Stiamo vivendo una grande catastrofe. Economica e finanziaria; sanitaria e, soprattutto, esistenziale. E, dopo una grande catastrofe, nulla può essere come prima. Questo l’abbiamo capito da soli. Ma prendiamo atto, con soddisfazione intellettuale, che a riconoscerlo siano governanti, esperti ed opinionisti, partecipi a vario titolo del vecchio ordine. “Se lo dicono anche loro, vuol dire che…”.
Ma qui già sorge un piccolo problema. Derivante dal fatto che le vittime del “prima”, i Cipputi di tutto il mondo non sono presenti sulla scena per esigere riparazione per i torti subiti o per evitare che i meccanismi della disuguaglianza non si riproducano su scala allargata in futuro.
E questo per due ragioni che dovrebbero essere state acquisite da tempo. In primo piano l’eutanasia della vecchia sinistra antagonista, scomparsa dalla scena interna e soprattutto internazionale. Di riflesso, il fiato corto della stessa democrazia: non a caso sospesa oggi e sino a tempo indeterminato, senza che gli interessati (leggi i cittadini) se ne adontino in modo particolare.
In questo vuoto, in cui i difensori del vecchio ordine sono anch’essi, in qualche modo, in quarantena o almeno sulla difensiva e i protagonisti del nuovo non si vedono ancora all’orizzonte, il confronto sul presente e sul futuro diventa un confronto di idee e di sensibilità aperto ad ogni possibile sbocco. E, attenzione, un confronto tutt’altro che accademico o elitario. E un confronto da cui noi, eredi dispersi per il mondo della vecchia sinistra antagonista, non possiamo sottrarci; magari in attesa di un del tutto improbabile ritorno del Settimo cavalleggeri.
La posta di questo confronto è altissima. Perché l’alternativa è tra la catarsi (leggi un mutamento radicale, intellettuale ma anche etico di guardare al mondo che ci circonda) e la barbarie (leggi un mondo di gran lunga peggiore: più ingiusto, più povero, più diseguale, più oppressivo, più arbitrario, più disordinato, più violento, più soggetto ad ulteriori catastrofi). Un mondo che non è dato prevedere in base a questo o a quel supporto statistico: ma perché lo vediamo crescere davanti ai nostri occhi, giorno dopo giorno.
Capire la natura del disastro. E, soprattutto, la qualità delle reazioni che esso ha determinato. Un esercizio alla portata di tutti noi. E che ognuno di noi è tenuto a fare.
Naturalmente le chiavi di lettura saranno molto diverse tra loro. E la stragrande maggioranza dei “lettori”, o almeno dei professionisti del ramo si avvarrà di pret-à-porter ideologici di vario tipo. La mia sensazione è che questi, nell’attuale passaggio, siano inutili, se non dannosi. Un’opinione che cercherò di argomentare in altra sede; liberi tutti di condividerla o meno.
Ciò detto, quella che abbiamo di fronte non è una semplice catastrofe naturale; anche se ha in comune con quella l’imprevedibilità e il carattere distruttivo. E non è una catastrofe naturale perché, a differenza da quella, non ha limiti di spazio e di tempo e risposte prestabilite, nel senso del ritorno a una normalità temporaneamente venuta meno.
Si tratta piuttosto, di una Prova (c’è chi direbbe sfida; ma la parola è logorata dall’uso e poi non si può scrivere con la Maiuscola) o di un Giudizio (di Dio, della Storia). O, per altro verso, di un Richiamo (da parte, ancora, di Dio, della Natura o dell’Umanità). Due visioni totalmente opposte. Nel loro approccio di base; e nei risultati che determinano. La prima, è, da sempre, culturalmente dominante sia nella sua originaria dimensione religiosa che in quella ”mondana”; e non a caso, automaticamente riproposta come chiave di lettura qui e oggi. La seconda, una luce che brilla di lontano; tanto da far perdere le sue tracce. La prima, matrice di infiniti disastri, nel passato e nell’ora presente. La seconda, l’unico possibile antidoto a questo disastro. La prima assume invariabilmente le vesti di uno scontro: tra persone, tra eserciti, tra cause, tra nazioni, tra dottrine e ancora e ancora. Uno scontro in cui o si vince o si perde. E in cui chi vince – questo il passaggio fondamentale – ha, perciò stesso, automaticamente ragione: perché ha dalla sua parte Dio, la storia, il progresso, il futuro, il nuovo, il potere, la forza, la ricchezza o, semplicemente, nelle varie forme possibili, il successo; in sé e per sé. Un metro di giudizio che ha sempre funzionato sin dalla notte dei tempi e nelle più diverse stagioni: possiamo indignarci, a debita distanza temporale, per il Popolo eletto, per l’ “in hoc signo vincis” o per il “Gott mit uns”; ma non abbiamo avuto alcun problema nell’accettare il fatto che la caduta del muro segnasse nientepopodimeno che la fine della storia o che la stella cometa del nostro futuro percorso dovessero essere il pensiero unico e il suo messaggero, leggi gli Stati Uniti d’America.
Ma questi sono sassolini nelle scarpe. Nulla di fronte al dramma che stiamo vivendo. Una partita, un lungo “durante” in cui ognuno gioca per vincere (o per fare perdere l’altro); e in cui a vincere è, qualche volta, il migliore ma più spesso chi gioca più sporco o dispone di maggiore potere.
E’ la maledizione che perdura. In uno scontro dalle molteplici facce: stato contro regioni, ragioni dell’economia contro ragioni della salute, potere regolatore dello stato contro libertà individuali, mascherine e uso delle medesime come risorsa o come strumento di oscuri disegni, chiusure contro aperture, strumenti finanziari buoni contro strumenti finanziari cattivi, untori contro untori, America contro Cina e viceversa. Una baraonda di “prove di forza” senza regole condivise, senza autorità riconosciute, senza iniziative e/o solidarietà generali. Un mondo perfettamente rappresentato da un signore che getta sul piatto diecine di miliardi e nuovi dazi per difendere la sua roba dalla concorrenza dell’Europa e colpisce a morte l’Oms (e altre istituzioni internazionali) perché complici del Nemico di turno.
E qui, se il Male esiste nel mondo, siamo al Male assoluto. E, allora, occorre chiamarsi fuori dal gioco. In un gioco che ci porta alla rovina la ricerca del Vincitore o il tifo per una parte o per l’altra non ha più alcun senso.
Chiamarsi fuori significa rendersi disponibili per ascoltare l’altro messaggio.
Un messaggio che ha le vesti di un Richiamo. “Siete stati colpiti, tutti, perché avete mancato, collettivamente, ai vostri doveri. Verso Dio, verso il mondo o verso l’umanità”. Non sta a me indicare i percorsi del riscatto, perché dovrete scoprirli da soli. Non sta a me indicare i buoni e i cattivi, perché nessuno lo è di per sè e per sempre e perché li individuerete da subito, sin dall’inizio del vostro viaggio. Non sta me e nemmeno a voi parlare di vincitori o di vinti perché o si vince insieme o si perde tutti. Sappiate, comunque, che il vostro percorso è segnato da un discrimine fondamentale: da una parte lo spirito della solidarietà, dall’altra la logica della concorrenza.
So bene che, almeno all’inizio, tutto sembra giocare a vostro sfavore: i rapporti di forza, le risorse, la terribile presa della continuità e del conformismo e del potere costituito. Ma sappiate anche che il vostro messaggio ha una capacità immensa di radunare energie, individui e collettività a partire dalle loro condizioni esistenziali e dalle speranze e dalle indignazioni che saprà sollevare. E, sappiate, infine, che questo messaggio deve essere al centro di ogni possibile appuntamento e di ogni possibile rivendicazione: che si tratti della dignità del lavoro e del pubblico o della riscoperta della democrazia civica; della lotta per la pace o di una prova elettorale (decisiva tra tutte quella americana).
Davanti a voi un mondo da ricostruire: quello delle solidarietà collettive, della difesa dei più deboli, di un nuovo agire politico. Un messaggio che vi appartiene e che ciascuno di voi può ascoltare senza bisogno di interpreti autorizzati o di intermediari. Perché sapete o potere sentire tutti che la risalita sarà lunga e difficile; ma che l’alternativa da sconfiggere qui e oggi è la barbarie e il disastro.
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