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L’etica del capitalismo e gli Zuavi pontifici

In questi giorni a Roma il caldo si fa sentire, come del resto un po’ in tutta Italia. Cinema chiusi, teatri altrettanto, riunioni tra amici con il Coronavirus incombente che esige molte cautele, schermi televisivi straripanti di vecchi film visti mille volte o di trasmissioni chiaramente intese a sollevare le sorti di molti lavoratori dello spettacolo riamasti disoccupati in seguito alla pandemia: non c’è da stare allegri.

La soluzione può essere la lettura di un libro interessante, di quelli magari letti molti anni fa ed ormai introvabili in libreria: una visita ad un antiquario (vicino alla mia casa ce ne è uno dei pochi superstiti) può essere un piacevole diversivo. Con pochi euro si trascorre la serata.

Alcune sere fa mi è capitato, ad esempio, di trovare una copia in discrete condizioni di un libro “L’etica protestante e lo spirito del capitalismo” di Max Weber, che avevo letto, quando giovane studente, tentavo faticosamente di ampliare i ristretti limiti delle cognizioni scolastiche utilizzando a questo scopo anche il denaro che mia madre mi dava con parsimonia per comprare i libri. A quei tempi (si era in pieno miracolo economico) il libro di Weber andava molto di moda nelle citazioni, forse più ancora che nella lettura. Non sono certamente pagine di facile lettura e confesso che in alcuni casi dovetti tornare indietro per seguire il filo di ciò che stavo leggendo. In estrema sintesi e per evitare di annoiare i lettori, secondo Weber, il successo è un segno della benevolenza divina: l’uomo che procede virtuosamente nel mondo complesso e non certo facile dell’economia, dell’industria e del commercio accumula ricchezze che danno lavoro ad altri uomini garantendo loro un salario sufficiente per vivere. Ciò è un segno che si tratta di persona che beneficia di benevolenza divina. Naturalmente deve conformarsi a precisi dettami etici: produrre ricchezza affinchè sia felice lui stesso e la società in cui vive possa beneficiare del suo successo: è l’etica del capitalismo, le cui radici profonde si ritrovano nel protestantesimo ed esattamente in Calvino, certamente il più rigido tra i teologi della riforma protestante.

Rileggendo il libro di Weber mi sono reso conto, a distanza di mezzo secolo (forse ho impiegato un po’ troppo tempo, ma ero pieno di altri e più concreti pensieri), di profondi errori che hanno pervaso il cosiddetto miracolo economico italiano e perchè questo abbia avuto una durata così limitato nel tempo.

Quando Weber pubblicò il suo libro era ancora pensabile che l’impresa fosse solo una macchina per produrre ricchezza e che essa non avesse implicazioni civili e sociali oltre quella di garantire un salario agli addetti. Negli anni 60 del secolo scorso era già una impostazione ideologica sconfitta, non solo dalle dittature europee dei decenni precedenti, che tendevano ad imporre una visione statalista della rivoluzione industriale ma dal sostanziale fallimento proprio di quella etica (o pseudo tale) che aveva favorito per contraccolpo la nascita di quelle dittature. Per quanto riguarda l’Italia, un paese a stragrande maggioranza cattolica, parlare di un’etica capitalistica di stampo calvinista, in aperto contrasto rispetto al solidarismo cattolico delle encicliche papali dalla De Rerum Novarum (1891) alla Quadragesimo anno (1931) fine alla Gaudium et Spes (1965) assomigliava tanto al voler proporre Dracula alla presidenza dell’Associazione dei donatori di sangue. Chi volesse saperne di più può leggere l’interessante saggio di Stefano Zamagni, L’etica cattolica e lo spirito del capitalismo.

Sul piano strettamente giuridico a tagliar corto le dispute ideologiche, sociologiche e religiose, stava l’articolo 41 della Costituzione Repubblicana, che poneva e pone decisi limiti alla libertà di iniziativa privata oltre a sancire il principio della rilevanza sociale dell’impresa ed i diritti fondamentali della persona ed a tutelare la dignità del lavoro e dei lavoratori (art. 39 della Costituzione). Il significato di queste norme si comprende solo se si consultano i 16 volumi dell’inchiesta parlamentare sulla condizione dei lavoratori in Italia, pubblicati nel 1959: illegalità, arbitrio, ricatto sono i termini che ricorrono più spesso. La DC, partito egemone nella vita politica italiana, almeno fino al 1964, ma stabilmente parte della maggioranza di governo fino alla fine del secolo scorso, dopo un iniziale schieramento con il capitalismo in nome dell’anticomunismo, optò per un solidarismo fondato sull’intervento pubblico nell’iniziativa privata, una linea che dal 1964 in poi, con l’inizio dei governi a maggioranza di centrosinistra divenne ancora più marcato. Il solidarismo cattolico si saldò con il mutualismo socialista, l’affermazione dei diritti sociali con quello dei diritti civili, l’intervento pubblico in economia attraverso il sistema delle partecipazioni statali divenne una forza politica ed economica antagonista al capitalismo privato.

Il cammino per l’affermazione completa dei principi costituzionali non fu tuttavia ne breve ne semplice. Gli industriali italiani, quelli che trenta anni prima Lenin aveva definito “straccioni” preconizzando che l’Italia sarebbe stata il primo paese in cui si sarebbe propagata la rivoluzione comunista (sbagliò sulla direzione del vento), ritennero che ci fossero tutte le promesse per tornare al passato: bassi salari, localizzazione selvaggia dei nuovi insediamenti, qualche scudo per i politici, bastò perchè si realizzasse la massima gattopardesca che tutto dovesse cambiare affinchè ritornasse come prima.

Il cambio della maggioranza di governo ebbe presto risultati concreti, caddero (1971) le gabbie salariali nate da accordi sindacali del 1945 quando c’era la disperata ricerca di ripresa del lavoro nelle fabbriche: fu l’atto forse più evidente di arroganza dei padroni del vapore, l’espressione del potere di aver anche la possibilità di fissare un salario differenziato profittando delle condizioni di disagio dei lavoratori, maggiori in certe zone del Paese. Furono abolite quando si ritenne più comodo e proficuo che i disoccupati del Sud si trasferissero al Nord per avere un lavoro magari proprio dove il tacco padronale era più pesante. Il colpo di grazie per i padroni delle ferriere fu nel 1970 lo Statuto dei Lavoratori, che mise fine all’arroganza dei “siori padroni dalli belli braghi bianchi”. L’errore, il formidabile errore del potere pubblico in quegli anni di ritenere che l’alternativa valida al divario tra Nord e Sud fosse la industrializzazione a tutti i costi delle regioni meridionali, ritenendo a questo scopo sufficiente la realizzazione nel Mezzogiorno di impianti industriali senza troppo o nulla preoccuparsi della esistenza delle infrastrutture di supporto necessarie. Il passaggio dei lavoratori dall’agricoltura all’industria manifatturiera fu ritenuto un fatto assolutamente positivo (e lo era sotto il profilo della lotta alla disoccupazione e dei salari più elevati) senza alcuna considerazione sotto il profilo sociale ed economico di quel passaggio.

L’esperienza di Stalin, che alla fine degli anni ’20, si rese conto che l’assunzione dei lavoratori della Ford statunitense per favorire l’esordio della nascente industria sovietica si era rivelato fallimentare perchè mancava il contesto culturale e sociale affinchè avesse successo, non insegnò niente: come potevano decollare le nuove industri quando solo pochi lavoratori americani conoscevano la macchina ed i molti lavoratori russi solo la zappa e l’aratro? Chi fosse curioso di saperne di più può leggere il libro “I dimenticati” di Tim Tzouliadis, edito da Longanesi nel 2008.

Problemi analoghi sorsero per i nuovi stabilimenti industriali nel Mezzogiorno, Ottiero Ottieri scrisse nel 1955 un libro (Donnarumma all’assalto) in cui raccontò la sua esperienza come selezionatore del personale della Olivetti a Pozzuoli: il libro fu pubblicato per interessamento personale di Adriano Olivetti presso l’editore. Difficile spiegare a coloro che facevano per la prima volta il loro ingresso in una fabbrica quale ne fosse la logica, difficile che comprendessero che l’etica del capitalismo esigeva che producessero molto, non che sapessero leggere, loro analfabeti le istruzioni vicino alle macchine che dovevano usare. Difficile, molto difficile, spiegare che era necessario osservare scrupolosamente l’orario di lavoro quando la mancanza di idonei mezzi di trasporto tra l’abitazione e la fabbrica li costringeva ogni giorno a molti chilometri di cammino: l’elenco delle cose difficili da spiegare e comprendere potrebbe durare a lungo.

Nacquero le fabbriche cattedrali nel deserto, pubbliche o private con aiuto pubblico, soprattutto ma non solo nelle regioni meridionali: miliardi, centinaia di miliardi, migliaia di miliardi gettati al vento nella convinzione che lo sviluppo industriale avrebbe portato anche quello sociale e civile: anche l’industria di Stato restò vittima di quell’etica capitalistica di cui aveva parlato Weber.

C’erano naturalmente i dissenzienti, quelli che sottolineavano la necessità di realizzare infrastrutture e creare le premesse culturali necessarie per garantire la produttività delle industrie, quelli che contestavano l’esistenza di un rapporto diverso tra produttività e salario, capisaldo di quell’etica e tema di discussione da Keynes in poi: niente da fare e, come direbbe Renzo Arbore, avanti tutta. Due esempi soltanto: Gela con uno stabilimento petrolchimico enorme, oggi abbandonato dall’Eni in quanto non più redditizio (funziona solo un reparto dove si trasformano in biomasse gli oli esausti), un territorio completamente dissestato, un villaggio operaio abbandonato, una cittadina stuprata nelle sue caratteristiche tradizionali. Non dissimile è la situazione a Termini Imerese, dove un grande stabilimento realizzato dalla Fiat anche con contributi pubblici, oggi è dismesso e dall’incerto ed improbabile futuro.

Da una parte l’industria privata (Fiat, Pirelli, Montecatini fino a quando esistita, Piaggio, Rocca e tanti altri minori) tutti arroccati nella fortezza dell’etica calvinista e capitalista in un Paese tradizionalmente cattolico, dall’altro lo Stato in cui il potere politico non condivideva quella logica ma tuttavia la inseguiva tentando di uscirne indenne e fortunatamente ci riuscì, malgrado i tentativi eversivi che talvolta avevano strani rapporti con il sistema industriale. Era quasi fatale che il sistema crollasse come un castello di carte un po’ sbilenco.

A me pare (ma non sono mai stato un industriale ne ho mai lavorato in industria) che non si possa costruire un sistema di azioni, di comportamenti, di principi, ignorando l’uomo, i suoi valori, la sua dignità, la sua stessa appartenenza all’umanità. Una confessione: malgrado i suoi mille comportamenti che non condivido, ho grande rispetto per Vittorio Valletta che, quando Angelo Costa della Confindustria gli inviò una lettera per invitarlo a cessare la sua relazione sentimentale con un’esponente del Partito Social Democratico in quanto facente parte del “fronte nemico” rispose che se necessario era disposto a dimettersi da Amministratore Delegato della Fiat: un uomo tra tante macchine per far denaro.

S’è fatta notte è ore di andare a dormire, l’ultimo pensiero è per quella associazione di ex Zuavi che ancora nel 1920 si riunivano ogni anno a Roma per ricordare le antiche glorie di quel corpo che il 20 settembre 1870 aveva opposto l’ultima resistenza all’entrata dei bersaglieri a Roma. Oggi ci sono rievocatori dei beati tempi dell’etica del capitalismo, mentre i capitalisti veri continuano a trascinarsi faticosamente dietro da un punto all’altro del Globo i miliardi di euro accumulati con il loro lavoro, rigidamente conforme all’etica del capitalismo. Buonanotte.

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Mario Pacelli

Mario Pacelli è stato docente di Diritto pubblico nell'Università di Roma La Sapienza, per lunghi anni funzionario della Camera dei deputati. Ha scritto numerosi studi di storia parlamentare, tra cui Le radici di Montecitorio (1984), Bella gente (1992), Interno Montecitorio (2000), Il colle più alto (2017). Ha collaborato con il «Corriere della Sera» e «Il Messaggero».

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