Da febbraio a settembre, tra la fase uno e la fase due.
Ho gestito quotidianamente un monitoraggio universitario sulla “rappresentazione mediatica e comunicazionale della pandemia” dal giorno dei primi due contagi a Codogno a quei giorni tra agosto e settembre in cui la cosiddetta “fase due” pareva evolvere con moderato ottimismo. Dunque la fase uno tra l’esplodere della prima aggressione del virus (rivelando le discrepanze di un sistema pubblico nazionale e regionale preso di sorpresa), poi messo in riga dalla decisione del lockdown e dunque con la gestione, grave ma efficace, del lockdown stesso.
E poi la fase due, cosiddetta di transizione, con progressivi allentamenti per consentire una relativa ripresa economico-commerciale e di mobilità. Che ha però compreso anche un eccesso di allentamento soprattutto tra i giovani e nella mobilità estiva. Così da creare le condizioni – in quasi tutto l’occidente – verso una fase tre di recrudescenza che, tra ottobre e novembre, ha preso i caratteri di impeto, sia per contagi che per decessi.
Ha ragione Corrado Augias a percepire, per l’Italia, come “catastrofico” il superamento dei 50 mila morti (ieri) di cui un terzo nella seconda ondata. Si è cercato di imbrigliare l’impennata con i provvedimenti dell’Italia tricolore (aree rossa, arancione e gialla), nell’ipotesi giusta – ma gestita con errori e in alcuni casi con furbi calcoli (come pare sia stato il caso dell’Abruzzo) – di regole condizionate flessibilmente e da parametri fissi.
Comunque percependo il rischio di crisi di saturazione delle terapie intensive e soprattutto vedendo crescere ansie e conflitti così da porre (in Italia ma anche nel mondo) il problema di cercare di allentare con una “grande trovata” la tensione epidemiologica. Ma allentare come? L’argomento più a portata di mano è stato quello dell’accelerazione dell’annuncio degli esiti dei vaccini, assicurati a gran voce per gennaio, ma sottovoce attesi per la primavera e in altre più velate dichiarazioni non prima dell’estate. Naturalmente nel quadro di procedure comunque accelerate. E così antiche dialettiche in seno alla stessa comunità scientifica si sono (negli ultimi giorni) aspramente riaperte a proposito della fiducia nei confronti di soluzioni in base agli annunci da parte di soggetti fortemente interessati: le imprese a fronte di primati reputazionali e di affari colossali, i governi a fronte di condizioni di nuovo molto provate del sistema sanitario-ospedaliero e con crescenti proteste degli operatori imprenditoriali e commerciali.
Per inciso, a settembre, verso la fine della fase due, il nostro monitoraggio quotidiano si è trasformato nella realizzazione di due libri di sintesi e approfondimento sul “dopo”. Un testo (Pandemia. Laboratorio di comunicazione pubblica, realizzato da Editoriale e Scientifica giunto a novembre in distribuzione) per fare il bilancio qualitativo del dibattito fino allora svolto. Un secondo testo (Glocal a confronto. Libro-intervista con Piero Bassetti sulla pandemia, Luca Sossella editore) per ragionare con un lucido ex-imprenditore e ex-politico ancora alla testa di due fondazioni internazionali che sono parte del dibattito globale sui processi del localismo (di cui è parte anche la dinamica di Covid 19) e del dibattito sull’innovazione intesa come “realizzazione dell’improbabile” tra impresa, scienza e politica.
Un piccolo ma denso libro per cercare di allungare il più possibile la vista, proponendo almeno questioni di metodo sulla necessità di rivedere molti paradigmi in mutamento: mobilità, socializzazione, organizzazione dell’attrattività, ruolo della trasformazione digitale, mercato dell’occupazione, cambiamenti delle classi dirigenti, confronto tra oriente e occidente sulla cultura sociale della salute, eccetera.
Faccio il punto della situazione in questo articolo, che ha una certa lunghezza di cui mi scuso ma a volte è necessario, perché su queste “colonne” sono più volte intervenuto con qualche analisi, qualche commento, in varie fasi di questo percorso. Ora – mentre giorno per giorno il carattere del dibattito e quindi della rappresentazione prende nuovi aspetti – alcuni mi chiedono che nessi di continuità ci sono tra le due prime fasi – che hanno espresso quei due libri ora da pochi giorni in circolazione – e questa terza fase di incattivimento della situazione sia sanitaria che sociale. Una fase che potrebbe obbligarci a rifare da capo l’analisi delle cose che contano, perché pochi o forse pochissimi avevano previsto e descritto una fase autunnale a rischio di precipitare come la stiamo vedendo in questi giorni. E già questa è un’anomalia, che fa dire che ormai le classi dirigenti hanno memoria non di quel che è stato ma solo di quel che hanno visto. Non c’è bisogno di essere scienziati per sapere che il ciclo delle pandemie è sempre stato a due o tre ondate. E che l’ultima forma diffusa vissuta in Italia (l'”asiatica” del 1956, con tutti, ma “tutti”, a letto) è durata tre anni.
Per questo provo a dire cosa vedo ora profilarsi con continuità ma soprattutto cosa vedo invece profilarsi con discontinuità. Naturalmente l’oggetto dell’analisi è come si racconta, si rappresenta, si mostra, si fa percepire, si rende partecipi o responsabili i cittadini, cioè un aspetto decisivo della formazione della “temperatura sociale” attorno alla pandemia. Perché l’analisi del processo tecnico-scientifico in atto va al di là delle mie competenze. E l’analisi dell’andamento economico-occupazionale è una delle materie del contendere, cioè della lotta tra poteri economici e poteri politici in cui i dati e le previsioni sono ora fuori da quasi tutte le forme di trasparenza e razionalità che potrebbero esprimersi nelle fasi di pace e che diventano materia opinabile e manipolabile nelle condizioni che ormai vengono apertamente considerate “di guerra”.
Tra la fase uno e la fase due abbiamo visto che dualismi e conflitti non erano eliminabili con modelli emergenziali e meno che mai con modelli autoritari. Tra Stato e Regioni, tra comunità scientifica ed economica, tra giornalismo di allarme e giornalismo di spiegazione, tra contesti urbani e campagne, tra obbedienza e disobbedienza nei comportamenti, persino tra generazioni e, nel caso italiano – tra nord e sud. Tuttavia la conflittualità è stata moderatamente imbrigliata e la gestione del lockdown è avvenuta in una forma comunicativamente semplificata e socialmente composta. Nella fase tre questi dualismi hanno visto invece svanire giorno per giorno la condizione di attenuazione e hanno avuto una rappresentazione progressivamente più accesa.
Il sopravvento della contagiosità e della letalità avrebbe potuto essere controllato e attenuato da un clima che vorrei definire di umiltà diffusa unita a intelligenza, cioè da uno stile in generale più ripiegato e conforme al ridimensionamento effettivo di realtà che non sarebbero “tornate come prima” né per magia né per casualità. Ma con uno sforzo di riprogettazione, magari trainato – come non sta avvenendo – da una ampia partecipazione alla progettazione per i fondi europei, di cui si sa pochissimo nel merito, di cui c’è ammissione di ritardo (ieri sera anche il premier Conte) e di cui alcuni (anche a Bruxelles) paventano un “rischio Italia” in merito agli esiti.
La cultura del “ridimensionamento progettuale” avrebbe potuto (anzi dovuto) essere però accompagnata da una forte crescita delle prestazioni di spiegazione e di accompagnamento da parte delle istituzioni, così da allargare la base della consapevolezza e ridurre la componente di “analfabetismo funzionale” che è da sempre il buco nero della nostra opinione pubblica. Si dovevano formare condizioni di maggior autorevolezza nazionale e territoriale. Si doveva lavorare – con coordinamento attivo – con i corpi intermedi dell’associazionismo solidale e valoriale secondo un piano di maggiore informazione responsabile. Si doveva dimostrare che non si perdeva tempo a fronte di un certo allentamento della letalità, usando i mesi estivi per migliorare l’infrastruttura sanitaria, rianimare la medicina territoriale, concentrarci su una pedagogia della prudenza e della prevenzione. Sia chiaro: non si predica l’oscuro e solitario nascondersi nell’isolamento. Ma l’animazione – pubblica e sociale – cognitiva e responsabile circa i cambiamenti e le prevenzioni necessarie. Si doveva soprattutto – cito ancora il mio amico socio-economista Nadio Delai – “chiamare le aziende alle responsabilità dinamiche non dare il bonus per i monopattini, ascoltare profondamente chi sa creare valore e accelerare, nel pubblico e nel privato, la logica degli investimenti, promuovere uno modello partecipativo come è quello che in questi giorni in Italia dimostra di fare solo Bolzano”.
A peggiorare le cose poi anche l’Italia è stata risucchiata dalla crescita di un negazionismo muscolare – in evidente prova di forza contro-fobica – che ha trovato un varco perché quasi tutto ciò che si sarebbe dovuto fare febbrilmente è invece avvenuto a marce basse. Mettendo in campo un’altra volta i “pannicelli”: dopo i bonus, i “ristori”. Importante una cosa: non dare l’idea che la situazione sarebbe potuta peggiorare. Non deprimere gli italiani in ordine a possibili rischi. Insomma per creare una sorta di propagandismo light, vagamente speranzoso e comunque non inquietante. Un’attitudine che non è stata solo italiana. Ma che ha derubricato il progetto di una coraggiosa fase di febbrile costruzione della protezione consapevole del rischio di un andamento verso il peggio: da spiegare, da capire, da guardare in faccia.
Alla fine anche la comunità scientifica – vincitrice nella fase del primo lockdown – si è accontentata della sceneggiatura del galleggiamento che è prevalsa nei gruppi dirigenti. Per non inasprire i conflitti con il sistema economico. Quindi, in quel generale allentamento galleggiante, si sono favorite le maglie allargate per lasciar fare con l’estate qualche recupero di margini all’industria delle vacanze (la stessa che adesso cerca di ottenere lo stesso margine per legittimare il via libera alle vacanze natalizie e all’economia dei cenoni) che una “fase di cantiere” (informata, preoccupata, responsabilizzata) non avrebbe permesso. Gli operatori scientifici anche di buon senso hanno scosso un po’ la testa. Ma la questione di metodo non si è più posta. E così Coronavirus ha letto molto bene il rallentamento del processo di difesa severa e ha dimostrato di essere più subdolo, più scaltro, più veloce, più mobile di tutti noi.
Per inciso qui aggiungo che i due libri citati sono stati, in tutta modestia, il minuscolo contributo al necessario cantiere estivo simbolo di dare tutti, dove e come possibile, qualche valore aggiunto allo sforzo di mobilitazione verso il dopo. Cosa credo che, nelle forme diverse del “fare pensando”, abbia corrisposto a tanti altri – soprattutto parte di tessuti creativi e produttivi, ma anche applicati a importanti servizi pubblici (salute, ambiente, educazione, assistenza, ricerca) – che hanno intuito che la “tregua” era un’opportunità da cavalcare, non un’occasione di pura e semplice rimozione.
Con il segnale quotidiano di contagi in impennata e di una letalità oltre i settecento morti al giorno si è finalmente capito che la “comunicazione” non la fanno né i comunicati stampa, né i singoli dpcm, né i bollettini statistici, né lo scontro di nuovo perpetuo tra rassicurazioni e insulti nelle dichiarazioni televisive.
La comunicazione la fa la scenografia immateriale generale, quella che prende la forma simbolica di sintesi delle tante più o meno modeste volontà, delle tante indecisionalità, delle debolezza progettuali e pedagogiche e che dipinge un colore di fondo più decisivo, più caratterizzante, delle tante piccole comunicazioni coraggiose, alcune addirittura ardimentose, di molte ma insufficienti parti del nostro sistema di fare settorialmente il proprio dovere.
La vicenda della scuola – fatta appunto di questi coraggi e queste dedizioni – ha finito per piegarsi al colore indistinto e mellifluo di una condizione generale di galleggiamento e rinvio rispetto al quale la domanda di anticipare la carta del vaccino “deus ex machina” (certo augurandoci il buon fine e non l’insuccesso) assume il carattere di una inevitabilità comunicativa. Ma a me preme anche aggiungere che ciò spiega anche la voce solitaria, sobria e disperata del prof. Andrea Crisanti e il fragore sistemico che l’ha immediatamente coperta.
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