capitolò e i bombardamenti cessarono. A dicembre D’Alema rassegnò le dimissioni con ragioni altrettanto pretestuose (la perdita del suo partito alle elezioni amministrative), nella successiva legislatura vinta dal centro-sinistra, nel 2006, Bertinotti fu ben ricompensato con la Presidenza della Camera, apice della sua carriera politica.
Gli eventi si succedono con febbrile velocità: mentre scriviamo questo contributo, l’improbabile ipotesi del Conte III naufraga definitivamente, soprattutto per le condizioni sempre più irragionevoli poste pretestuosamente da Renzi, e Mattarella convoca Draghi al Quirinale. Il reale obiettivo della manovra renziana su input di Washington si è infine esplicitato? Vedremo. A inizio pandemia, in tempi non sospetti, nel Draghi e il bazooka americano per riprendersi l’Europa avevamo esposto la nostra visione sul ruolo fondamentale dell’ex governatore della BCE nella strategia americana di contrasto ai propositi egemonici tedeschi sul continente europeo. Anche in questo frangente il mainstream italiano sembra non cogliere il nocciolo della questione. Dopo aver martellato per giorni sull’improbabile ipotesi di una crisi generata dai capricci di un nano politico dall’ego ipertrofico, ora che si manifestano i reali e ben più seri motivi della caduta del governo, parte la sempreverde vulgata del “ce lo chiede l’Europa”. Come se Draghi fosse il commissario che ci manda l’UE per capitalizzare al meglio gli aiuti del Recovery Plan. Una nuova narrazione, che peraltro, con grande disinvoltura, riabilita implicitamente il reietto del giorno prima, poiché la presunta manina benevola europea non sarebbe arrivata senza i suoi biasimati “personalismi”.
In realtà, Draghi è da sempre uomo legato agli anglo-americani. Di formazione gesuita, laureato a Roma con Federico Caffè, ha conseguito il dottorato al MIT con Modigliani e Solow: tre campioni della dottrina neo-keynesiana. È stato fortemente “sponsorizzato” Oltreoceano alla guida della BCE, per minare le fondamenta monetariste dell’Europa germano-centrica, conseguendo eccellenti risultati. Dalle pagine del Financial Times, a inizio pandemia (Draghi e il bazooka americano per riprendersi l’Europa) presentava il suo piano per uscirne a livello economico: un whatever it takes sull’espansione della politica fiscale e sul debito pubblico, culturalmente e antropologicamente avverso alla concezione teutonica dell’economia, dove la parola debito – Schuld – è sinonimo di colpa. Alla guida dell’Italia sarebbe di nuovo il “cavallo di Troia” americano, per disarticolare la costruzione europea a trazione tedesca dall’interno, uscito il Regno Unito, oltre che per allontanare ovviamente il Belpaese dalle “sirene” cinesi. Ciò soprattutto dopo che la pandemia ha rivelato – contrariamente a un’altra vulgata molto comune – la vulnerabilità della Germania proprio nei confronti dell’Italia, la cui manifattura del settentrione è elemento fondamentale e imprescindibile del suo potente motore industriale, unica vera arma a sua disposizione per l’acquisizione e il mantenimento della supremazia sul continente. Impedirla è da sempre obiettivo strategico di primaria importanza dell’impero americano, tanto che gli Stati Uniti hanno combattuto due guerre mondiali per perseguirlo.
In ogni caso il vero posto di comando da dove Draghi dovrebbe guidare l’Italia nel lungo termine è il Quirinale, giacché, con il passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica, il nostro Paese è diventato, de facto, una democrazia presidenziale. Vedremo se e come Draghi ci arriverà. Per il momento attendiamo l’esito delle consultazioni e le eventuali contromosse del Vaticano.
Un’ipotesi molto fantasiosa quella di un Renzi grimaldello di Biden per disarticolare quell’asse Vaticano-Germania-Cina (e Turchia), che in Italia esprimeva il governo Conte? Può darsi. Tuttavia appare ben più irrealistica quella di un politico scaltro come Renzi, che crea un simile cataclisma, in una fase tra le più delicate della storia italiana, inimicandosi mainstream e opinione pubblica, in solitudine e senza avere le spalle coperte. Come se in una fase che vede proprio l’Italia al centro di una contesa strategica nella quale si confrontano le maggiori potenze mondiali (USA, Vaticano, Germania e Cina), il nostro Paese avesse improvvisamente acquisito quella soggettività geopolitica tale, da autodeterminare internamente i suoi destini senza alcuna ingerenza esterna.
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