L’acqua è abbondante, ma il cavallo non beve. Le banche sono piene di quattrini, mentre il credito alle imprese langue. Cosa sta succedendo all’economia italiana?
La pandemia da Covid 19 ha picchiato duro sul sistema nazionale, determinando una crisi che ha raggiunto l’apice.
Persi un milione di posti di lavoro nell’arco di un anno, dalla primavera del 2020 ad oggi. Di contro i depositi in banca delle famiglie italiane sono cresciuti e continuano a crescere: 1.750 miliardi di euro in un anno, il 15,2% in più del reddito disponibile e, ancora, dello 0,5 per cento sul trimestre precedente.
Nello stesso periodo, il reddito complessivo, Pil, è calato di 154 miliardi di euro. Al contrario, il rapporto tra debito pubblico e Pil è salito da 134,6 a 155,6.
La riduzione del Pil si riflette negativamente sulle attività produttive. Uno studio della Banca d’Italia ha stimato un aumento dei fallimenti, 2.800 aziende entro il 2022, in aggiunta ai 3.700 maturati nel 2020 ma non scattati per via della moratoria dei debiti e delle politiche di sostegno adottate dal governo.
Come mai? Quali sono le ragioni di questa clamorosa contraddizione: famiglie sono impoverite, soldi in banca sono aumentati?
La risposta è apparentemente elementare, sono diminuiti i consumi. In primo luogo, la paura del contagio ha indotto le famiglie a ridurre le spese e mettere via qualche riserva per fronteggiare nuove possibili difficoltà. In secondo luogo, è stata la chiusura perdurante di bar, ristoranti, cinema, teatri, palestre, piscine, musei ecc., con l’aggiunta delle vacanze e dei viaggi mancati, a dare un colpo determinante alla spesa complessiva.
Crescono i risparmi e cala l’occupazione. 1.000.000 di disoccupati in più non sono una barzelletta, come non lo sono le lunghe file davanti a la Caritas e altri enti di assistenza.
Un impoverimento netto che non ha toccato le categorie cosiddette protette, quelle del pubblico impiego e degli altri settori di lavoro garantito. Le difficoltà delle famiglie sono state fin qui parzialmente tamponate dal ricorso massiccio alla cassa integrazione, dai sussidi, dal blocco dei licenziamenti che si sono aggiunti al reddito di cittadinanza. Molte di queste provvidenze stanno per scadere, la situazione diverrà più grave.
Il flusso dei risparmi è andato ad alimentare i conti correnti detenuti presso il sistema bancario. Le banche traboccano di liquidità. I depositi sono aumentati in un anno del 12% (1.750 miliardi di euro). Tanta grazia che mette in difficoltà le stesse banche, qualcuna si prepara a non accettare depositi superiori a 100.000 euro. Tanti soldi in cassa e scarse opportunità di impiego. Il sistema è fermo, l’economia non tira, le imprese non si lanciano in nuovi investimenti, il cavallo non beve.
Le imprese, secondo il presidente della Confindustria, Carlo Bonomi, hanno superato la crisi del decennio precedente (2008-2010) facendo debiti, che ora debbono rimborsare. Prima di valutare nuovi investimenti vogliono capire il vento che tira.
Incredibile ma vero, l’abbondanza sta producendo frutti negativi. La richiesta di finanziamenti langue, i settori produttivi aspettano gli eventi. I tassi di interesse sono ridotti al minino, quasi a zero. I bilanci delle banche scontano l’esplosione dei crediti insoluti, che hanno generato una perdita di 195 miliardi di euro nel decennio 2011-19. La crescita dei depositi ha costretto all’aumento delle riserve obbligatorie presso la Banca centrale europea per 257 miliardi di euro, con un costo pari dello 0,50% pari all’aggio dovuto alla Bce che tiene il conto ed ha l’obiettivo di favorire l’impiego produttivo dei capitali disponibili anziché le giacenze nei depositi.
Per fare utili, le banche cercano di invogliare i clienti verso i settori più disparati, quelli che generano commissioni e ingrassano i loro bilanci. E’ un punto sul quale porre attenzione.
Già vent’anni fa, ai tempi del crack della Lehman Brothers, i portafogli dei risparmiatori erano gonfi di derivati e altri titoli spazzatura. La crisi che seguì gettò nella disperazione famiglie in ogni angolo del mondo.
La massa dei derivati attualmente in circolazione, secondo la stima della BRI (la Banca dei regolamenti internazionali), è nell’ordine di 640.000 miliardi di dollari. Per avere un’idea del suo impatto gigantesco sulla finanza globale basta raffrontarla al prodotto lordo mondiale che si aggira intorno a 85.000 miliardi, e al totale di tutti i debiti statali che raggiungono i 280 mila miliardi. Tradotto in parole povere, significa che tutti i popoli del mondo devono lavorare 7 anni e mezzo per avvicinare quella cifra, o, ancora che tutto il mondo deve più che raddoppiare i suoi debiti per mettersi alla pari.
A qualcuno quei titoli devono comunque essere affibbiati.
I tassi di interesse negativi spingono i capitali a cercare strumenti alternativi di rendimento, caricandosi sulle spalle rischi crescenti. Molti operatori, in presenza di un mercato globale che non offre altre opportunità di guadagno (circolano titoli a rendimento negativo per 13.500 miliardi di dollari), si buttano sui derivati. Ma, quando si chiudono le partite, è il solito parco buoi a pagare il conto.
L’eccesso di liquidità del sistema finanziario internazionale genera una politica di soldi facili che tuttavia non si traduce in un flusso aggiuntivo di investimenti da parte delle imprese e in un rilancio diffuso dell’economia. In questo frangente, lo stimolo alla ripresa del sistema produttivo non passa per la politica monetaria, viene meno l’utilizzo di un’arma classica della politica economica e, con esso, il ruolo stesso delle banche centrali che hanno sempre agito giostrando con i tassi e il volume del credito.
Il massiccio intervento della Bce, sulla spinta dell’allora governatore Mario Draghi, è stato essenziale per tamponare la crisi finanziaria e impedire la dissolvenza della moneta comune. Ma per il rilancio vero e proprio dei sistemi economici nazionali si sono resi necessari passi successivi, individuati nel Recovery plan e nel Next Generation UE, che riporteranno le leve del comando dell’economia nelle mani dirette dei governi.
Nel prossimo futuro, sarà la politica di bilancio a menare la danza, attraverso svariati interventi di sostegno, principalmente con il ricorso alla leva fiscale che potrà e dovrà essere utilizzata in funzione anticiclica. In Italia, qualora venisse attivato concretamente, questo strumento avrebbe effetti determinanti, riducendo a livelli più sopportabili una pressione fiscale che ha raggiunto il 52 per cento del reddito. Si avranno effetti negativi sul livello del debito, ma – per dirla con Draghi – “c’è debito e debito”, e quello fatto per dar fiato all’economia sarebbe salutare.
Nella stessa direzione va la decontribuzione per il Sud degli oneri Inps, in vigore dall’inizio dell’anno. Ma, da sola non basta a portare il Mezzogiorno a livelli economicamente decenti. Visto che ci sono tanti soldi nei depositi e le banche stentano a trasformarli in impieghi produttivi, una spinta in questo senso per una politica di investimenti oculati diretti al Sud risulterebbe vantaggiosa per l’intero sistema Italia.
Qui si entra nella politica economica tout court, su cui il presidente del consiglio in carica, Mario Draghi, con il governo da lui scelto, non ha bisogno di suggerimenti.
Da ultimo, una notizia positiva riguarda le previsioni del Pil che, per l’Italia, dovrebbe attestarsi attorno al 4,5 per cento per l’anno in corso e il 3,5 nel prossimo. Un livello ancora lontano dal periodo precrisi, purtuttavia un passo incoraggiante.
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