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La via strettissima dell’ipotesi Calenda per Roma

Giuliano Ferrara[1] parte da un dato di buon senso: “Calenda è perfetto per diventare sindaco di Roma”.  E arriva a evocare un incubo: “ci attende come un destino cinico e baro il sindaco Gilletti, un Trump all’amatriciana”.

In questa forbice sta tutto il bazaar del punto di caduta capitolina della politica italiana.

Dal tramonto della prima Repubblica al “mondo di mezzo” di Mafia-capitale.

Dal dibattito degli urbanisti alla regia del “bibitaro” (altro glossario di Ferrara).

Dalla corte ai cattolici di Rutelli e Veltroni per rendere compatibile il centrosinistra col Vaticano all’improvvisazione vacua e pignola della sindaca Raggi per rendere compatibili i “grillini de noantri” con i raggiri della burocrazia municipale.

Una spugna che ha prosciugato per intero il ruolo capitale di Roma, lasciando l’Urbe a fronteggiare la sua immagine planetaria senza una classe dirigente, senza un progetto identitario, senza una visione competitiva, senza un piano di investimenti per sostenere prima l’invecchiamento infrastrutturale poi la rigenerazione dalla stasi per pandemia.

Così che oggi il progetto possibile per la capitale non è più affidato alla politica. Ma a un patto che nessuno sa pensare, proporre e stringere tra un’Amministrazione screditata, un sistema di impresa che ha abdicato (tolti alcuni rami palazzinari sempre borderline con l’etica degli affari), un quadro di “saperi” confinati nel puro galleggiamento degli atenei e nell’ultima raffica di professionisti che svuotano il barile riciclando rimasugli progettuali degli anni ’90.

Quel patto non c’è perché non sono in campo i soggetti contraenti. Ferrara non è stupido e non indossa i panni di un De Rita inguaribile che sogna ancora un’estrema alleanza per lo sviluppo che assicuri all’Italia un baricentro e assicuri a Roma un economia per drenare i suoi giovani migliori.

Ferrara punta sulla mossa del cavallo della politica, si affida al gioco di spariglio minoritario annunciato (anzi pre-ipotizzato) da Carlo Calenda, sapendo che il rischio di sciogliere l’effetto annuncio nel flop di una provocazione è elevato e quindi alzando il suo esile muro a difesa del progetto “sensato” mostrando il rischio dell’estrema deriva populista che porterebbe Roma dove nemmeno De Magistris ha portato Napoli.

Noi leggiamo solo i giornali. Talvolta ascoltiamo qualche vecchio analista che ci capisce. Qualche volta ascoltiamo chi sa leggere i dati strutturali per capire i margini di manovra. Ma lo splendore creativo del nulla che ha travolto Roma da Ignazio Marino in poi fatichiamo a metterlo in campo come un fattore razionale. Rischiando di non curare il peggioramento grottesco che Ferrara intravede ma che ci sembra un tale eccesso di autolesionismo da non immaginare che lo scaltro e persino un po’ cinico “populus” (una volta sodale con il “senatus”) possa perpetuare ancora per molto il proprio danno. 

Ciò detto il territorio della provocazione è davanti agli occhi di tutti. Calenda forzerebbe il Pd a non tenere in vita a Roma – come fosse un’isola – il patto di governo con i 5 Stelle per manifesto fallimento della gestione precedente, imboccando la scelta di un secondo forno che potrebbe portare l’area centrista ovvero liberaldemocratica a fare un accordo che, se fosse per i tre leader i campo (Calenda+Richetti, Renzi+Boschi, Bonino+Magi), non arriverebbe forse mai in porto. Anche se la pazienza di tessitura di Benedetto Della Vedova potrebbe conseguire qualche esito.

Il Messaggero oggi (14 ottobre) intitola in prima pagina “L’ipotesi Calenda si fa strada”.

Se prevalesse la velocità del gioco a sorpresa questo schema potrebbe anche scodellare un 8-10 % agli occhi del Pd per tentare di arrivare al ballottaggio e vincere poi per manifesta superiorità comunicativa. Perché il progetto riesca, il terzetto dei centristi dovrebbe essere accorto e furbo come una volpe. Calenda dovrebbe essere pacato e generoso come mai. Zingaretti dovrebbe essere portato a braccetto da tutt’altri consiglieri rispetto a quelli che lo circondano. Bettini dovrebbe andare a passare le acque a lungo in Veneto. 5Stelle dovrebbe fare karakiri con i fiocchi e mettere in campo un pugilato emblematico tra Il Che in sedicesimo e il Kikazzè al quadrato (cioè Di Battista e Di Maio) portando ad estenuazione il voto grillino in capo ad una testarda candidata che si chiama Virginia Raggi che sistemerebbe la quota del radicamento dei Cinque Stelle attorno al 6%.  Insomma è uno scenario in cui non vedremmo più il solito film pasticciato sulla politica romana. Ma una deriva senza ciambelle di salvataggio in cui tutti gli attori perdono la bussola. E alla fine del cui girone di mattane, Calenda dovrebbe imporsi per uno sberleffo, come fosse un patto segreto tra il Pasquino e Garibaldi contro Pio IX.

Vista la corsa a ostacoli, gira dunque l’idea che Calenda giochi “alla pugliese”, cioè a perdere la partita ma ad ampliare – grazie alla potente visibilità della sfida – la sua base elettorale. E forse anche la base elettorale lib-lab, che resta comunque un interesse dell’Italia, per fare cuneo nel rischio della spirale populista Pd-5Stelle, che – come scrive Angelo Panebianco – “tutte le volte che Il Movimento ha definito non negoziabile una scelta l’ha sempre spuntata[2]. Dunque è interesse dell’Italia una pressione laica sul Pd per stare nella carreggiata della democrazia liberale e una pressione pragmatica su M5S per una comunque necessaria evoluzione del Movimento. 

La seconda pista (anche non alternativa) che l’ipotesi Calenda potrebbe sfruttare (sempre giocando sui tempi) è quella della società civile. Ovvero riacchiappare gli spunti di “civismo borghese” – per Roma comunque una novità – di qualche tempo fa dando loro quell’inquadramento che si legge nel suo libro “I Mostri[3] dove si propone con pari forza sia la ricostituzione del “capitale istituzionale” sia la ricostituzione del “capitale sociale e umano” centrato sulla grande modernizzazione del sistema educativo. Nello schema astratto c’è anche chi pensa al “riscatto valoriale” da parte del Pd per sparigliare a sinistra questo “pasticciaccio” che – come in qualche pregressa occasione – ha il nome di Fabrizio Barca. Che ad agosto ha dichiarato: “Inutile l’alleanza tra dem e 5S se serve solo alla sopravvivenza del ceto politico. Ora un patto per i giovani[4]. Ha costruito nel frattempo una piattaforma sulle disuguaglianze che non ha una fisionomia populista e che potrebbe anche tentare un’alleanza non del tutto minoritaria per ribaltare il ruolo della capitale da “modello da evitare” a “modello da additare”. In precedenza Barca si era scansato fiutando la mancanza di margini. Questa volta lo scenario potrebbe essere anche più sofferente.

Comunque, in questo momento sono tutte supposizioni che, appunto, hanno un tempo sorpresa che offre qualche spiraglio. Col passare dei giorni nel Pd aumenterebbero le barriere contro il transfuga, contro chi è politicamente posizionato “contro” usando i voti all’origine dell’elettorato del Pd e, nella sostanza, mettendo in campo gli argomenti che hanno già portato il Pd a sostenere il referendum sul taglio dei parlamentari per portare a casa il consolidamento di governo.

Io capisco che dobbiamo riempire i nostri giornali con storie seducenti. Su questa vicenda – in cui Giampaolo Sodano mi spinge a dire un’opinione – dico solo che se chi è in grado di disegnare una mappa del rapporto tra domanda e offerta di politica a Roma che tenga insieme forze magari residuali ma con un briciolo di dedizione e competenza non trova una quadra e una squadra, crescerà il tam tam per evitare il “sacco” dei barbari, intesi come il centrodestra a traino Meloni (tendenzialmente maggioritario), spingendo a collocare la partita del Campidoglio come un affare di governo e di legislatura. E rimettendo in pista un derby classico: destra contro sinistra. Magari umiliando l’autonomia della capitale e commissariando la sua gestione vincolandola ad una mostruosa somma di denaro prodotta (Franceschini-Gualtieri) dal Recovery Fund. Non è detto che si arrivi all’incubo evocato da Giuliano Ferrara, fermando magari la scelta su una figura in partita, magari con discreta popolarità. In tal caso l’effetto combinato Roma città, Roma capitale (a cui potrebbe sommarsi la tentazione di Sala per allineare Milano a questo schema) aprirebbe le porte all’avvio della “terza Repubblica” e all’inizio della lunga marcia nettamente alternativa delle residue forze liberaldemocratiche, in attesa di un nuovo ciclo che si preannuncia sideralmente lontano.

Ieri sera il Pd romano ha preso tempo, confermando la scelta delle primarie.


[1] Giuliano Ferrara, Il passo di Calenda per evitare il metodo Gilletti, Il Foglio, 12.ottobre 2020.

[2] Angelo Panebianco, L’avversione dei 5Stelle al MES. Quanto pesa l’identità, Corriere della Sera 13 ottobre 2020.

[3] Carlo Calenda, I Mostri e come sconfiggerli, Feltrinelli, luglio 2020

[4] Fabrizio Barca: “Il Pd è stordito e manca il rinnovamento. A Roma serve un civico“, Repubblica, 26 agosto 2020.

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Stefano Rolando

Stefano Rolando è nato a Milano nel 1948, dove si è laureato in Scienze Politiche e specializzato alla Scuola di direzione aziendale della Bocconi. Tra vita e lavoro si è da sempre articolato tra Milano e Roma. E' professore universitario, di ruolo dal 2001 all’Università IULM di Milano dopo essere stato dirigente alla Rai e all'Olivetti; direttore generale dell'Istituto Luce, alla Presidenza del Consiglio dei Ministri e del Consiglio Regionale della Lombardia. Insegna Comunicazione pubblica e politica e Public Branding. Ha scritto molti libri sia su media e comunicazione che di storia, politica e questioni identitarie. Da giovanissimo è stato segretario dei giovani repubblicani a Milano, poi ha partecipato al nuovo corso socialista tra anni settanta e ottanta. Poi a lungo non appartenente. Più di recente ha lavorato sul civismo progressista (Milano e Lombardia) e su un progetto politico post-azionista in relazione al quale è parte della direzione nazionale di Più Europa.

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