Leggi qui il primo articolo della serie “Dopo coronavirus come il dopo guerra“
Un altro grande cavallo di razza della Dc, che lascerà il segno nella ricostruzione è Amintore Fanfani. Miriam Mafai, nel libro “Il sorpasso” lo descrive così: <un democristiano, volitivo, ambizioso, bizzoso, iracondo, pignolo, dinamico fino alla nevrosi, che gli italiani conoscono da tempo e non amano>.
Infatti se c’è un uomo che tenta un poderosa sferzata alla Dc – un insieme di piccoli e grandi potentati che prosperano all’ombra della Chiesa e della clientela – quello è Fanfani. Con l’obiettivo di sottrarla <all’ipoteca di due poteri che fino allora ne avevano condizionato o determinato le scelte: liberarla dalla tutela soffocante e protettiva della Chiesa e dalla subordinazione, politica ed economica della Confindustria> (Mafai). Non ci riuscirà, almeno per intero. Si creerà antipatie e veri e propri nemici. Ma lui andrà sempre dritto per la sua strada, fino ad imporre al suo recalcitrante partito il primo governo di centro sinistra, con l’astensione dei socialisti di Nenni.
Prima di diventare segretario della Dc e presidente del Consiglio, nel 1947 è ministro del lavoro e inventa il piano Ina casa per i senza tetto. E’ il suo capolavoro, perché da una parte crea occupazione e dall’altra dà una casa a chi non ce l’ha. Con un iter parlamentare di soli 8 mesi (sorridiamo con mestizia se pensiamo ai tempi parlamentari di oggi ) il 7 luglio del 1949 prende il via il primo cantiere a Colleferro (Roma). Nel maggio dell’anno successivo ne sono già avviati 414. A pieno regime il piano realizzerà settimanalmente 2800 alloggi, assegnando ogni sette giorni la casa a 560 famiglie. Dal 1950 a tutto il 1962 i 20 mila cantieri del piano hanno impegnato 102 milioni di giornate lavorative, corrispondenti a 40 mila lavoratori edili l’anno.
Tanto fretta e tanto attivismo non è dovuto sol al carattere del “mezzo toscano” (aperta allusione dei suoi non proprio cari “amici” alla sua non notevole statura e alla sua nascita ad Arezzo), ma soprattutto ad una situazione abitativa disperata. Le case sono ancora macerie, ricordo delle devastazioni belliche. A Napoli – ci racconta Marco Innocenti nel suo libro “L’Italia del dopoguerra 1946-1960” – 13 mila persone vivono ancora nei rifugi. In Sicilia 22 mila famiglie nelle grotte e nelle baracche. Una indagine Doxa del 1951 ci informa che due famiglie su tre non hanno bagno e gas; una casa su 4 non ha l’acqua corrente. In più, con il riprendere dell’attività industriale, un fiume di gente si riversa dal Sud al Nord e verso la capitale. E così attorno alle grandi città si moltiplicano le baraccopoli. Gli affitti diventano sempre più alti e i profitti delle aree edificabili crescono in modo vertiginoso, insieme alla speculazione edilizia. Tra il 55 ed il 62 nelle grandi città del Nord salgono del 300 per cento.
Bisognava metterci le mani subito. Il piano Ina, tra l’altro, prevedeva il riscatto dell’abitazione, ovvero la possibilità di pagare un affitto, che era come la rata di un mutuo, e dopo svariati anni la casa in affitto diventava l’agognata casa di proprietà. Una trovata geniale che ha fatto la fortuna del programma fanfaniano ed ha contribuito moltissimo al consenso politico del “mezzo toscano”.
Certo, c’è stato il rovescio della medaglia. Le case nascono a ripetizione, ma nessuno si cura del decoro urbano, della logistica, della razionalità urbana <il miracolo economico vede partire per prima l’edilizia, che con le opere pubbliche e gli edifici residenziali, cambia la faccia delle principali città> ammonisce Marta Boneschi in “Poveri ma belli, i nostri anni 50”. E noi aggiungiamo in peggio.
Però il processo dell’economia continua impetuoso. <Nessuno pensava – scrive Castronovo – che nel giro di pochi anni si sarebbe manifestato un così poderoso processo di sviluppo>. La produzione industriale tra il 1955 e il 1962 cresce dal 9 al 12 per cento. Il prodotto interno lordo nel 1958 sale del 6,6 e la bilancia dei pagamenti raggiunge addirittura un saldo attivo. Anche per gli italiani le cose vanno meglio. Il reddito tra il 1945 e il 1960 è quadruplicato e i consumi triplicati. Tanto per dirne una, nel 1959 le famiglie che avevano un frigorifero erano il 13 per cento. Nel 1963 il 55.
La Dc (che si considerava a tutti gli effetti partito-Stato) si trova nella necessità di governare questo sviluppo che cresce disordinato e che rende gli industriali, soprattutto quelli delle grandi industrie, sempre più potenti. Bisogna tenerseli buoni senza esserne succube. Si tratta di svincolarla dalla posizione <di un sovrano preassolutista – le parole sono di Fanfani, riportate da Castronovo – prigioniero dei suoi feudatari> , ovvero i grandi gruppi privati. E allo stesso tempo, bisogna tenere sotto controllo e indirizzare quelli pubblici (di cui parleremo successivamente), anche loro diventati giganteschi fautori del miracolo economico. In sostanza, si tratta di trovare una condivisione per aumentare la produttività delle aziende e il benessere economico della popolazione.
Sul piano politico, il clima è cambiato. L’elezione di Giovanni XXIII segna un minore interventismo della Santa Sede nelle vicende politiche italiane. La caduta del governo Tambroni, sostenuto dal Msi, a seguito della rivolta di Genova (e degli incidenti nel resto dell’Italia) non permette la formazione di una nuova maggioranza con l’appoggio dei partiti di destra: gli scontri in piazza stavano lì a dimostrare che gli italiani non lo vogliono proprio.
I socialisti, da parte loro, dopo la dura repressione dell’Urss in Ungheria e la conseguente approvazione del Pci, hanno cominciato un progressivo allontanamento ideologico dai comunisti e si orientano sempre di più verso una strategia riformista.
Infine, sul piano internazionale, con Kennedy presidente degli Stati Uniti, si crea un certo clima di distensione.
Insomma, le condizioni c’erano tutte per un allargamento della compagine governativa a nuove forze. I socialisti, appunto. Fanfani, sempre pronto a cogliere l’aria che tira e allettato dall’idea di passare alla storia, prende al volo l’occasione e nel febbraio del 1962 vara un governo con l’astensione del Psi di Nenni . E’ il primo di centro sinistra, cosiddetto imperfetto. A portare alla luce quello “organico” ci penserà il primo governo Moro.
L’esperimento di Fanfani dura poco, finisce nel giugno 1963, ma lascia il segno. E lo lascia con una rapidità e una consequenzialità che oggi fanno impressione. Marzo 1962: aumentano del 30 per cento le pensioni medie; aprile ’62: via la censura sulle opere liriche e di prosa (ma rimane quella sui film e sulla televisione); luglio ’62: avvio dell’esproprio delle terre ai comuni per far partire un’imponente opera di urbanizzazione; novembre ’62: nazionalizzazione dell’energia elettrica; dicembre ’62: nasce la scuola media unica e viene elevato l’obbligo scolastico a 14 anni; dicembre ’62: cedolare d’acconto , ovvero una imposta sugli utili derivanti da attività finanziarie; febbraio ’63: la leva militare passa da 18 a 15 mesi.
Quasi si rimane senza fiato. Nel governo Fanfani non ci sono ministri socialisti, ma una (oggi) impressionante sequela di leggi progressiste. Del resto, l’idea di fondo di Nenni era quella di attuare una politica di programmazione che individuasse obiettivi di interesse collettivo.
E’ conscio che nel suo partito ci sono molti mal di pancia davanti all’ipotesi di entrare nel governo. Ma lui è convinto che è necessario creare spazi d’azione per la classe operaia attraverso le riforme. E paga caro questo suo convincimento. Quando entra concretamente nel governo – dicembre 63, presidente del consiglio Moro – lui è vicepresidente e Giolitti ministro del Bilancio. Ma il Psi si spacca e nasce il nuovo partito socialista italiano di unità proletaria (Psiup), più allettato dalla alleanza con il Pci.
Il governo Moro dura solo 7 mesi. Troppe le differenze tra i due schieramenti, troppe le tensioni, scontri continui tra i due ministri economici: Giolitti da una parte, Colombo (al Tesoro). In più un paventato colpo di Stato che fa dire al leader socialista di aver sentito: “il rumor di sciabole”. Non si può più stare insieme e nel Psi a Nenni sarà rinfacciato anche questo.
Come si è detto, una parte del Psi continuava a preferire un rapporto privilegiato con il Pci, il cui leader indiscusso è Palmiro Togliatti. Negli anni di cui abbiamo appena parlato è all’opposizione. Ma nell’immediato dopoguerra il “Migliore” (così lo chiamavano) è ministro della giustizia.
Cinico, freddo, distaccato, per molti un obbediente esecutore di Stalin, Togliatti è però un uomo di coraggio. Nel 44 il governo Badoglio si è trasferito a Salerno in attesa della liberazione di Roma e i partiti antifascisti vogliono l’abdicazione del Re, cosa di cui Vittorio Emanuele non vuole neanche sentir parlare (forte, tra l’altro dell’appoggio di Churchill). E’ Togliatti – da poco tornato da Mosca – a sbloccare la situazione chiamando all’unità tutte le forze antifasciste, di qualunque ispirazione politica, ideologica o religiosa, per liberare il paese dal dominio nazi-fascista. Monarchia o repubblica? Si sceglierà a guerra finita. Per adesso formiamo un governo con tutte le forze democratiche, Pci compreso. Il “Migliore” ha dalla sua l’appoggio di Stalin, non a caso l’Urss è il primo paese tra gli alleati a riconoscere il governo Badoglio. La sua mossa lascia sconcertati e scontenti non solo i comunisti ma anche gli altri partiti. Però dà i sui frutti. I partiti più decisamente ostili alla monarchia, come il Partito socialista e il Partito d’azione si allineano alla proposta di Togliatti, Vittorio Emanuele è costretto a lasciare la luogotenenza al figlio Umberto e accettare la formazione di un nuovo governo Badoglio con la presenza anche dei maggiori esponenti dei partiti del Cnl. Per la prima volta dopo il ventennio del fascismo, le forze politiche democratiche tornano alla guida del paese.
Da ministro della Giustizia nel 1946 firma l’amnistia < che evita la punizione a molti colpevoli, ma contribuisce a chiudere la guerra civile e i suoi strascichi violenti > (Aldo Cazzullo, “Giuro che non avrò più fame”). Amnistia che viene votata all’unanimità nel Parlamento, ma molto molto mal digerita dalla base comunista. Ci sono proteste e insurrezioni in diverse città quando i tribunali liberano i fascisti locali particolarmente odiati. Negli archivi personali di Togliatti si trovano decine di lettere e petizioni con cui ex partigiani e membri del partito protestano contro l’amnistia e minacciano addirittura di fare propaganda contro il Pci se non fosse stata ritirata. In fin dei conti, quella legge è voluta dal leader del partito che più di tutti era stato perseguitato dal fascismo e che più duramente aveva lottato contro il regime.
Cinico? Forse, ma il “Migliore” ha un piano preciso, quello di rafforzare la sua immagine di uomo politico responsabile, lontano dagli estremismi e pronto a trovare compromessi. Un modo per accreditare il Pci come una forza moderata inserita nell’arco costituzionale, desiderosa di iniziare un percorso di riconciliazione nazionale, con cui è possibile dialogare e soprattutto che può rimanere al governo. Deve anche convincere di tutto ciò gli Usa, i democristiani e il resto del governo.
Non funziona. L’anno dopo, su richiesta pressante di Truman, i comunisti vengono espulsi dal governo e non ci sarebbero più tornati (almeno non come Pci).
(segue)
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