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Europa e Italia ai tempi del Coronavirus

Poco più di tre settimane fa, il coronavirus era scoppiato a Codogno. Di qui la necessità di un intervento economico per fronteggiare la crisi. Si parlò all’inizio di 3/4 miliardi; poi di 7/8. Cifre del tutto inadeguate, come sarebbe apparso poco dopo (oggi siamo arrivati a 25); anche perché buttate lì avendo ben chiaro che l’ulteriore sforamento del deficit concordato con Bruxelles dovesse essere oggetto di un ulteriore negoziato.

La risposta fu positiva ma, come dire, irta di riserve mentali. Bene lo scomputo; ma doveva essere chiaro che si trattava di un provvedimento “una tantum”; e soprattutto che lo scomputo riguardava il deficit ma non il debito. Insomma, una maggiore libertà di movimento, ma sempre di libertà vigilata si trattava. In un contesto in cui l’elevato debito rimaneva testimonianza di una sorta di peccato originale.

Ad accrescere la nostra frustrazione l’esplosione del contagio e la assoluta mancanza di solidarietà dimostrata dall’Europa. Di più, ancora, lo stato di quarantena vissuto dal nostro paese e dai suoi cittadini, anche quando l’epidemia si era estesa ad altri paesi d’Europa (tanto per capire i termini della questione, la Francia ha raggiunto oggi i nostri livelli di dieci giorni fa); quasi a farci capire che l’esplosione del contagio fosse legata a una nostra particolare colpa collettiva. Troppo aperti e in certe specifiche direzioni; troppo confusi e contraddittori nelle nostre misure di contenimento, prima troppo lasche, poi, magari, eccessive. Insomma, troppo italiani. Ad elogiarci solo l’OMS; “ma quante divisioni ha l’OMS“?

Infine la Lagarde: con l’esplicito abbandono della linea di Draghi e l’apparentemente sprezzante rifiuto di occuparsi dello spread. Per noi una specie di scritta sul muro; per lei, magari, una bazzecola. Indignazione al culmine.

Coronavirus Italia ed Europa

Ma forse avremmo fatto meglio a leggere il testo della sua dichiarazione. Se l’avessimo fatto ci saremmo accorti che era, né più né meno, una dichiarazione di fallimento. E non solo nel segno della attuale totale irrilevanza delle politiche (acquisto di titoli e di stato e riduzione dei tassi d’interesse) di sostegno praticate negli ultimi anni. Ma anche perché restituiva formalmente agli stati, alla loro politica di investimenti e di rilancio della spesa pubblica e della domanda interna, la responsabilità primaria alla devastante crisi del processo di globalizzazione. Era l’annuncio formale non solo e non tanto della fine dell’ordoliberismo (già in crisi per diversi motivi) ma della politica di austerità.

Un messaggio che era stato recepito ancor prima di essere lanciato. E un po’ in tutta Europa. E qui ai nostri 25 miliardi (l’1.5% del Pil) corrisponde una cifra analoga, se non leggermente superiore, da parte francese; che si aggiunge a quella, sempre della stessa entità, stanziata all’indomani della protesta dei gilet gialli. Il che porterà il debito pubblico di Parigi a superare il 100% del Pil; una barriera simbolica che ci si era sempre impegnati a non superare.

Anche la virtuosissima Germania comincia a cedere. Al punto di prendere in seria considerazione la rimessa in discussione lo stesso principio del “zero deficit”, simbolo della virtù che dico della moralità economica della Germania; per inciso un peccato grave ma che Berlino si potrebbe tranquillamente permettere.

L’Inghilterra della Brexit va molto oltre. Duecento miliardi di sterline di spese supplementari nei prossimi 5 anni, per lo più destinati ad investimenti in grandi infrastrutture. Il livello più alto dal 1955 a parità di prezzi; tre volte la media degli ultimi quarant’anni.

In tutto questo, attenzione, non c’è alcun particolare riferimento all’emergenza coronavirus. E nemmeno ai rapporti con l’Europa. Per Boris Johnson la prima è un’influenza come un’altra: “moriranno i vostri cari”, certo, ma questa è la vita; e, per il resto, “business as usual” (ivi compresa la famigerata partita tra Liverpool e Atletico Madrid). Mentre l’Europa, con i suoi vincoli e le sue molteplici tutele, è un mondo da cui separarsi nel modo più netto; per veleggiare liberi e senza regole nel mondo globalizzato.

E’, se volete, la versione europea e soft del trumpismo. Anche per The Donald la malattia è una comune influenza; mentre il contagio, se non c’è, è inventato dai democratici; mentre, se c’è, è alimentato dal nemico esterno. Cinesi in primo luogo (questa a Pechino se la sono segnata al dito); ma anche europei, italiani, migranti e chi più ne ha più ne metta.

Il mondo anglosassone che pensa all’economia e quello europeo che si preoccupa della salute? In realtà non c’è una separazione netta tra le due posizioni ma mille sfumature intermedie (qui la Germania che sembra ancora affrontare serenamente lo scoppio della pandemia e non brilla, almeno per ora, per solidarietà è un po’ a metà strada tra Stati uniti e Italia). E, soprattutto, si sta avvicinando per tutti il momento della verità: quello in cui la pandemia si diffonderà, più o meno in eguale misura, nei due lati dell’Atlantico.

Ma qui dovremmo fermarci tutti. Per una riflessione collettiva.

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Alberto Benzoni

Ha lavorato all’Iri dal 1958 al 1996, per oltre trent’anni all’Ufficio studi e poi a quello Internazionale. Iscritto al Psi dal 1957 al 2013. Viceresponsabile del settore esteri dal 1987 al 1992. Consigliere comunale di Roma dal 1971 al 1985, vicesindaco dal 1976 al 1981 nella giunta di sinistra di Argan e poi di Petroselli. Collaboratore di «Avanti!» e di «Mondo Operaio», di «Ragioni del Socialismo» e di numerosi altri periodici di area. Autore di una storia del Partito socialista e, assieme ad altri, di La dimensione internazionale del socialismo italiano (Roma 1993). Ha scritto anche Il craxismo (Roma 1991) e, assieme a Luca Cefisi, Il pacifismo (Roma 1995). Autore infine, assieme alla figlia Elisa, di Attentato e rappresaglia. Il Pci e via Rasella (Venezia 1999), di Le vie dell’Italia (Milano 2009) e, infine, di La storia con i se (Venezia 2013).

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