Qualche centinaio di morti dopo un’alluvione o un terremoto sono un disastro che ti crea angoscia e disperazione, diecimila morti durante un’epidemia sono un dato astratto, di valore puramente statistico.
La dimensione quantitativa è decisiva: per aderire al cordoglio serve un volto, una storia, un parente.
Per elaborare un lutto collettivo hai bisogno di capire, prendere parte, commuoverti.
Qui non partecipano nemmeno i congiunti più stretti, che non hanno accesso al defunto, che non possono organizzare un funerale. Questo è un drammatico work in progress, un attimo dopo il decesso devi già decidere chi subentra in terapia intensiva.
Una seconda differenza con le altre emergenze consiste nel tuo coinvolgimento. Quando vieni a sapere di un incidente, cataclisma, evento tellurico o climatico, sai in tempo reale di esserne indenne. Sai di non essere nel luogo in questione o di averla comunque scampata.
Ma nel nostro caso tu non partecipi da spettatore alle disgrazie altrui, sei sempre in gioco, rimani una potenziale vittima. Hai poco spazio per liberare la tua generosità, la tua empatia.
E poi siamo franchi con noi stessi: la capacità emotiva suscitata da un ottantenne è inferiore a quella che avresti di fronte ad un giovane, non parliamo di un bambino. Mi chiedo quanta intelligenza c’era in questi diecimila nostri concittadini.
Pochi si soffermano sul loro sapere, manuale o intellettuale, faticosamente imparato in un’epoca che non disponeva delle nuove tecnologie. È quella “fatica”, quell’approfondimento che ha reso irripetibile quella generazione.
Purtroppo viviamo in un epoca in cui tu sei qualcuno finché sei nel mondo del lavoro, sei ancora produttivo, hai un biglietto da visita da esibire, una funzione da far pesare, un potere da scambiare. Un tempo agli anziani veniva riconosciuta la saggezza che, naturalmente, derivava dalla esperienza. Erano una sorta di banca dati. Oggi che siamo subissati dai dati pensiamo di non aver più bisogno di nessuno. A questo ho pensato quando ho visto scorrere il nome di Alberto Arbasino tra i morti di giornata.
Sono andato, allora, a rileggere quanto scriveva degli Italiani. Dei nostri vizi nazionali. Che tutti citiamo ma che fingiamo anche di dimenticare.
La volubilità, l’irresponsabilità, l’intolleranza, la partigianeria, la furbizia, la villania, l’ingordigia, l’opportunismo e il trasformismo, la smania di teatralità, l’indolenza, la vaghezza, la superficialità nascosta dietro al pedantismo accademico, la dissimulazione sistematica, il volerla sapere più lunga, la drittaggine, la mancanza di memoria collettiva.
Ebbene, caro Arbasino, questa volta non potrà lamentarsi. Abbiamo smentito tutti i luoghi comuni che ci riguardano.
Per semplificare, uso il senso di responsabilità che abbiamo mostrato e che riassume lo sforzo, il coraggio, la generosità, l’umanità profusi da tutti. E, a proposito di memoria collettiva, ne stiamo accumulando un bel tesoretto che non dimenticheremo tanto facilmente.
Io impazzisco per i paradossi e le coincidenze, che mi appaiono sempre come lo scherzo di una entità superiore. A questo proposito, l’unica notizia che non avesse riferimento con la pandemia apparsa in questi giorni sugli organi di informazione è stata la celebrazione del compleanno di Mina.
È stata l’apologia di una geniale e splendida ottantenne che ha scelto l’autoisolamento da decenni.
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