Viaggio nel Pronto Soccorso dei partiti politici italiani/2
Anche il PD – come Lega e Cinquestelle (Cinquestelle e Lega alla resa dei conti interna: cultura di governo o populismo bizzarro?) – colloca la sua evoluzione fino alle attuali configurazioni nella prima decade del nuovo secolo. Esattamente nel 2007 e precisamente il 14 ottobre.
Il Manifesto dei valori, approvato dal partito il 16 febbraio 2008, fa così sintesi del posizionamento: “il Partito Democratico intende contribuire a costruire e consolidare, in Europa e nel mondo, un ampio campo riformista, europeista e di centro-sinistra, operando in un rapporto organico con le principali forze socialiste, democratiche, progressiste e promuovendone l’azione comune”.
Ne sono artefici i due tronconi politici, della prima Repubblica, che avevano ispirato il “compromesso storico” prima del caso Moro. Post-comunisti e sinistra dc.
Ma l’intento programmatico e’ di superare questa consolarita’, con un ampliamento ideale di elettorati.
Salvo un’apertura ad personam a qualche socialista e qualche laico, senza trattare le loro rappresentanze storiche, lo schema rivelerà l’idea coltivata, anche se ben relativamente dichiarata, di mantenere la diarchia nella sala macchine ma con una narrativa capace di attirare consensi più ampi.
Almeno fino al tempo a venire di una legittima trasformazione delle esplicite radici.
A Walter Veltroni spetta questa cosciente dissimulazione. Conservare i ritratti di Berlinguer e Zaccagnini nella propria stanza ma coniare una sorta di sentimento post-kennediano per arare il sentiero del cambiamento.
Auspici e conflitti sono storie più volte inventariate. L’utilizzo esplicito della parola “riformisti” (di secolare appartenenza al PSI) e della parola “europeisti” (di secolare appartenenza liberal-democratica) costituiva la ragione primaria di una doppiezza oggettiva, appunto tra auspici e conflitti.
Difficile, francamente, il governo di questa contraddizione, aggravato poi dalla non dissimulata volontà di distinguere la narrativa dalla governance.
Il pluralismo sulle bandiere; la “ditta” nelle regole di ingaggio (all’epoca del “Manifesto dei valori” vi erano due soli ex-socialisti tra i 50 promotori, Giuliano Amato e Ottaviano Del Turco).
L’affermazione prepotente di Matteo Renzi (2013), di provenienza dc, con la sua complessa parabola (che durerà fino al 2018), segnerà un altro e diverso carattere del dualismo: rimuovere il principio sacro della “ditta” (l’eufemismo usato da Pierluigi Bersani per riconoscere la radice postcomunista dell’azionariato) e al tempo stesso approdare all’ingresso nel socialismo europarlamentare, in quanto forza centrale dell’antinazionalismo dell’Europa (ingresso mai raggiunto prima da chi aveva ragioni identitarie per perseguire quell’obiettivo).
Pareva la chiave di una vera svolta e di un successo infinito. Fu piuttosto la chiave di un sanguinoso inasprimento di conflitti interni e del personalismo, alla fine autolesionista, di un leader intelligente ma non avveduto.
Il caciccato, soprattutto meridionale e la variopinta logica di feudalizzre il territorio nelle mani dei locali “professionisti della politica” sono state le principali malattie degli ultimi anni. Con pochissima permeabIlizzazione da parte della società civile e di organizzazioni minori del progressismo italiano, due strade che avrebbero significato una rivoluzione culturale e del modello di partito, che hanno invece portato alla alleanza “di potere” con il troncone apparentemente più di sinistra del populismo italiano (i Cinquestelle nella fase del doppiopetto e di una mitigazione dell’odio congenito per il partito della casta, cioè il PD).
Prendersi cura – in senso strategico – di questa evoluzione, che ha fruttato la perdita del 50% dei consensi dalle elezioni europee del 2014 (40%), pur conservando ora stabilmente la quota del 20% inteso come “zoccolo duro” della sommatoria di elettorati territoriali che il PD esprime, sarebbe per chiunque compito difficilissimo.
Su cui grava, tra l’altro, l’abbattimento in sequenza di tutti i leader chiamati alla segreteria dopo la liquidazione di Renzi (tre segretari dopo Renzi, dunque in tre anni, Martina, Zingaretti e Letta).
Il mio amico (dai lontani tempi comuni della Rai, lui allora comunista io socialista) Celestino Spada (con cui condivido l’esercizio di commenti politici sulla rivista Mondoperaio) preferisce vedere in opera la casualità rispetto alla doppiezza nel presente del PD e commenta così la mia percezione: “ Questo PD, a mio avviso, non ha doppiezze. Acchiappa quello che può. E se non può attende. Come ha fatto nel 2019 con il Conte due e nel 2021 con Draghi. Non c’è contraddizione. Non c’è nessuna doppiezza. In questa legislatura il PD mi pare agito, non agente. E tiene su la baracca finché va. Vivono di rendita da così tanto tempo che si sentono miracolati di stare ancora al governo. Finché dura. Roma sarà un bel test. Vedo che Gualtieri ha imbarcato a suo sostegno più o meno tutti quelli che cinque anni fa sostenevano Alfio Marchini sindaco. E non c’è doppiezza. È tutto alla luce del sole. Come fossero passati da Bettini consigliere segreto a Gianni Letta. Come si potrebbe chiamare quello che accade a Roma? “
Annoto questa opinione per facilitare le discussioni. Ma la doppiezza di cui parlo non è la stessa cosa della strategia tra la “brace rivoluzionaria” e il “pragmatismo riformatore“ dell’età di Togliatti assediato tra le dipendenze internazionali al sovietismo e lo scenario d’azione occidentale.
E’ piuttosto quell’insieme di “si, ma anche” introdotto come paradigma attribuito a Veltroni che ha avvolto come la senape sui würstel quasi tutte le circostanze e quasi tutte le leadership che hanno riguardato i quattordici anni di vita del Partito Democratico. Un “si, ma anche” di democristiana memoria, una volta agito come artiglieria per tutte le circostanze pur di stare al centro di ogni ciclo. Vocazione che ha significato inevitabili sanguinamenti in una compagine che proviene dalla cultura della sinistra.
Per questo nel Prontosoccorso, immaginato prima di questo “viaggetto” nelle specifiche situazioni dei partiti, avevo ritenuto di segnalare l’invio del malato ai reparti di cure vascolari, in cui cioè la circolazione corporea ha preso pieghe mai lineari, mai nitide, mai legate a una stella polare.
Ora, credo che senza partiti non ci sia democrazia occidentale, che senza riformismo di tradizione non ci sia democrazia europea, che senza centralità della rappresentanza del lavoro non ci sia legislazione di equo sviluppo. E, in verità, il PD appare sempre sulla carta il favorito di questa interpretazione. Ma all’atto pratico e’ anche il soggetto che genera maggiori insofferenze, interne ed esterne. Se non e’ un tema di cura vascolare, forse e’ un tema di cura neurologica. Ma i tratti apparenti sono quelli del daltonismo, un colore diverso tra realtà e percezione.
Il capo del PD, dal 14 marzo di quest’anno, e’ Enrico Letta, 55 anni il 20 agosto, un cv di qualità e di esperienza, che si è augurato di essere l’ultimo segretario scelto in alternanza dei due partiti fondatori (lui ex-DC , dopo Zingaretti ex-PCI), esprimendo così una certa tensione a sciogliere il vincolo storico double-face e rinunciando a capeggiare un corno rispetto all’altro.
Ma Letta conosce anche bene i limiti di un partito per alcuni “mai nato” (Rutelli), per altri “nato male” (Renzi), per altri “ancora troppo dominato dalle correnti” (Parisi).
Punta alla missione “ricostruttiva dell’Italia” che tuttavia intanto ha la guida di un altro, Mario Draghi. E rispetto a cui le vie di approccio appaiono tante quanti sono almeno i capicorrente.
Il suo libro-progetto si intitola, con dubbia efficacia per la fascinazione ma mutuando due parole pensate in chiave controtendenziale, Anima e cacciavite.
Con la prima parola la sua battaglia e’ per la sintesi valoriale.
Con la seconda parola la sua battaglia e’ per stringere troppe viti smollate (una delle quali, a mio avviso, dovrebbe anche riguardare le contraddittorie conseguenze del provvedimento, varato dal suo governo, di abolizione del finanziamento pubblico dei partiti).
A settembre scade il suo semestre di sperimentazione. I bilanci saranno probabilmente ancora magri anche se raddrizzati dalla possibile affermazione del centrosinistra all’importante turno delle amministrative di ottobre ( Giovanni Diamanti ipotizza un 5 a 0 nelle città maggiori). Le sue sorti in realtà si giocheranno tra l’elezione del nuovo Capo dello Stato e le sue stesse sorti elettorali in un collegio (Siena-Arezzo) puntellato ma non blindato.
Al debutto, anche Letta si è riparato dietro a una doppia icona, lasciando appeso Berlinguer ma sostituendo Zaccagnini con Pirandello.
Il punto è che ha pirandellianamente lasciato, finora, estimatori e diffidenti sulle proprie posizioni.
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