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Non e’ il M5S ma il PD l’anello debole della coalizione

Una relazione approvata all’unanimità. La proposta di indicare il voto favorevole nel referendum del 20/21 settembre a larghissima maggioranza.

Se fossimo Zingaretti, la cosa dovrebbe preoccuparci moltissimo.

Prima di tutto perché richiama alla mente quello che accadde, sette anni fa, al povero Bersani. La proposta di candidare Prodi come candidato alla presidenza della repubblica approvata per acclamazione; e poi, il giorno dopo, sepolta da un centinaio di franchi tiratori. (Prodi sta ancora cercando i colpevoli; e, nel dubbio, scarica il suo desiderio di vendetta sul partito tutto intero; Dio riconoscerà i suoi…).

Siamo al “vieni avanti cretino” del varietà di una volta. Uno destinato a entrare in scena per essere debitamente sbertucciato. In apparenza, sostenuto. In realtà, mandato al macello.

Resta il fatto che Zingaretti è cascato nella trappola a piè pari. Commettendo una serie di errori madornali.

Primo dei quali un’indicazione del sì come mezzo per rafforzare l’alleanza con il M5S e, quindi, la coalizione. Con il risultato di aprire un’autostrada al No della destra per “mandare a casa Giuseppi e Giggino”; motivazione strumentale quanto infondata ma non per questo meno persuasiva.

Il Nostro si è però prestato al gioco con una serie di ragionamenti a dir poco inconsistenti. Dire che il sì apre la strada ad altre riforme non è solo sbagliato ma totalmente falso. Non si può promuovere il monocameralismo, o comunque il ruolo centrale di una delle due camere avendone preventivamente ridotto drasticamente i membri. E avere il proporzionale ma senza preferenza aumenterà e non diminuirà la configurazione del Parlamento come parlamento di nominati. Mentre, in ogni caso, il risultato del referendum, interpretato come confronto tra chi odia di più la classe politica e chi, invece, odia di più il governo, toglierà a tutti la voglia di procedere oltre sulla via delle riforme istituzionali.

Politicamente parlando, poi, la necessità di consolidare l’alleanza con il M5S è certamente un obbiettivo importante e, per quanto mi riguarda, condivisibile. Ma, detto in parole povere, non è questo il modo.

Un’alleanza non si costruisce sulle concessioni reciproche. Né si può protestare perché i grillini non ne vogliono sapere di Emiliano o di De Luca e poi contestare (giustamente) per le stesse ragioni la Raggi a Roma. Non si può concepire un’alleanza in termini di sole concessioni reciproche (“io ti do la riduzione del numero dei parlamentari perché ci tieni tanto, e tu mi dai il Mes perché lo voglio io”) . Anche, e soprattutto, perché agli italiani e, in particolare, al popolo di sinistra, sfuggono ancora le idee-forza e le opzioni in nome delle quali si è costruita questa maggioranza.

A mio parere queste ragioni esistono eccome: la difesa e la promozione del ruolo dello stato in economia: il rilancio e la riqualificazione dei pubblici servizi; la redistribuzione del reddito e del potere a favore dei cittadini più sfavoriti; un nuovo internazionalismo europeo; una politica attiva nel Mezzogiorno; la difesa dell’ambiente. Solo per citarne i principali.

Ora, su tutti questi temi non è stato lanciato, già nell’arco dell’anno, nessun messaggio suscettibile di convincere le menti o di scaldare i cuori. Parole, tante; ma tanto inconsistenti e fredde da superare appena il fascino di un paracarro.

Ora, l’incapacità di comunicare non è un fatto tecnico ma politico. Non si trasmettono idee-forza perché non ci sono. E queste idee non ci sono perché l’Intellettuale collettivo per definizione ha cessato di pensare collettivamente fino al punto di privarsi delle strutture a ciò preposte. E nemmeno di dare indicazioni perché, sulle ceneri del centralismo è nato un confronto senza regole. E non è più in grado di guardare al passato e di riflettere sul futuro, perché vive nella nuvoletta di un eterno presente che si illude di governare perché più sensibile, più onesto e soprattutto perché più rispettoso delle regole e delle fantasie del politicamente corretto.

Ora, se non c’è più l’intellettuale collettivo tutto diventa possibile. Ma per gli altri. Mentre i tanti pensieri individuali creano mostri: Calenda che pontifica, in attesa di essere Chiamato; Renzi che alimenta le sue quinte colonne in vista di eventuali riconquiste; e Bonaccini che si candida alla segreteria del partito: “se c’è Zingaretti perché non io?”. Con un partito oggetto di Opa ostili in ogni momento e da tutte le parti, oscillando tra leader interni deboli e salvatori esterni predatori.

Forse la via d’uscita porterà il ritorno a una sinistra plurale con un programma comune. O forse no.

Rimane, allora per l’oggi, un solo auspicio. Che, in occasione del referendum, gli italiani siano (non è difficile…) migliori dei partiti che si ritrovano: votando non in base a calcoli strumentali o a facili pregiudizi, ma sul merito del quesito che gli viene sottoposto. Dopo tutto i referendum sono fatti per questo.

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Alberto Benzoni

Ha lavorato all’Iri dal 1958 al 1996, per oltre trent’anni all’Ufficio studi e poi a quello Internazionale. Iscritto al Psi dal 1957 al 2013. Viceresponsabile del settore esteri dal 1987 al 1992. Consigliere comunale di Roma dal 1971 al 1985, vicesindaco dal 1976 al 1981 nella giunta di sinistra di Argan e poi di Petroselli. Collaboratore di «Avanti!» e di «Mondo Operaio», di «Ragioni del Socialismo» e di numerosi altri periodici di area. Autore di una storia del Partito socialista e, assieme ad altri, di La dimensione internazionale del socialismo italiano (Roma 1993). Ha scritto anche Il craxismo (Roma 1991) e, assieme a Luca Cefisi, Il pacifismo (Roma 1995). Autore infine, assieme alla figlia Elisa, di Attentato e rappresaglia. Il Pci e via Rasella (Venezia 1999), di Le vie dell’Italia (Milano 2009) e, infine, di La storia con i se (Venezia 2013).

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