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Chi ha paura dell’uovo bollito? La scuola dei duri è a costante rischio bocciatura di regime

Nel 1920 i giornalisti Henry Louis Mencken e George Jean Nathan fondarono a New York la rivista Black Mask dedicata principalmente ai racconti polizieschi, gettando così le basi della scuola americana del thriller, cioè la hard-boiled novel – letteralmente “racconto bollito duro” (come l’uovo sodo: hard-boiled egg) – nella quale, a differenza del romanzo di investigazione inglese, il detective arrivava alla soluzione del caso non tanto attraverso deduzioni logiche, quanto usando le maniere forti e le armi. Nel decennio successivo, la rivista fu affidata al mitico capitano George T. Shaw, che ordinò ai suoi collaboratori del magazine di “eliminare dai loro scritti tutto quanto non provocasse nel lettore un eccitamento quasi fisico e, perciò, di raccontare nel modo più diretto possibile storie violente, preferibilmente in prima persona”. Era nato un fortunatissimo genere letterario: il giallo all’americana.

Nel 1922 Dashiell Hammett, ex-detective della famosa agenzia Pinkerton, pubblicò sulla rivista il suo primo racconto The road home, con protagonista l’investigatore privato Continental Op, segugio instancabile, mosso da un irrefrenabile “Istinto della caccia”, per citare una famosa raccolta Mondadori di racconti che lo vedevano in azione. Dal 1929 lo scrittore, grazie anche al sostegno della moglie, la drammaturga Lilian Hellman (La calunnia, Piccole volpi), prese coscienza del proprio valore letterario e scrisse principalmente polizieschi con al centro il tormentato Sam Spade, a partire da Il falcone maltese. Quest’ultimo ebbe due trasposizioni cinematografiche, una del ’31 di Roy Del Ruth e quella famosissima del ’41 di John Huston con Humprey Bogart. D’altronde Hammett, prima di essere ostracizzato per la sua appartenenza al Partito Comunista, lavorò parecchio per Hollywood e dai suoi romanzi sono tratti vari film, in particolare La chiave di vetro – thriller del ’42 di Stuart Heisler con Alan Ladd e Veronica Lake, incentrato sulla corruzione politica – e L’uomo ombra di W.S. Van Dyke con William Powell e Myrna Loy, che ebbe un tale successo da generare 5 sequel e una serie televisiva; la popolarità dei due personaggi principali, Nick e Nora, fu tale che in tutti gli Stati Uniti ci fu un boom di vendite di scomodissimi ed irrazionali letti gemelli, nei quali loro dormivano non per scelta scenografica ma per rispettare il codice Hays – la linea guida morale del cinema americano di allora – che imponeva di non far mai vedere persone di sesso diverso, anche se sposate, nello stesso letto.

Nel 1932 su Black mask apparve la prima novella di Raymond Chandler, I ricattatori non sparano; per lui, che aveva da poco perso il lavoro, era un ripiego per guadagnare qualche soldo ma in quel momento è nato, forse, il più grande giallista della letteratura americana. A differenza di Hammett, sin dal primo romanzo, Il grande sonno, incentrò le sue storie su di un solo personaggio, Philip Marlowe investigatore privato cinico e sognatore ad un tempo con molte caratteristiche del suo creatore, compresa la tendenza all’alcolismo. Lui fu anche sceneggiatore di successo, tra gli altri curò lo script di Delitto per delitto (Alfred Hitchcock, ’51), La fiamma del peccato (Billy Wilder, ’44) e La dalia azzurra (George Marshall, ’46) e per questi ultimi due ottenne anche la nomination agli Oscar. I suoi romanzi sono stati più volte trasposti al cinema e Marlowe ha avuto le fattezze di Dick Powell, Humphrey Bogart, George Montgomery, Robert Montgomery, James Garner, Elliot Gould, Robert Mitchum e James Caan. Un vero monumento della cultura americana, che nel saggio La semplice arte del delitto dà sostanza teorica all’hard-boiled, come esempio di realismo letterario, contrapponendolo al mistery all’europea più preoccupato di comporre intricatissime e cervellotiche trame che di dare vita letteraria a situazioni che si appoggino ad un reale vissuto.

Nel 1923 anche il creatore di Perry Mason, Erle Stanley Gardner, pubblicò, con lo pseudonimo di Charles M. Green, su Black mask il suo racconto L’urlo dello scheletro; come è noto lui è stato maestro indiscusso del legal thriller ma ha mantenuto la vena hard-boiled nelle storie, che firmava A.A. Fair, di Donald Lam, mingherlino, donnaiolo e pronto alle mani e della sua corpulenta socia Bertha Cool.

La rivista aveva fatto scuola e, come spesso accade, pubblicazioni simili ne segnarono il declino ma il genere è stato (e – se il politicamente corretto non ci mette la coda – è ancora) vitalissimo.

Per citare gli autori più noti, possiamo ricordare Frank Kane, con il detective Johnny Liddell, monogamicamente legato alla fidanzata giornalista (che traeva vari scoop dalle sue indagini) a differenza della creatura del quasi omonimo Henry Kane, Peter Chambers, gran conquistatore e possessore di un guardaroba tutto di abiti blu. C’è poi David Goodis, l’autore più amato dal grande cinema francese: Tirate sul pianista (Francois Truffaut, ’60), La corsa della lepre attraverso i campi (René Clement, ’72), Lo specchio del desiderio (Jean-Jacques Beineix, ’83), Discesa all’inferno (Francis Girod, ’86). Un suo spazio se lo è creato Brett Halliday, tanto che quando smise di scrivere polizieschi, il suo editore fece uscire altri titoli, nei quali vari ghostwriters (tra questi un esordiente Bill Pronzini, poi autore di vari bestsellers) proseguivano le avventure del suo investigatore dai capelli rossi Mike Shayne. Ci sono poi i casi di John D. MacDonald e Whit Masterson/Wade Miller, che sono entrati nella storia non tanto per i numerosi polizieschi con al centro, rispettivamente, Travis McGee e Max Thursday ma per gli adattamenti sullo schermo, per MacDonald de Il promontorio della paura (J. Lee Thompson, ’62 e Martin Scorsese, ’91) e per Masterson/Wade del capolavoro assoluto L’infernale Quinlan (Orson Welles, ’58).

Quelli sopra citati sono ottimi autori di gialli di successo ma alcuni altri, se non sono paragonabili al valore letterario di Hammett o Chandler, ci sono andati vicino. L’epigono più accostabile ai due archetipi è sicuramente Ross Macdonald, che ha scritto 18 romanzi sulle avventure del romantico, cinico e scalcinato Lew Archer (il nome è, non a caso, quello del socio di Spade ne Il mistero del falco), che, come i suoi padri putativi Sam Spade e Philip Marlowe, combatte solo contro un mondo crudele e corrotto e ne esce vincitore ma ammaccato. Da uno dei suoi racconti nasce un altro piccolo capolavoro, Detective story (Jack Smight, ’66) con un eccezionale Paul Newman, che pretese che il personaggio si chiamasse Harper per scaramanzia (riteneva che una h nel titolo del film gli portasse fortuna); seguito anni dopo dal più routinier Detective Harper: Acqua alla gola (Stuart Rosenberg, ’75), sempre con Newman.

In un paio di casi interessanti la figura del detective solitario viene sostituita da protagonisti diversi.

Pensiamo dei detective dell’87mo distretto di Ed McBain (pseudonimo di Evan Hunter), scrittore e sceneggiatore di successo (Il seme della violenza, Noi due sconosciuti, alcuni episodi di Colombo), che hanno fatto scuola nello sviluppo di seriali polizieschi per la precisione e la forza d’impatto dei vari poliziotti che compongono la variegata squadra investigativa. Tra i tanti film tratti dalle sue opere, va ricordato il primo, L’assassino ha lasciato la firma, bmovie del semisconosciuto William Berke del ’58, con alcuni momenti di bella torbidezza e Anatomia di un rapimento (Akira Kurosawa, ’63), che trasferiva in Giappone le vicende del romanzo Due colpi in uno.

Dall’altra parte della barricata c’è Parker, il rapinatore creato da Richard Stark, pseudonimo di Donald E. Westlake. I suoi romanzi firmati con il proprio nome – che vedono spesso in azione il ladro pasticcione Dortmunder – sono pieni di ironia, talora dei veri giallo-comici, mentre la saga di Parker è nel pieno solco dell’hard-boiled: lui è un bravissimo professionista del furto, pressoché solitario (anche se in molti colpi lo accompagna l’affascinante Grofiled), con un grande senso dell’onore e del rispetto delle regole di malavita che se la deve quasi sempre vedere con organizzazioni criminali violente e prive dei suoi scrupoli. Dalle sue imprese sono stati tratti vari film, alcuni dei quali di grande spessore: l’intellettualistico Una storia americana (Jean Luc Godard, ’66), il solidissimo Senza un attimo di tregua (John Boorman, ’67), il coinvolgente Payback (Brian Helgeland, ’99) e il recente ed efficace Parker (Taylor Hackford, 2013 – il primo nel quale il personaggio mantiene il proprio nome: Stark/Weltlake, morto nel 2008, aveva sempre negato in vita il permesso di usarlo).

Un capitolo a parte merita Mickey Spillane, il più controverso e personale tra tutti gli autori del genere (dopo aver fatto il venditore di cravatte ambulante, il bagnino e perfino l’uomo proiettile in un circo, ha scritto i romanzi violenti e, per l ‘epoca, osé che lo hanno reso famoso ma ha al suo attivo vari romanzi per ragazzi, si è speso in dure battaglie anticomuniste, appoggiando apertamente il senatore McCarthy e la sua “caccia alle streghe”, ha fatto lo sceneggiatore dei fumetti Marvel, talora ha interpretato al cinema e in televisione se stesso o la sua creatura, Mike Hammer, fino a divenire un fervente testimone di Geova). Il suo personaggio principale, Mike Hammer appunto, è un detective violentissimo ed idealista e un giustiziere: sin dal primo romanzo, Ti ucciderò (titolo originale ancora più esplicativo: I, the jury), si capisce che fine faranno i cattivi. Tra i titoli di film tratti dai suoi romanzi – oltre a Cacciatori di donne (Roy Rowland, ’63) del quale è non eccelso protagonista – spicca l’aspro Un bacio e una pistola di Robert Aldrich del ’55.

Ora sorge un timore: reggerà questo splendido capitolo della letteratura americana (e non solo, se si pensa per esempio a James Hadley Chase, autore inglese di ottimi gialli d’azione, talora attraversati da un curioso e non spiacevole sentore di romanzo d’appendice) alla ebete follia del politically correct? L’inevitabile machismo, la endemica e catartica violenza di quei romanzi e quei film saranno ancora considerati, come sono, componenti essenziali di un genere ormai fondamentale nella cultura dal ’900 ad oggi?

Alcuni segnali ci inducono a ben sperare. In particolare, i costanti e meritatissimi riconoscimenti al grande mosaico pulp che è il cinema di Quentin Tarantino e il successo, anche critico dei romanzi di Don Wislow. Quest’ultimo è l’ultimo grande autore hard-boiled, i suoi personaggi sono caparbi investigatori, instancabili cercatori di persone scomparse ma anche membri di una sorta di organizzazione semi-malavitosa e ripara-torti. Anche lui può vantare una trasposizione importante da un suo romanzo: Le belve di Oliver Stone del 2012.

Bisogna stare comunque all’erta perché gli idioti del “Questo offende qualcuno” sono sempre dietro l’angolo, pronti a bocciare l’intera Scuola dei duri, come Oreste Del Buono aveva intitolato una sua selezione di gialli d’azione.

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Antonio Ferraro

Giornalista pubblicista,manager televisivo e cinematografico, produttore, autore è stato più volte nella Commissione Finanziamento Film – Opere Prime e Seconde e Cortometraggi. E’ stato membro del Consiglio Nazionale dello Spettacolo e, nell’ambito della Biennale di Venezia, responsabile – e per tre anni Presidente di giuria - del Premio Film Cooperativo E’ stato Capo-Struttura Programmazione e Acquisto film di Rai Due. Nel febbraio 1995 è Direttore Generale della Sacis, consociata RAI. Successivamente, è responsabile acquisto film per RAI. Nel 1997 assume l’incarico di Coordinatore palinsesti e redazioni cinema di RTI MEDIASET. Nel 1999 è Amministratore Unico di AGER 3, producendo, tra l’altro, la miniserie “Resurrezione” dei fratelli Taviani e vari film. Nel 2000 STREAM lo chiama quale coordinatore per l’acquisto e la programmazione di cinema e fiction. Contemporaneamente è Docente in vari master dell’Università La Sapienza di Roma e della Regione Lazio. Nel 2014 è uscito il suo libro:.. Ma il cinema risolve.

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