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Vita e morte dell’IRI

Dedicato ai millennials che non sanno.

Forse l’Iri meritava di morire. O forse no. O forse, più probabilmente, poteva riprendere a vivere, riscoprendo, in un universo politico-economico molto diverso, il ruolo che aveva svolto a meraviglia nell’arco di decenni: “fare le cose che i privati non possono o non vogliono fare”, per dirla come Keynes.

Fu invece liquidato alla chetichella, senza processo e senza dibattito. Condannato a morte non per questioni di merito ma in base a pregiudiziali ideologiche. Sull’onda della “rivoluzione di mani pulite”. Ad opera delle forze che ne erano state le immediate beneficiarie: il PCI/PDS e i “tecnici” al governo del paese all’indomani della caduta della prima repubblica. Forze che, in linea generale, avrebbero, nell’ultimo decennio del secolo, presieduto alla distruzione di tutti i pilastri fondamentali del vecchio ordine (sostituiti, successivamente, da un nuovo disordine; ma questo è un altro discorso).

Nei decenni successivi è ricomparso fugacemente all’orizzonte. Quasi sempre in relazione a problemi specifici che né lo stato (leggi, uso della spesa pubblica) né i privati erano in condizione non dico di risolvere ma nemmeno di affrontare. “Qui ci vorrebbe l’Iri”, avrebbe detto qualcuno; ma per essere subito zittito sotto il segno del “non si può”; che è poi il segno di quel disfattismo intellettuale che caratterizza la sinistra italiana e che segnerà, temo, la sua definitiva sconfitta.

E, allora, questa nota non intende parlare dei morti. Ma dei vivi. Del perché il maggiore anzi l’unico partito della sinistra uscito indenne, anzi, in apparenza, più potente che mai dalle macerie della prima repubblica abbia sentito il dovere di liquidare una struttura pubblica che ne era stato l’asse portante ed, in un certo senso, il simbolo.

A mio modesto parere, lo ha fatto perché “era nelle sue corde”. In linea generale perché era un partito ideologico. Nello specifico perché non aveva mai amato l’Iri; e, diventato negli anni ottanta braccio armato di Scalfari e c., aveva imparato da loro a odiarlo. L’essere un partito ideologico non ha giovato al PCI. Gli ha certo garantito un ruolo assolutamente egemonico nella cultura politica della prima repubblica (mentre il consenso era assicurato dalla sua funzione tribunizia e dalla lezione togliattiana). Ha affinato anche la sua capacità di interpretare le cose che erano successe; ma al prezzo di essere del tutto incapaci di prevedere quello che stava per succedere.

In questa seconda veste, il PCI viene colto completamente di sorpresa dal crollo dell’Urss, del campo socialista e dalla scomparsa del sole dell’avvenire. Ma non ha problemi né soffre traumi nell’interpretarli; e nella tranquilla consapevolezza di continuare a marciare nel senso della storia. Come stelle polari: al posto dell’Urss, gli Stati Uniti; al posto dell’Onu, l’Europa; al posto del pacifismo, l’interventismo democratico; al posto dello stato e dei partiti, la società civile; al posto della questione meridionale, quella settentrionale; al posto dell’onnipotenza della politica, il “non si può”; e, infine, al posto dello stato imprenditore, i “capitani coraggiosi”. Un modo semplice e insieme meraviglioso per continuare a sentirsi superiori agli altri; pur avendo venduto l’anima al diavolo e senza neanche accorgersene.

Nel caso specifico dell’Iri, il cambiamento di casacca veniva però da lontano. Perché, agli occhi del PCI di allora, aveva il difetto ineliminabile di essere stato concepito dal fascismo e portato ai suoi massimi fasti dalla convergenza sinergica della grande generazione di servitori dello stato, nata prima del fascismo e sopravvissuta al medesimo, della Dc fanfaniana, dei grandi fautori della programmazione e dell’economia mista (Saraceno, Vanoni, Glisenti) e, infine, della sinistra sociale democristiana. Tutta gente che aveva l’imperdonabile difetto di voler cambiare il nostro paese, senza chiedere il concorso del PCI.

A partire dagli anni settanta tutto questo finì. Perché era esaurita la sua spinta propulsiva: finita la generazione di servitori dello stato, esaurito il ciclo dei grandi investimenti infrastrutturali, persa la capacità di progettare il futuro. Fu allora che l’Iri diventò da collaboratore autonomo della politica nazionale, servo passivo dei politici e degli interessi locali; in un processo di degrado di cui il PCI fu non solo partecipe ma anche ispiratore. Al punto di dire, nel corso di quello che fu forse l’ultimo dei grandi dibattiti parlamentari dedicati alle partecipazioni statali, che la risposta alla crisi del sistema era l’introduzione di maggiori controlli e di maggiori meccanismi di partecipazione: leggi sindacati, leggi enti locali, leggi PCI. L’esatto opposto di quanto proposto – nel senso del recupero dell’autonomia progettuale – dal documento dei funzionari dell’Istituto, la cui divulgazione aveva portato al dibattito.

L’IRI – acronimo di Istituto per la Ricostruzione Industriale – è stato un ente pubblico italiano con funzioni di politica industriale. 

Gira e rigira il peccato originale e quindi inespiabile del sistema rimaneva quello di essere una creatura nata sotto il fascismo e cresciuta sotto la Dc. Messo così l’argomento non era vendibile all’esterno. Ma, ricucinato in salsa moralistica lungo tutto il corso degli anni ottanta (Iri, uguale Caf, boiardi di stato, casta, inefficienze, spreco di danaro pubblico, cattedrali nel deserto, oscuri traffici, sfida alle direttive europee e così via), avrebbe avuto il pregio di individuare i nemici da colpire e, al tempo stesso, di moltiplicare le forze desiderose di colpirli.

Il resto è noto. Ed era scontato. Per la cronaca a scrivere la condanna furono anche due vincitori del 1993: un cattolico democratico, Andreatta e l’immancabile commissario socialista, Van Miert. Ad assistere al tutto, Prodi, allora presidente dell’Iri. Poi presidente del Consiglio. Poi Presidente della Commissione europea. Poi, di nuovo presidente del Consiglio. Poi, Nume tutelare, a disposizione.

Allora non reagì. Poi, con l’andare del tempo, deplorò, sempre sommessamente, l’accaduto. Tutto secondo copione. E non c’è altro da aggiungere.

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Alberto Benzoni

Ha lavorato all’Iri dal 1958 al 1996, per oltre trent’anni all’Ufficio studi e poi a quello Internazionale. Iscritto al Psi dal 1957 al 2013. Viceresponsabile del settore esteri dal 1987 al 1992. Consigliere comunale di Roma dal 1971 al 1985, vicesindaco dal 1976 al 1981 nella giunta di sinistra di Argan e poi di Petroselli. Collaboratore di «Avanti!» e di «Mondo Operaio», di «Ragioni del Socialismo» e di numerosi altri periodici di area. Autore di una storia del Partito socialista e, assieme ad altri, di La dimensione internazionale del socialismo italiano (Roma 1993). Ha scritto anche Il craxismo (Roma 1991) e, assieme a Luca Cefisi, Il pacifismo (Roma 1995). Autore infine, assieme alla figlia Elisa, di Attentato e rappresaglia. Il Pci e via Rasella (Venezia 1999), di Le vie dell’Italia (Milano 2009) e, infine, di La storia con i se (Venezia 2013).

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