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Comunicazione, pandemia e società. Cosa ereditiamo dal 2020

Gianni Dominici, sociologo formatosi al Censis e direttore da tempo di Forum PA, conduce da mesi – ovviando alle restrizioni antiCovid sugli eventi – serrate e frequenti video-interviste a molti operatori che hanno a che fare con il sistema pubblico e il suo funzionamento.

Il programma è in rete e si chiama Restart-Italia. E’ toccato anche a me rispondere alle sue domande, a seguito della pubblicazione del mio “Pandemia. Laboratorio di comunicazione pubblica” (Editoriale Scientifica), per fare libere riflessioni su tre questioni che qui riprendo in forma scritta per estendere anche ai lettori di questo giornale gli spunti che cercano di fare sintesi del bilancio stesso dell’ormai lungo rapporto tra comunicazione, pandemia, politica e società in Italia, su cui si è più volte scritto.

Le cose che abbiamo capito meglio nel corso di questa crisi

Per un gran numero di persone – senza vissuto di gravi e prolungate crisi sanitarie – vi è stata l’esperienza, anche di apprendimento, di essere parte della filiera storica delle epidemie che hanno caratterizzato tante epoche della vicenda umana, che sono state parte di grandi narrazioni (da Boccaccio a Manzoni nella letteratura italiana, da Albert Camus a Josè Saramago nella letteratura europea) ovvero che segnano momenti memorabili dell’arte (da Vasari a Tiepolo in Italia, da Bruegel a Delacroix in Europa);  ma che dai tempi della Spagnola (“ha fatto più morti della prima guerra mondiale” dicevano i nostri nonni) non avevano investito  le ultime quattro o cinque generazioni, dunque praticamente tutti i viventi.

Sono emersi – nel nostro modo di rappresentare gli eventi con diversi e spesso conflittuali soggetti in campo – molti dualismi che ci caratterizzano. Per esempio il ritorno conflittuale tra Stato e territorio (soprattutto regionale). Per esempio la dinamica giovani/anziani. Certamente la questione (che ritorna ad ogni crisi economica) tra lavoratori garantiti e lavoratori non garantiti. A fronte di una domanda crescente di spiegazione e tutela, rispetto a tutto ciò che va sotto il nome-ombrello di “comunicazione”, a cui attribuiamo grande forza e grande potere, abbiamo trovato spesso voci flebili o voci assenti: sia la comunicazione politica, pressoché sparita, sia la comunicazione di impresa per lo più senza creatività e socialità;  e persino la comunicazione istituzionale, che ha seguito i percorsi prescrittivi ma in modo insufficiente il bisogno di spiegazione scientifica e di accompagnamento sociale. Abbiamo avuto in casa tutti i giorni epidemiologi e virologi, è vero, che hanno fornito una base utile di apprendimento, lasciandoci due temi aperti: migliorare l’uso della loro presenza da parte media, immaginare che non spariscano queste voci nella cultura della prevenzione sempre necessaria una volta finita la crisi acuta. E a proposito di spiegazione siamo sicuri che tutti i grandi soggetti “competenti” (scuola, università, media, scienza nel suo complesso, istituzioni e amministrazioni) abbiano davvero soddisfatto la domanda crescente?

Le “misure straordinarie” che sarà meglio mantenere, pur in forma riadattata, nel dopo crisi

Anche qui, dopo la prima e la seconda fase (ancora in corso), non ci ritroviamo tutti con gli stessi sentimenti e le stesse percezioni: c’è chi è annichilito e spaesato, c’è chi ripete a se stesso “tutto come prima” e c’è chi accetta il ridimensionamento pur tendendo alla ricostruzione. Per rigenerare bisogna avere senso dei cambiamenti necessari, senso critico di processi che hanno già paradigmi oggettivi profondamente ridefiniti (velocità, mobilità, attrattività, eccetera). Soprattutto bisogna avere presente il quadro del irrisolti nell’ambito dello sviluppo, delle ineguaglianze, dei conflitti aperti e delle potenzialità mal gestite.

Quindi non ci porta lontano né troppa arroganza né troppa mestizia.

Il “ridimensionamento critico” deve anche essere alla base dell’esigenza di contrastare negazionismo e pulsioni a derogare le precauzioni ancora necessarie.

Questa linea sottile è la “misura straordinaria”, in fondo “culturale”, più interessante da immaginare per un 2021 che non può più avere carattere contemplativo, ma che deve indurre a progettare a ogni livello i cambiamenti necessari. Approfittando anche di un’agenda in cui non solo gli addetti ai lavori ma tutti i cittadini hanno una opportunità di coinvolgimento. Penso alla conferenza sul futuro dell’Europa (che non durerà un week-end ma due anni) e penso alla conferenza mondiale sul clima fissata in Scozia a novembre.

Pensando alle pubbliche amministrazioni e al loro modello di funzionamento

In più occasioni ho provato a lanciare il tema di una mission rinnovata e generale delle funzioni pubbliche che non riguardano solo burocrazie negli uffici ma anche eserciti di operatori in linea con le utenze nelle scuole, degli ospedali, nella sicurezza, nei servizi pubblici, eccetera, che deve riguardare la soglia troppo bassa in Italia di moderna alfabetizzazione, ovvero di piena comprensione dei fatti e dei processi. Insomma la guerra contro l’analfabetismo funzionale e di ritorno. Ci sarebbe un ruolo per tutti, ci sarebbe una ricompensa morale immensa per gli operatori, ci sarebbe la dimostrazione che il “lavoro garantito” investe sulla condizione dei “non garantiti”. Ma ciò richiede un grande piano tecnico e sociale, non pensare che qualche pur importante applicazione tecnologica risolva ciò che richiede un immenso sforzo di “campo”.

In questo quadro assume rilievo l’impegno di tenere a regime la comunicazione scientifica con gli apprendimenti della lezione della pandemia. E in particolare si colloca un servizio alle istituzioni nello svolgere la mediazione tra le istanze della salute e quelle della produzione e del lavoro che non significa accontentare a zig zag un giorno uno e un giorno l’altra ma, appunto, comprendere i processi e svolgere una vera mediazione. Qui si porranno le condizioni, per le quali certo serve un governo cosciente di questo cambiamento necessario, che solleciti più lavoro e più produzione rispetto alla logica dei bonus. E magari si eviterà così l’eccesso di task-force, occasionali e fiduciarie, utilizzando ove possibile potenziali di competenze da mettere alla prova. 

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Stefano Rolando

Stefano Rolando è nato a Milano nel 1948, dove si è laureato in Scienze Politiche e specializzato alla Scuola di direzione aziendale della Bocconi. Tra vita e lavoro si è da sempre articolato tra Milano e Roma. E' professore universitario, di ruolo dal 2001 all’Università IULM di Milano dopo essere stato dirigente alla Rai e all'Olivetti; direttore generale dell'Istituto Luce, alla Presidenza del Consiglio dei Ministri e del Consiglio Regionale della Lombardia. Insegna Comunicazione pubblica e politica e Public Branding. Ha scritto molti libri sia su media e comunicazione che di storia, politica e questioni identitarie. Da giovanissimo è stato segretario dei giovani repubblicani a Milano, poi ha partecipato al nuovo corso socialista tra anni settanta e ottanta. Poi a lungo non appartenente. Più di recente ha lavorato sul civismo progressista (Milano e Lombardia) e su un progetto politico post-azionista in relazione al quale è parte della direzione nazionale di Più Europa.

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