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Ci soffocheranno le vecchie zie?

Nel 1953 Leo Longanesi pubblicò il suo pamphlet più famoso: “Ci salveranno le vecchie zie?”. Era una raccolta di saggi che sottolineavano, già allora, il cedimento della borghesia (il sottotitolo era “I borghesi stanchi”) alle mode e al conformismo, il suo crescente disinteresse all’informazione e alla cultura e, di conseguenza, la rinuncia a quell’egemonia che la storia – dalla Rivoluzione Francese alla Rivoluzione Industriale – sembrava averle consegnato.

Longanesi è stato, insieme a Flaiano, il miglior interprete e fustigatore (con il sano scetticismo di chi sa di non poter cambiare nulla) delle caratteristiche degli italiani. Da fascista (spesso sarcasticamente) acceso, inventò il motto “Mussolini ha sempre ragione”, consapevolissimo delle potenzialità autocritiche della frase e, con zelo, (anche) ironicamente, patriottico, coniò agli inizi della guerra gli slogan: Taci! Il nemico ti ascolta” e ”La patria si serve anche facendo la sentinella ad un bidone di benzina”.

Era un fascista molto sui generis e, infatti, il regime più volte aiutò le sua avventure editoriali e altrettanto spesso lo censurò e gli fece chiudere le testate. Per capire il suo spirito – oltre all’auto-descrizione (lui era molto basso) “Sono un carciofino sott’odio” – si veda la dichiarazione di intenti con la quale nel ’26 presentava la sua rivista “L’italiano”: “Questa rivista non ha mai stampato le parole stirpe, era, cesarea, augustea… Dio ci scampi e liberi dagli archi di trionfo e dai fasci coi festoni… Uno stile non s’inventa dalla sera alla mattina. Lo stile fascista non deve esistere. Il nostro stile è quello italiano che è sempre esistito. Oggi occorre metterlo in luce”.

Già coll’entrata in guerra (Si ha molta fiducia nella nostra incapacità; e dicono “La nostra cara patria, la nostra Italia” con una commozione turistica, familiare e ipocrita che non lascia più speranza”, scriveva nel ’42) quel poco di credito che aveva dato al fascismo scomparve e un anno dopo insieme a Mario Pannunzio e Arrigo Benedetti sottoscrisse un fondo nel quale salutava l’avvento della libertà.

Ma il pur tiepido entusiasmo durò poco. Negli anni immediatamente successivi fece uscire, nella sua casa editrice, le sue opere più caustiche e significative: “In piedi e seduti”, “Parliamo dell’elefante” e, appunto, “Ci salveranno le vecchie zie”. Il senso di quest’ultimo titolo può essere esemplificato da questa frase:

Non erano, non sono, non saranno i Cadorna, i Badoglio, i Marras i capi dell’esercito italiano; sono le zie, sono le maestre che formano le fanterie e le artiglierie, che insegnano a non fuggire, a morire. Non erano, non sono, non saranno i Giolitti, i Mussolini, i De Gasperi a tener saldo lo stato: sono le zie, sono le maestre: esse solo insegnarono, insegnano e insegneranno a non rubare, a non “fregare”, a far pulito. E se il comunismo ha o avrà dei capi decenti, dei Togliatti o dei Terracini, anch’essi sono o saranno cresciuti all’ombra delle zie, e le tradiranno col nodo alla gola”.

Così sono le zie di Longanesi: “Erano, sono e ancora saranno, queste nostre zie, fusti di quercia, dalle radici ben solide, ben piantate, ben radicate nelle vecchie case: case di città o case di paese, ma vere case, sepolte in strade strette, senz’alberi, senza panorama, strade di finestre, strade pettegole, strade faziose, in cui la luce scende a picco; strade senza “parcheggio”, le strade della vecchia anima italiana, dove abbiamo imparato quel po’ che sappiamo, le strade che il piccone progressista degli speculatori borghesi squarcia, le ultime fortezze del decoro nazionale.
Erano, sono e ancora saranno, queste nostre zie, le custodi dell’ordine classico, nutrito da un’ironia un po’ laica, che non tollera il patetico cristiano e il patetico socialista; di un ordine classico, sorretto dalla scarsa fiducia nel progresso e nella bontà degli uomini e che non invita a colazione Rousseau
”. O anche: “Tutti abbiamo almeno una zia che non va al cinematografo e che conosce dieci modi per cucinare il lesso rimasto a colazione; una zia che, passata fra due guerre, conserva intatta la sua fede nella avarizia; la quale avarizia, ormai, è soltanto un segno di decoro, un atto di fede, un principio morale, una norma pedagogica. Essa sa che i santi in cui ancora crede non fanno più miracoli; tuttavia non ha fiducia nei nuovi. Sospettosa, essa osserva la prosperità dei borghesi con occhio diffidente, in attesa del peggio. E il peggio verrà, è alle porte, è questione di tempo”.

Ed eccolo il peggio: “Le signore e le signorine, le signore in pelliccia di martora, con la bocca alla Crawford, con le unghie leccate, coi sandali alla schiava, con il tampax, coi pesanti grappoli di medaglie d’oro al polso, le signorine dall’aria ibseniana ridevano dei calli di san Calisto!
Se la nostra borghesia ride dei santi, a teatro, e ride perchè si parla dei calli di san Calisto, è segno che davvero qualcosa di grave è accaduto. Ed è accaduto soltanto qui in Italia, dove ogni cosa perde forma e carattere, dove tutto s’accorda e si mescola e si confonde in un grigio quadro di bassi interessi, in quella generale concordia dei marci e degli inetti e dei furfanti, che ora si chiama democrazia, che ieri si chiamava in altro modo e che non muta mai”
.

Alla fine, però, le vecchie zie con i loro valori saldi anche se un po’ muffiti ci hanno salvato dagli orrori del comunismo, fornendo, da un lato, l’ossatura elettorale dello schieramento democratico (nessuno mi toglie dalla testa che una saggia zia abbia ispirato a Saragat l’uscita dal P.S.I. allora incomprensibilmente e autolesionisticamente frontista) e, dall’altro, avendo instillato ai borghesissimi nipotini che reggevano il P.C.I. un certo “orror di sé” e una qualche moderazione nel formulare sanguinolenti propositi rivoluzionari.

Non che non gli fosse chiara la pavidità della borghesia (“il prestigio della borghesia tramonta; ora, al sostantivo “borghese” tocca il ruolo di aggettivo dispregiativo”) ed era ben consapevole della pochezza culturale dei suoi esponenti più velleitari: “ …La conversazione si svolge come un rotolo di carta igienica velour, da cui si strappano con mano leggera i fogli: Marx, Hegel, Proust… Le signore odorano, annusano: il pensiero è anche odore; un’idea ha un odore, come ha un colore…. Rosso, rosso Marx; rosso Proust, rosso mestruazione, rosso sofà Café de Paris… Odore di Proust, di rosso melmoso, mondano, che si decompone nell’analisi di nebbiosi peccati in casa Swann”.

Col passare degli anni, infatti, le nuove “vecchie zie” si sono adeguate ai tempi e, coniugando le rigidezze morali e le approssimazioni culturali delle precedenti generazioni, si stanno beatamente (e beotamente) accomodando nel conformismo del “politically correct”, ben liete di poter sputare sentenze senza la fatica di dover pensare: c’è chi pensa per loro ed è tanto bravo, parla così bene ed è sempre dalla Palombelli e dalla Gruber (“io le guardo sempre: mi fanno capire tante cose!” cinguettano).

In fondo (verrebbe da dire: ”povere anime” se non fossero così pericolose), sono le eredi di quella mamma descritta da Jerome che, ignara del mondo, è serenamente convinta di dare un buon consiglio alla fragilità del figlio gay (delle cui inclinazioni lei non ha alcun sentore) con la frase fatta; “Male non fare, paura non avere!” o anche delle buone signore degli anni ’50 che invitavano i bambini a fare la raccolta della carta stagnola “Per salvare un negretto” (sic!).

Intendiamoci, le vecchie zie non sono un sesso o un’età: sono una categoria equamente rappresentata: sono vecchi televisive zie Fazio, Insinna, Mughini, Jovanotti e l’anagraficamente giovane Cattelan. Non ignorano – come la mamma descritta da Jerome – l’omosessualità ma, anzi, la venerano e lanciano gridolini di entusiasmo per ogni “pride”, non raccolgono più la carta dei cioccolatini ma succhiano e assaporano come una inebriante caramella la parola “accoglienza” (solo la parola perché il concetto è argomento arduo e scivoloso per le loro menti così square e tetragone.

Come le loro colleghe degli anni precedenti sono pedissequamente censorie ma sono peggiori di loro perché sanno benissimo che esistono anche altri modi di pensare ma li aborrono e sono pronte a chiamare le trinariciute guardie della “correttezza politica” ad ogni accenno di linguaggio o – non voglia Iddio! – di comportamento divergente.

Ben lungi dal salvarci, sono pronte a soffocare in noi ogni espressione di libertà. Come in “Psyco”, i Togliatti e i Terracini citati da Longanesi sono entrati nelle vesti delle loro mummificate zie e vanno accoltellando chiunque avversi la loro interessata gestione del potere, mediatico e non.

Siamo circondati e – parafrasando il titolo del piccolo capolavoro distopico del regista spagnolo Narciso Ibanez “Ma come si può uccidere un bambino?” (nel quale diabolici ragazzini uccidevano tutti gli adulti, certi della propria immunità) – viene da domandarsi: “Ma come si possono arginare le vecchie zie?”. Forse non si può ma allora siamo perduti.

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Antonio Ferraro

Giornalista pubblicista,manager televisivo e cinematografico, produttore, autore è stato più volte nella Commissione Finanziamento Film – Opere Prime e Seconde e Cortometraggi. E’ stato membro del Consiglio Nazionale dello Spettacolo e, nell’ambito della Biennale di Venezia, responsabile – e per tre anni Presidente di giuria - del Premio Film Cooperativo E’ stato Capo-Struttura Programmazione e Acquisto film di Rai Due. Nel febbraio 1995 è Direttore Generale della Sacis, consociata RAI. Successivamente, è responsabile acquisto film per RAI. Nel 1997 assume l’incarico di Coordinatore palinsesti e redazioni cinema di RTI MEDIASET. Nel 1999 è Amministratore Unico di AGER 3, producendo, tra l’altro, la miniserie “Resurrezione” dei fratelli Taviani e vari film. Nel 2000 STREAM lo chiama quale coordinatore per l’acquisto e la programmazione di cinema e fiction. Contemporaneamente è Docente in vari master dell’Università La Sapienza di Roma e della Regione Lazio. Nel 2014 è uscito il suo libro:.. Ma il cinema risolve.

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