Vorremmo davvero saperlo, sebbene consapevoli che sia una domanda retorica di cui possiamo solo immaginare la drammatica risposta. Come sta Patrick Zaky? A circa un anno dal suo arresto e dalla sua detenzione preventiva nel carcere egiziano di Tora, al Cairo, non possiamo, non dobbiamo e non vogliamo dimenticare le sorti di questo studente e attivista di ventotto anni. Una delle tante persone, nel mondo odierno ancora barbaramente medievale, ingiustamente tenute prigioniere dal regime di turno. Questa volta quello di Abdel Fattah al-Sisi, che in Egitto ha preso le redini del potere dopo il colpo di stato del 2013, a noi italiani particolarmente già inviso per l’ignobile assassinio di un altro giovane ricercatore, Giulio Regeni.
Patrick George è uno studente egiziano di religione cristiano copta che, per il progetto Erasmus Mundus, dal 2019 frequenta all’Università di Bologna il Master GEMMA sugli studi di genere e delle donne, sponsorizzato dalla Commissione Europea. Patrick è un ragazzo brillante ed è attivista per i diritti delle minoranze oppresse nel suo Paese, tra cui anche la comunità Lgbt.
È il 7 febbraio 2020 quando giunge al Cairo per fare visita alla sua famiglia, in una breve pausa dagli studi. All’aeroporto viene fermato e arrestato con accuse gravissime: diffusione di notizie false, incitamento alla protesta, istigazione alla violenza, rovesciamento del regime al potere, quest’ultimo un capo di imputazione che potrebbe condannarlo all’ergastolo. Si scoprirà poi che su di lui un mandato di cattura pendeva già dal mese di settembre.
Ammanettato e bendato, viene interrogato per lunghe ore sui suoi coinvolgimenti contro lo stato e sui suoi presunti legami con Giulio Regeni, sul quale ha speso parole di solidarietà attraverso i suoi canali social. Condotto l’indomani nel carcere di Tora, rimane lì in attesa di un processo che non ci sarà mai, in una detenzione preventiva reiterata e incancrenita dalla scusa dell’emergenza Covid-19.
Il tempo scorre, la comunità internazionale si indigna e si mobilita, come i suoi amici, ma anche come grandi organizzazioni tra cui la sempre attiva Amnesty International, svelando le condizioni inaccettabili cui è sottoposto il ragazzo: sicuramente torturato con botte e scosse elettriche, dorme da mesi per terra ed è anche gravemente a rischio di salute essendo un soggetto asmatico, dunque particolarmente esposto al coronavirus. Uno strazio per lui e per i suoi familiari, che riescono a fargli visita in carcere testimoniando il suo stato depressivo, come fa del resto il suo avvocato Hoda Nasrallah.
I mesi scorrono e a un anno da quel maledetto arresto le autorità egiziane non mollano la presa, nonostante le trattative in corso portate avanti anche dalla Farnesina. Nelle ore in cui scriviamo si è svolta al Cairo l’udienza sulla custodia cautelare di Patrick, che ci ha tenuti con il fiato sospeso e che si è purtroppo nuovamente conclusa con altri 45 giorni di carcere per il giovane, in contrapposizione allo spiraglio che sembrava apertosi il 17 gennaio, quando la detenzione era stata rinnovata per “soli” 15 giorni. Ma il gioco criminale è proprio questo e opera come uno stillicidio, al quale noi ci opponiamo a gran voce.
Mentre ancora gridiamo contro i fatti, anch’essi inaccettabili, che hanno portato all’arresto, alla tortura e all’uccisione di Giulio Regeni, ci uniamo al grido di chi proseguirà questa battaglia contro la prigionia di Patrick Zaky, non uno qualunque ma uno di noi, come tutti coloro cui sono negati i più fondamentali diritti umani. Quelli negati dai tanti, troppi regimi ancora attivi nel mondo. E se un regime dittatoriale di Rinascimento ha davvero ben poco, tanto per citare recenti, scandalose e inopportune uscite, non dimentichiamoci che con tali regimi facciamo tutti affari, noi paesi occidentali sedicenti illuminati dalla democrazia.
Mentre riflettiamo su questo scomodo aspetto, continuiamo anche a chiederci come sta Patrick.
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