La crisi del governo presieduto dal prof. Giuseppe Conte è stato oggetto sul nostro giornale di una rigorosa analisi di Mario Pacelli, di un puntuale articolo di Daniele Fichera e di un intervento di Gianluca Veronesi. A cui abbiamo aggiunto il link con l’osservatorio sulla comunicazione pubblica, il public branding e la trasformazione digitale dell’Università IULM di Milano, dipartimento Business, Diritto, Economia e Consumi, diretto da Stefano Rolando per leggere la rassegna di trenta commenti della stampa italiana per una analisi del “dibattito pubblico” sui cambiamenti delle politiche pubbliche.
Non è quindi necessario tornare sull’argomento, mentre può essere utile richiamare l’attenzione sulle conclusioni a cui si è giunti.
Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha condotto la crisi di governo in modo da verificare la capacità del personale politico che guida le diverse formazioni di elaborare programmi e realizzare compromessi in modo da costruire accordi e formare una maggioranza di governo. Il risultato è stato negativo: nessun partito o movimento è stato in grado di assolvere a questo compito. È toccato al Capo dello Stato trovare la soluzione: l’incarico al prof. Mario Draghi di formare un governo senza identità politica. I partiti che avevano sostenuto il presidente Conte ma che sul suo nome non erano riusciti a ricostruire una maggioranza hanno subito aderito all’iniziativa di Mattarella e così Italia Viva e Berlusconi. La mossa di Salvini di dichiarare il sostegno della Lega al tentativo Draghi ha sparigliato il campo: ha legittimato la Lega nel campo delle forze di maggioranza consentendogli di occupare il posto da cui gestire il Recovery plan, e che potrà tornare utile quando arriverà la tanto annunciata ripresa. Quanto poi alla irreversibilità dell’euro e dell’europeismo, il leader della Lega ci ha abituati ai suoi cambi di stagione per cui non fa nemmeno notizia. Quello che conta è essere al posto giusto quando si tratterà il nome del successore di Sergio Mattarella.
Quanto all’altro Matteo è giustamente soddisfatto, non avrà il consenso degli elettori ma è difficile non riconoscere che con l’apertura della crisi del governo Conte ha reso un grande servizio al Paese spianando la strada all’arrivo del prof. Draghi.
Ora l’opinione pubblica si aspetta competenza, condivisione e soluzione dei problemi. Non è più tempo di pretestuose polemiche per ottenere presunti vantaggi elettorali, ne di interminabili talkshow fra virologi, giornalisti e saltimbanchi. La drammaticità della situazione in cui siamo immersi e la crisi di governo hanno messo in evidenza il fallimento di molta parte dell’informazione televisiva: una narrazione della politica tipo “Novella 2000” ha reso increduli i giornalisti davanti al silenzio di Draghi, abituati come sono a costruire mostri tipo Renzi o a schernire il Salvini del rosario per finire con ricostruzioni storiche in cui Draghi somiglia a Monti, forse a Ciampi e persino a Dini, una sorta di festival delle barzellette che non fanno ridere nessuno.
Finalmente è calato il silenzio. La portavoce di Mario Draghi, Paola Ansuini, dichiara: si parla solo se si ha qualcosa da dire e, a noi piace aggiungere, nelle sedi istituzionali e non nei salotti della tv, pubblica o privata che sia. E così è stato, il Presidente del Consiglio ha parlato al Senato e alla Camera dei deputati:
Fin qui il programma che il Presidente Draghi ha illustrato al Parlamento e che, con un duplice voto di fiducia, il Parlamento ha approvato. La domanda che viene da moti settori della nostra comunità è: riuscirà il governo a realizzare effettivamente queste riforme di cui si parla da decenni? Non bastano le buone intenzioni titola Norma Rangeri sul Manifesto. Per fare le riforme ci vogliono strumenti efficienti: una pubblica amministrazione in grado di svolgere i suoi compiti e non una amministrazione pubblica (commissari, autority, etc.) che crea soltanto confusione. L’esperienza delle vaccinazioni anticovid è la cartina di tornasole della inefficienza di una burocrazia statale e regionale senza guida politica e che tende a realizzare interessi corporativi e non dei cittadini. E se a questo fine la pubblica amministrazione va rinnovata, i partiti politici se ne devono assumere le responsabilità conseguenti in quanto l’articolo 49 della Costituzione affida loro il compito di essere il raccordo tra Stato e cittadini e non tra Stato e burocrazia o tra Stato e magistrati.
E qui casca l’asino, dice un vecchio detto popolare. La domanda è dove sono i partiti? Cosa fanno, cosa elaborano, quali progetti coltivano, che strategia hanno. Il terremoto Draghi ha fatto tremare il Partito democratico: certamente ritrovarsi al governo con i sovranisti non era nelle migliori intenzioni di Zingaretti, per non parlare dei grillini che volevano un governo Draghi ancorato al “perimetro della vecchia maggioranza e a quanto di buono fatto dal governo uscente” come da dichiarazione del cittadino Vito Crimi.
Il Pd si è annientato nel sostegno a Giuseppe Conte, in nome dell’alleanza con i grillini e dell’ipotesi di una Lista del presidente che sarebbe dovuta nascere per dar vita alla coalizione progressista, l’Alleanza per lo Sviluppo Sostenibile, che lo stesso Conte ha declamato dal tavolino di Largo Chigi. Purtroppo con Conte fuori dal Palazzo, la lista si è dissolta come neve al sole assieme all’intera strategia del Pd di Bettini e il destino di Conte, federatore alla Prodi per guidare il nuovo centrosinistra, è per ora archiviato. E così mentre Draghi presenta il suo governo alla Camera in Via del Nazareno si preparano le liste per il Congresso: se cade la segreteria Zingaretti, il Pd si potrebbe affidare a Stefano Bonaccini o Giorgio Gori dicono i bene informati.
Nel campo dei Cinquestelle, in attesa del prossimo editto di Beppe Grillo, si espellono i dissidenti e si fa la conta dei senatori e deputati che si dividono tra il Guevara de’noartri, in arte Alessandro Di Battista, e la corrente governista di Luigi Di Maio. Il «ci sono e ci sarò» del Conte defenestrato è un eco lontano.
A destra la politica sembra una catena di Sant’Antonio: Giorgia Meloni fa quello che ha sempre fatto, un’opposizione populista e ininfluente cercando di lucrare sulla posizione “responsabile” di Salvini che a sua volta punta a conquistare una posizione di centro e a prendersi i voti in libera uscita di Forza Italia che a sua volta prova a non farsi scappare l’occasione Draghi per liberarsi dalla morsa salviniana. Una nota a parte merita il duo Borghi e Bagnai costretti ad una performance da circo equestre: capriole, equilibrismi, travestimenti per riposizionarsi non sapendo più se indossare la felpa del leader o il doppiopetto di Giorgetti, e allora interviene Salvini, che memore delle sue passioni giovanili, risolve il dilemma lanciando la “Lega di lotta e di governo” sulle orme di Berlinguer che mentre faceva il compromesso storico con la DC minacciava l’occupazione delle fabbriche della Fiat.
Se questa è la situazione in cui versano partiti e movimenti del XXI secolo non c’è da stare allegri, sappiamo che la vitalità della democrazia si fonda sui partiti e quindi non possiamo abbandonare il campo. La rigenerazione del sistema politico passa attraverso una buona legge elettorale e la ripresa del confronto delle idee e delle ideologie. In questo contesto gli uomini di buona volontà che non condividono la scelta obbligata destra/sinistra possono darsi il compito di costruire una nuova formazione politica liberaldemocratica e riformista espressione di quell’area che oggi va da Renzi a Calenda, da Bonino ai verdi, dai socialisti a Bentivogli. Fra i tanti effetti positivi di una crisi che ci ha liberato di Conte e ci ha portato Draghi c’è la fine del populismo e dell’uno vale uno, e forse ci potrebbe essere anche l’esito straordinario di una èlite colta e capace a cui affidare il nostro futuro.
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