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Viaggio in una terapia intensiva covid-19: intervista a Martina Benedetti

Un bilancio difficile da accettare quello che ogni giorno ci racconta di decessi e contagi avvenuti in seguito a contaminazione da coronavirus in Italia. Il 27 marzo, il giorno più nero dall’inizio dell’epidemia in cui hanno perso la vita 969 persone, la Protezione Civile ci ha riferito di ben 9.134 decedute e 86.498 contagiate. Un bollettino che solo qualche mese fa sarebbe stato probabilmente inimmaginabile anche per virologi ed esperti del settore.

In campo, in prima linea nella dura lotta quotidiana per salvare vite umane, il personale sanitario che ha già contato ben 51 medici deceduti. Tra la popolazione pare ci sia ancora chi trova difficile capire la necessità di rimanere a chiuso in casa, di rispettare le prescrizioni fornite da Protezione civile, Governo e comunità scientifica. Martina Benedetti giovane infermiera impiegata presso il Noa di Massa, volto ormai noto ai più per aver postato una foto del suo viso segnato dalle interminabili ore di lavoro in terapia intensiva Covid-19 indossando particolari dispositivi di sicurezza, ci racconta in questa intervista cosa significhi stare tutto il giorno in un reparto Covid-19 e come la sua vita è cambiata in seguito al diffondersi della nuova emergenza. Un piccolo scorcio di quello che devono affrontare coloro che il popolo definisce “nuovi eroi”.

Martina come avete affrontato questa nuova emergenza voi sanitari?

L’emergenza ci ha creato molta preoccupazione. Già prima della pandemia eravamo a livello nazionale sotto organico di decine di migliaia di unità infermieristiche e mediche. Negli ultimi anni molti reparti e strutture ospedaliere sono stati chiusi e anche gli investimenti sulle attività di ricerca scientifica sono stati nettamente inferiori alla necessità. Trovarsi a curare i primi pazienti ammalati è stato un attimo, ci siamo trovati catapultati in questa situazione senza rendercene nemmeno conto. Mai avrei pensato di trovarmi a far fronte ad una pandemia. L’inizio della diffusione del Covid-19 ha segnato la fase più delicata del nostro lavoro, non avevamo ancora chiari quali fossero i dispositivi di protezione individuale da indossare. I primi giorni è stata veramente dura. Ora abbiamo preso un ritmo di lavoro che è faticoso ma abbiamo più o meno delle linee guida da seguire.

Come è stato l’approccio con la nuova peste? C’è stata una formazione sui protocolli da applicare?

Come dicevo è stato tutto molto rapido. La formazione c’è stata ma le informazioni a proposito del virus cambiavano di giorno in giorno, quindi è stato difficile stendere dei protocolli definitivi che avessero una valenza persistente nel tempo. I cambiamenti sono stati numerosi e ci siamo dovuti tempestivamente adattare alle situazioni. Nei reparti di medicina d’urgenza, pronto soccorso e terapia intensiva, trattiamo quotidianamente urgenze ed emergenze sulla base di protocolli ben precisi. Nel caso del coronavirus invece impariamo sul campo giorno per giorno cose sempre nuove. Tutto questo ci ha sconvolto e abbiamo decisamente faticato ad affrontare il “New setting Covid-19”.

Quali sono le difficoltà che incontri quotidianamente in questa nuova esperienza?

Appena arrivo in ospedale i primi problemi sono sicuramente la vestizione e la scelta del percorso in cui prepararsi che non deve essere contaminato. La vestizione prevede vari dispositivi, occhialini, mascherina, visiera, tre paia di guanti e un tutone da portare per molte ore. Avendo a disposizione materiale limitato possiamo permetterci solo un cambio, quindi usciamo dalla terapia intensiva e in mezz’ora dobbiamo concentrare tutte le nostre necessità. Abbiamo una carenza importante di personale medico e infermieristico formato, non abbiamo bisogno di nuove leve senza esperienza da mandare in trincea, perché nonostante l’impegno non riescono a garantire gli standard di qualità assistenziale richiesti dalla situazione. I reparti si stanno ampliando e sicuramente ci vuole più personale, ma la qualità della terapia intensiva è misurata sul lavoro dello staff che deve essere già formato.

Martina Benedetti

La tua vita è cambiata da quando lavori nel nuovo reparto?

Sì, anche nelle piccole cose. Ho dovuto necessariamente trasformare le mie abitudini in funzione del turno di lavoro. Ogni volta che entro nel reparto sto comunque in ansia, devo stare attenta a non contaminarmi, quindi a non toccarmi il viso o sistemarmi i capelli, gesti del tutto naturali che però possono risultare decisivi. I pazienti hanno bisogno di tantissima assistenza ed è necessario rimanere sempre concentrati. Quando rientro a casa sento tutta la stanchezza e spesso purtroppo dobbiamo rinunciare ai riposi perché c’è necessità di coprire i turni. Anche a livello morale sono profondamente cambiata, non riesco mai a staccare la testa da questa situazione, sono spaventata dall’idea di contaminare qualcuno a casa. La notte non riesco più a dormire e sento il panico addosso.  Qualche giorno fa ho saputo della mia collega che si è tolta la vita e sono cose veramente dure da leggere…. (silenzio ndr)

Le persone colpite da coronavirus in che stato sono durante il decorso della malattia?

Alcuni pazienti sono intubati e sedati, altri invece sono vigili assistiti da ventilazione non invasiva. L’assistenza di cui necessitano è molto diversa: i pazienti sedati richiedono competenze più che altro tecniche, mentre quelli svegli richiedono anche capacità relazionali. Purtroppo chi è ricoverato nel reparto Covid-19 deve stare in isolamento, una condizione che peggiora ulteriormente la degenza. Le famiglie sono informate telefonicamente e hanno anche un’assistenza psicologica telefonica, ma non possono assolutamente vedere il parente ricoverato.

Vuoi lanciare un messaggio a chi ancora non ha capito che non si tratta di una semplice influenza?

Sul Covid-19 c’è stata un po’ di confusione anche nella comunicazione. Spesso è passato il messaggio che i pazienti delle terapie intensive siano anziani che presentano un quadro clinico già compromesso, ma in realtà non è così. I giovani si sono sentiti in diritto di andare a prendere l’aperitivo o continuare ad uscire facendo una vita sociale intensa, ma se guardiamo al paziente uno ci rendiamo conto che era un uomo di 38 anni super sportivo. Solo questo dovrebbe fare riflettere, ma bisognerebbe anche essere meno egoisti e pensare a tutti soprattutto ai più deboli.

Come vivi questo entusiasmo da parte della società per i sanitari indicati come nuovi eroi del secolo?

Un pochino mi fa arrabbiare perché mentre il medico ha sempre goduto di un certo trattamento sia a livello economico che sociale, noi infermieri siamo stati sempre un po’ sottovalutati sotto ogni punto di vista. Siamo professionisti, lavoriamo secondo criteri scientifici e ci relazioniamo quotidianamente con il paziente anche dal punto di vista umano. In questo momento stiamo ricevendo moltissima solidarietà e anche attenzione da parte dei media, ma non è stato sempre così, anzi. Spero che questo sia un punto di partenza per cambiare un po’ la considerazione nei confronti della nostra categoria sia lavorativa che sociale.

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Veronica Ruggiero

Giornalista, collaboratrice presso il Gruppo Corriere.

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