Per designare ciò che manca alle aziende in conseguenza del lock up per la pandemia si è diffuso sui giornali ed i talk televisivi il termine “liquidità”, ignoto ai più sino a pochi mesi orsono.
“Liquidità” vuol dire denaro disponibile subito, non importa se di proprietà o preso a prestito; e qui sta l’inghippo. Perché le imprese, non potendo far tornare il tempo all’indietro, non recupereranno mai il fatturato perduto per la pandemia; come faranno allora a restituire i prestiti? già faticavano prima a stare in equilibrio economico, a fronte della concorrenza internazionale… Caricarsi di nuovi debiti, da ripagare prima o poi, più che un aiuto sarebbe un nuovo danno. Pèso el tacòn del buso, direbbero le aziende del Veneto.
Anche da un punto di vista formale, nei bilanci aziendali peggiorerebbe il debt-to-equity, il rapporto tra debiti e capitale, rendendo più difficile ottenere finanziamenti futuri; anche quei finanziamenti che fossero necessari per sostenere nuovi sviluppi di mercato da parte delle aziende migliori; e si ridurrebbe il valore dell’impresa in caso di cessione (il cosiddetto equity value, che – come noto – si ottiene dall’enterprise value sottraendo i debiti).
In sostanza: la liquidità di oggi che venisse alle aziende da nuovi debiti sarebbe un avvelenamento a termine. Come se, dopo aver aiutato a rialzarsi un atleta che è caduto in gara, lo si ricacciasse in pista con un sacco in spalla.
Quando sui media si parla di “liquidità” concessa alle aziende immaginate pure che ci sia sotto una deformazione in “politichese”. Invece, il termine esatto per definire ciò che manca alle aziende é “reddito”, o “ricavo”, o “fatturato”, quei soldi in proprietà da spendere in modo normale per coprire i costi, in particolare per pagare fornitori e dipendenti, senza dover puntare su inaffidabili aspettative per il futuro.
Al di là dei nominalismi, dalle notizie internazionali si capisce che Germania e Usa (personalizzando: Merkel e Trump) danno alle loro aziende soldi veri, in proprietà, non da restituire, cioè forniscono “reddito”. A pagare quei soldi é la collettività, quindi è lo Stato che accende per sé i debiti: in futuro, a dover rimborsare saranno i contribuenti, non le aziende che hanno ricevuti i soldi.
Al di là dei nominalismi, bisogna avere chiaro che se si vogliono salvare le capacità produttive del nostro Paese si devono dare alle nostre aziende soldi veri, cioè “reddito”, non debiti aggiuntivi, sapendo che dovremo restituirli a livello Paese, a meno di drammatici collettivi “default”. Non siamo la Germania, ma per sopravvivere servono le stesse ricette. E bisogna dare i soldi senza ritardi, perché le spese aziendali (compresi i salari) vanno pagate in tempo reale, con grande chiarezza di norme, senza burocratiche procedure, rendendo difficile alla mafia o alla camorra di “metterci sopra le mani” e chiedendo alle imprese di fare uso corretto del denaro (un uso scorretto sarebbe da verificare, ed eventualmente punire, a posteriori).
Ricordo che negli USA lo Stato normalmente rimborsa alle società in perdita le tasse sui profitti che hanno pagato negli anni precedenti, un aiuto storicamente efficacissimo per le crisi aziendali del passato, sia in termini reali e sia sul piano psicologico per l’imprenditore. Questa sarebbe davvero una soluzione seria: rimborsare alle imprese in difficoltà quanto hanno pagato allo Stato negli anni passati (tasse o imposte dirette e indirette, compresi quei balzelli eufemisticamente chiamati “oneri sociali” o quell’obbrobrio di “tassa sull’occupazione” che è l’IRAP).
Sarebbe una soluzione eticamente sostenibile (hai dato risorse alla collettività quando potevi, la collettività te le restituisce ora che ne tu hai bisogno), di semplice e rapida applicazione, su cui sarebbe difficile costruire truffe.
Giorgio GaruzzoGiorgio Garuzzo nasce a Paesana (Cuneo) il 30 novembre 1938.
Laureatosi nel 1961 nel primo corso di laurea in Italia per ingegneri elettronici, ha iniziato la sua lunga carriera in industria nel febbraio 1962, lavorando per dodici anni nel centro di ricerca sui grandi calcolatori elettronici fondato da Adriano Olivetti, partecipando allo progettazione degli elaboratori italiani delle serie Elea e GE che negli anni 1960 fortemente contribuirono alla prima informatizzazione dell’industria italiana. Nel libro “quando in Italia si facevano i computer”, pubblicato come e-book nel 2015, racconta la sua giovanile esperienza nell’ambito di quell’avanzata avventura industriale.
Tra il 1973 ed il 1976, è stato membro del Comitato Esecutivo di Gilardini, un gruppo quotato in Borsa, in rapida espansione nei settori dei componenti automobilistici ed industriali.
Nel maggio del 1976 l’ing. Carlo De Benedetti, presidente di Gilardini, venne nominato Amministratore Delegato di Fiat, e l’ing. Garuzzo lo seguì in Fiat come suo consigliere personale.
Tra il 1976 ed il 1978, l'ing. Garuzzo è stato responsabile dell’ufficio Nuove Iniziative del Gruppo Fiat, promuovendo, tra l’altro, la creazione di Comau, complesso nel campo delle macchine utensili e dei sistemi di produzione, nato dall’integrazione di sette aziende pre-esistenti.
Tra il 1979 e il 1984 fu Direttore del Settore Componenti Fiat che includeva oltre 50 aziende del comparto componentistico per l’auto e per l’industria, aziende che riunì in nove raggruppamenti, di molti dei quali fu anche presidente o amministratore delegato: Aspera (compressori per refrigerazione e piccoli motori), Borletti (strumenti di bordo, condizionamento), Comind (componenti in plastica e in gomma), Gilardini, IVI (vernici), Fiat Lubrificanti, Magneti Marelli (componenti elettrici ed elettronici), Weber (carburatori e sistemi di iniezione), Sepa (sistemi elettronici); il Settore raggiunse nel 1982 un fatturato aggregato di 2.250 miliardi di lire, con un buon profitto complessivo.
Dal 1984 al 1990 l’ing. Garuzzo fu CEO - Chief Executive Officer di Iveco, la società multinazionale del gruppo Fiat produttrice di veicoli industriali. Dopo le forti perdite riscontrate sino ad allora, Iveco raggiunse il punto di pareggio nel 1985; venne successivamente sviluppata anche tramite acquisizioni (Ford Truck e Seddon Atkinson nel Regno Unito, Pegaso in Spagna, Astra in Italia, Ashok Leyland in India), fino a raggiungere nel 1989 un fatturato superiore agli 8.000 miliardi di lire, con una posizione di leadership sul mercato europeo e un ragguardevole profitto. Da tale posizione Iveco condusse un programma di rinnovamento totale della gamma di prodotto e di 22 stabilimenti in 6 paesi d’Europa, con un investimento di oltre 5.000 miliardi di lire, in larga misura autofinanziato.
In aggiunta, nel 1989 l’ing. Garuzzo assunse la responsabilità di Fiat Agri e promosse l’acquisto della divisione dei trattori e delle macchine per l’agricoltura di Ford, coordinando la creazione di un gruppo integrato, che, con la denominazione di New Holland e con un fatturato nel 1990 di 5,1 miliardi di dollari, divenne uno dei due leader mondiali nel comparto, giungendo rapidamente ad un ragguardevole profitto, che ne consentì la quotazione in borsa alcuni anni dopo.
Tra il 1991 ed il 1996, l'ing. Garuzzo ha ricoperto il ruolo di direttore generale di Fiat, con responsabilità di tutti i settori autoveicolistici, che includevano Fiat Auto (automobili), Iveco (camion ed autobus), New Holland (trattori, macchine agricole e macchine movimento terra), Magneti Marelli (componenti), Teksid (fonderie), Comau (sitemi di produzione), Ceac (batterie elettriche) e Centro Ricerche Fiat. Tale carica comportava la presidenza del Consiglio di Amministrazione di Fiat Auto S.p.A., di Iveco N.V., di New Holland N.V. Nel 1992 la responsabilità dell’ing. Garuzzo fu estesa a tutto il settore industriale, con l'aggiunta di Fiat Ferroviaria (treni ad assetto variabile), Fiat Avio (parti per aerei ed elicotteri, turbine a gas e propulsori spaziali), Snia (bioingegneria, fibre e prodotti chimici).
Nel 1991 partecipò alla fondazione di ACEA, l’Associazione Europea dei Costruttori di Automobili, di cui fu presidente negli anni 1994 e 1995.
Nel libro pubblicato nel 2006 “Fiat – I segreti di un’epoca” (ed. Fazi, traduzione inglese ed. Springer), racconta gli eventi della sua esperienza in Fiat e delle realizzazioni industriali nel contesto economico e sociale dell’Italia di quel ventennale periodo.
Dal 1996 si occupò di investimenti in “private equity”, esperienza che lo indusse nel 2007 a promuovere la fondazione e la quotazione di Mid Industry Capital SpA (da lui presieduta sino al 2015).
E’ sposato con Rosalba Avaro ed ha un figlio, Carlo.
L’Istituto Garuzzo per le Arti Visive (IGAV) è un’organizzazione “non-profit”, fondata nel 2005 e finanziata in gran parte dalla famiglia Garuzzo, che ha lo scopo di supportare l’arte contemporanea e in particolare ad aiutare i giovani artisti italiani emergenti a farsi conoscere sia in Italia sia, soprattutto, nei contesti internazionali. Ha sinora organizzato 86 mostre in 58 musei di 19 nazioni, e gestisce l’esposizione della Collezione Permanente alla Castiglia di Saluzzo.