Nessuno ne parla, ma in Umbria chi ha subìto una brutta sconfitta è la Chiesa. Proprio lì dove regna il cardinale Gualtiero Bussetti, arcivescovo di Perugia, presidente della Conferenza episcopale, voce tonante contro i sovranisti, proprio lì, terra di umili francescani e di marce per la pace, proprio lì gli elettori cattolici hanno tradito o sono diventati irrilevanti.
In Vaticano non se ne capacitano. Sognano da tempo di recuperare il voto cattolico e convogliarlo verso un partito moderato di centro. La nostalgia per la vecchia Dc è sempre viva. Ci hanno provato in tanti a rimetterla al centro del mondo politico. Ma non ci sono più le condizioni per un partito di massa con un’anima cattolica. Eppure c’è chi non si rassegna. Stefano Zamagni, capo della Pontificia Accademia di scienze sociali e consigliere di papa Bergoglio, ha lanciato nei giorni scorsi un Manifesto con cui spera di gettare le basi su cui far crescere un vero partito cattolico. Fino a qualche settimana fa, prima delle difficoltà in cui oggi si dibatte, in Vaticano c’era chi pensava di affidare la rinascita a Giuseppe Conte, l’uomo con l’immagine di Padre Pio nella tasca della giacca.
Forse Zamagni si immagina come il nuovo Luigi Gedda che si vantò di essere “l’artefice della sconfitta del Fronte popolare”. Ma a quei tempi i preti raccomandavano di votare per “un partito che sia democratico e anche cristiano”, e gli elettori seguivano i consigli sia per convinzione che per interesse.
Le cose sono cambiate con il Concilio Vaticano indetto da Giovanni XXIII. Fu una svolta epocale. La Chiesa si apriva alla società civile. La religione cattolica non era più una questione fra credenti, ma un’avventura umana da vivere come fratelli anche con chi era privo della fede o dava il proprio voto a partiti considerati in precedenza esecrabili. In altre parole, il voto alla Dc non era più necessariamente un dovere per i cattolici, dato che stava maturando un’attenzione e un riguardo particolari della Chiesa nei confronti di un altro partito impegnato in campo sociale, quel Pci considerato al tempo di Pio XII come emanazione del diavolo.
Fu proprio Giovanni XXIII, il “papa buono”, ad aprire le braccia ai marxisti. “Abbiamo altro da fare – disse – che tirare pietre ai comunisti”. Da quel momento i preti si mescolano alla gente comune, ai sindacalisti, agli operai. Più che curare le anime, si occupano delle miserie terrene.
Si potrebbe discutere a lungo sull’opportunità di questa svolta della Chiesa, ma in realtà fu una scelta quasi obbligata. Era stata la politica a renderla necessaria. La politica aveva scoperto i diritti civili, la difesa della dignità dell’individuo. La Chiesa si era vista sottrarre i suoi temi tradizionali e aveva reagito mettendosi in concorrenza con la politica. Questa tendenza si è enormemente accentuata con l’attuale papa, un gesuita che, come massima ipocrisia, ha scelto di chiamarsi Francesco.
Papa Bergoglio ha vissuto il peronismo ed è imbevuto dei principi della teologia della liberazione. Ha messo da parte l’aspetto spirituale della religione e non parla mai di metafisica e di argomenti trascendentali. Si preoccupa dei problemi che l’uomo deve affrontare durante il suo cammino terreno. E si affida a personaggi della gerarchia ecclesiastica con cui è in sintonia, come l’arcivescovo di Perugia Bussetti, la cui strategia si sta però rivelando perdente sul piano politico. Mentre si levano voci di dissenso. Il cardinale Gerhard Müller, in un’intervista al Corriere della Sera, dice che “la Chiesa sbaglia a occuparsi troppo di politica”.
I fedeli ne sono disorientati. E chi cercava nella religione una cura per la propria anima va a infoltire il numero di coloro che trovano conforto in un credo più vicino alle proprie aspettative. Al punto che nel nostro Paese stanno facendo proseliti perfino i mormoni, seguaci di una religione fondata da un mascalzone, ma i cui capi possono permettersi di proclamare che oggi sono loro, non la Chiesa cattolica, i rappresentanti della vera religione cristiana.
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