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Verità per Giulio Regeni

“Verità per Giulio Regeni”. E’ la scritta che compare sul braccialetto di gomma che, assieme spero ad ancora molti altri, porto al polso.

Ma è anche l’impegno ufficiale e solenne del nostro governo, anzi di tutti i governi italiani da più di quattro anni a questa parte.

II sottoscritto, assieme spero a molti altri, lo terrà al polso finché camperà, come piccolissima testimonianza di dignità personale.

I nostri governi, i nostri parlamenti, le nostre istituzioni giudiziarie dovrebbero, invece, da ora in poi, lasciar perdere, confessando la loro impotenza. E la loro ignavia. Meglio un bello sputo in faccia, una volta per tutte, che essere spupazzati di continuo, fingendo di voler raggiungere un obbiettivo che tutti riconoscono irrealizzabile; ma senza avere il coraggio di dirlo.

Sentiamo tutti in giro l’invito pressante, ancorché pronunciato sottovoce, a essere realisti. Uomini di mondo, insomma.

Ci si ricorda, se non lo ricordassimo da soli, che l’Italia – da Ustica al Cermis, dal caso Calipari, a quello di Ilaria Alpi – ha subito offese sanguinose e riconosciute come tali, senza mai ottenere riparazione (magari perché non era possibile chiederla…). In omaggio a questa o quella ragion di stato.

Ci si fa capire, ma lo capiamo da soli, l’importanza per la nostra economia, soprattutto nell’attuale crisi, del mercato egiziano. Aggiungendo, se non l’avessimo ancora afferrato (ma l’avevamo già intuito), che a vendere armi a paesi canaglia sono anche paesi predicatori di internazionalismo virtuoso, come la Svezia; e che la Norvegia è superambientalista in virtù del fatto che campa sulle vendite di petrolio.

E poi, suvvia, vale la pena (ce lo ha detto, anzi ce lo hanno fatto capire in tanti, riservatamente ma anche pubblicamente) di compromettere i nostri rapporti con l’Egitto per ottenere una comunque impossibile verità sulla sorte di un ragazzo un po’ ingenuo e perciò naturale vittima di complotti internazionali volti a turbare i nostri rapporti con questo nobile paese?

E però, da uomini di mondo e osservatori delle sue poco edificanti vicende, abbiamo come l’impressione che le regole che vigono tra “paesi amici” nel caso che uno di questi rechi offesa all’altro, non siano state, nel caso nostro, minimamente rispettate.

Se l’Egitto avesse ritenuto, come ha ritenuto, Regeni una “pericolosa spia”, allora avrebbe dovuto sottoporlo a processo; oppure farne opportunamente sparire il cadavere. Lontano dagli occhi, lontano dal cuore. E la cosa avrebbe funzionato.

E invece ce l’ha sbattuto in faccia. E nel modo più insultante e vergognoso. Un animale, una carogna buttata sotto un’autostrada intensamente trafficata.

A questo punto gli si aprivano due strade. La prima era quella di offrire una spiegazione credibile dell’accaduto, tale da non implicare il governo. Ma è stata, ancora, percorsa con una volgarità e con una stupidità tali da renderla, insieme, offensiva per la memoria di Regeni e provocatoria nei confronti del governo e del popolo italiano: pervertito, coinvolto in oscuri traffici, vittima di ladri tanto ma tanto stupidi da farsi uccidere con indosso i suoi documenti: caso di feticismo unico nella storia.

La seconda, che però è stata scartata fin dal principio (e non poteva essere proposta a babbo morto) era quella delle scuse: un errore, dovuto ai servizi deviati con nome, cognome e indirizzo. Modello Kashoggi, insomma. L’ha bevuta chi aveva interesse a berla. L’avremmo bevuta anche noi; e per lo stesso motivo.

E invece niente. Niente. Niente. Solo sputi in faccia. A Regeni. All’Italia. E anche a noi. Nella convinzione, fondata, che li avremmo subiti senza reagire. Come stiamo subendo senza reagire il “remake”, per fortuna non ancora ferale, della sua vicenda: l’arresto e la detenzione senza accusa e senza processo, ma presumiamo con torture, del giovane egiziano Zaky, studente in Italia e tornato in Egitto per passare le vacanze con i suoi.

E, allora, per favore, piantatela lì. Basta con le iniziative estemporanee, i rogiti, le telefonate al megapresidente, cominciando a parlare di Regeni per poi venire subito agli affari, le visite alla famiglia, le manifestazioni periodiche di indignazione, le “prese di posizione”. Basta.

Smettetela con questa commedia degli inganni; in cui, ingannando noi, non avete fatto altro che ingannare voi stessi.

Una sola cosa, però, vi chiediamo. Evitate, almeno, che la storia si ripeta. Riportate almeno a casa, prima di chiudere la partita, il nostro Zaky. Per elementari ragioni di umanità. E perché il nostro paese non merita il ruolo di zimbello del mondo intero.

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Alberto Benzoni

Ha lavorato all’Iri dal 1958 al 1996, per oltre trent’anni all’Ufficio studi e poi a quello Internazionale. Iscritto al Psi dal 1957 al 2013. Viceresponsabile del settore esteri dal 1987 al 1992. Consigliere comunale di Roma dal 1971 al 1985, vicesindaco dal 1976 al 1981 nella giunta di sinistra di Argan e poi di Petroselli. Collaboratore di «Avanti!» e di «Mondo Operaio», di «Ragioni del Socialismo» e di numerosi altri periodici di area. Autore di una storia del Partito socialista e, assieme ad altri, di La dimensione internazionale del socialismo italiano (Roma 1993). Ha scritto anche Il craxismo (Roma 1991) e, assieme a Luca Cefisi, Il pacifismo (Roma 1995). Autore infine, assieme alla figlia Elisa, di Attentato e rappresaglia. Il Pci e via Rasella (Venezia 1999), di Le vie dell’Italia (Milano 2009) e, infine, di La storia con i se (Venezia 2013).

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