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L’ex-silenzio di Mario Draghi

Non mi è passata nemmeno per l’anticamera del cervello l’idea di influenzare con un articoletto il presidente del Consiglio dei Ministri (che non mi è venuta nemmeno ai tempi in cui prendevo uno stipendio dallo Stato per farlo).

Mi riferisco all’1 marzo con un titolo su queste colonne (Comunicazione istituzionale. Il presidente Draghi non ha più parlato agli italiani dal 17 febbraio. Sia permesso un colpo di tosse) che, pur se per primo, si incrociava con un pensiero altrettanto prudente di altri e, nel mio caso, con la riflessione che la “domanda di istituzione e di spiegazione” che il Paese esprime dall’inizio della pandemia non poteva attendere il “fare tutte le cose” attorno a cui il premier aveva dichiarato di considerare legittima la comunicazione.

Evidentemente il premier aveva valutato che una certa discontinuità era necessaria per inquadrare anche il “relazionale pubblico” con le varianti imposte dalla crisi di governo. Due varianti mi sembrano ora ancora più chiare. Una: non contro la politica, ma senza i riti dell’annuncismo e della rissosità. Due: non per eterne rassicurazioni, ma anche per responsabilizzare nei rischi collettivi.

E così il 18 e il 19 marzo un “uno-due” in grande stile.

A Bergamo il 18 marzo in quelle difficilissime circostanze che sono le liturgie civili.

A Roma il 19 marzo per rompere il ghiaccio con chi avanzava il sospetto del suo sfuggire alle domande dei giornalisti.

Passando in rassegna le opinioni anche di chi non si è limitato al nostro cauto “colpo di tosse”, politici, giornalisti, operatori socio-sanitari hanno in larghissima maggioranza derubricato l’idea che Draghi non voglia o non sappia parlare.

Persino Marco Travaglio che mantiene il suo posizionamento di vedova insofferente (del governo Conte), fino a sostenere che Conte e Draghi dicono le stesse cose e fanno le stesse cose (mah…), almeno sulla capacità retorica non mantiene ombre. “L’ho sempre detto che Draghi parla e parla anche molto bene”.

La leader dell’unica opposizione, Giorgia Meloni, ha l’intelligenza di togliere l’argomento dalla lista dei dissensi, per avere mano libera su ciò che realmente costituisce dissenso.

Insomma, incassiamo una soddisfazione morale ma solo per lo scopo di poter riprendere l’argomento generale della linea sostanziale della comunicazione istituzionale del governo Draghi in rapporto ai predecessori.

A Bergamo Draghi ha fatto qualcosa in più che segnalare una discontinuità formale. Ha detto: “Siamo qui per promettere ai nostri anziani che non accadrà più che le persone fragili non vengano adeguatamente assistite e protette. Solo così rispetteremo la dignità di coloro che ci hanno lasciato”.

In conferenza stampa a Roma – chiamando con il suo nome il “condono” ma contenendolo all’interno di un basso tetto di reddito – ha aperto un fronte di discontinuità anche nei confronti di componenti non efficaci della amministrazione: “Questo azzeramento delle cartelle da un lato permette di perseguire la lotta all’evasione con più efficienza. Ma è ovvio che in questo caso lo stato non ha funzionato, accumulando milioni e milioni di cartelle. Per questo ci vuole una riforma delle modalità di riscossione delle cartelle. Il vero sollievo è una riforma del meccanismo”.

Ancora due annotazioni.

Pochissime parole per togliere la questione del Mes da un dibattito formale di schieramenti: “Con gli attuali tassi di interesse non è una priorità“.

Altrettanto chiara e secca la rivendicazione di autonomia pur correlata al suo noto europeismo: “Siamo un paese fondato su europeismo e atlantismo, i nostri rapporti internazionali non sono in discussione. Se ordineremo vaccini per conto proprio? Vediamo. Se il coordinamento europeo non funziona dobbiamo essere pronti. È quello che ha detto la Merkel ed è quello che dico anch’io“.

Poi ci sono le annotazioni di stile, l’impeccabile assenza di accenti, la misura dell’andare a braccio ma su piste meditate, la leggera ironia, le piccole sdrammatizzazioni che risvegliano (questioni generazionali) i tocchi di classe dell’Avvocato. Ma questa è un’altra storia.

Per la sostanza politica del difficile momento che attraversiamo siamo lieti del titolo di oggi: l’ex-silenzio di Mario Draghi. Non ci frena il meraviglioso articolo di Giuliano Ferrara Il silenzio di Draghi inizia ora (Il Foglio 20-21 marzo) che ragiona di filosofia dell’agire e quindi di filosofia del potere sulla trama del “dire e non dire” in cui ipotizza il futuro comunicativo prossimo del premier da intendersi come una “dissimulazione onesta”.

E’ un bel terreno, quello dell’editoriale di Ferrara. Ma è anche un’altra partita. Ora il tratto pericolosamente elitario, rispetto a un quadro di solitudini che la non rammendata politica italiana non riesce nemmeno a intercettare, il punto di “accompagnamento” è un punto fermo. Sul sottile terreno di analisi a cui Ferrara invita, ci sta Draghi come qualunque leader contemporaneo di livello. Figuriamoci un banchiere formato dai gesuiti.

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Stefano Rolando

Stefano Rolando è nato a Milano nel 1948, dove si è laureato in Scienze Politiche e specializzato alla Scuola di direzione aziendale della Bocconi. Tra vita e lavoro si è da sempre articolato tra Milano e Roma. E' professore universitario, di ruolo dal 2001 all’Università IULM di Milano dopo essere stato dirigente alla Rai e all'Olivetti; direttore generale dell'Istituto Luce, alla Presidenza del Consiglio dei Ministri e del Consiglio Regionale della Lombardia. Insegna Comunicazione pubblica e politica e Public Branding. Ha scritto molti libri sia su media e comunicazione che di storia, politica e questioni identitarie. Da giovanissimo è stato segretario dei giovani repubblicani a Milano, poi ha partecipato al nuovo corso socialista tra anni settanta e ottanta. Poi a lungo non appartenente. Più di recente ha lavorato sul civismo progressista (Milano e Lombardia) e su un progetto politico post-azionista in relazione al quale è parte della direzione nazionale di Più Europa.

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Tag: Draghi

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