Ho sempre pensato, e lo penso ancora, che gli italiani all’estero abbiano una marcia in più rispetto a quelli rimasti in Italia. La sesta marcia è stata ingranata per via dei sacrifici, le privazioni, la solitudine, le incognite da affrontare, la nuova lingua, le diverse abitudini, la lontananza dai parenti e anche la diversa alimentazione: tutte cose implicite nel trasferirsi all’estero.
Pertanto quando nel lontano 2006 il voto politico ai residenti all’estero venne realizzato (in precedenza all’estero si era votato per due referendum nel 2003), pensai subito: ecco che, oltre alle rimesse valutarie, gli italiani all’estero ora non solo contribuiranno alla prosperità economica dell’Italia, ma imprimeranno anche un modello politico basato sulla trasparenza, onestà ed abilità dei candidati al Parlamento italiano.
Il discorso filava. Dopotutto, gli italiani all’estero non sono talebani sposati all’ideologia politica. Sono pratici, pragmatici, “to the point”, come si spesso dice. Negli Usa c’è un rinnovo politico ad ogni elezione: si passa da un governo repubblicano (di destra), ad uno democratico (di sinistra) ad ogni occasione. In questi casi l’ideologia poco importa: se un politico è bravo, competente e capace, lo è sia se è di destra che di sinistra. Fuori i “losers” (i falliti) di qualsiasi schieramento!
Ma come si fa a sapere se un candidato è veramente quello che sembra o dice di essere? Semplice! La concorrenza, oltre che l’impegno che gli elettori riservano verso la conoscenza dei candidati. E’ facile promettere mari e monti, il problema è poi realizzarlo. Ed ecco che il buon senso prende il sopravvento per favorire un candidato che promette progetti realizzabili in base alle valutazioni politiche. Ad esempio, se un nuovo presidente Usa da eleggere dovesse confrontarsi con un Congresso ostile, sarebbe inutile votare un programma che la maggioranza al Congresso non approverebbe mai; si creerebbe un impasse che non porta a nulla.
Tutte queste valutazioni mi permisero di abbracciare e promuovere l’idea dei rappresentanti all’estero al Parlamento italiano, convinto che sarebbe stato un bene per l’Italia. L’entusiasmo mi portò anche a creare un partito indipendente che rappresentasse solamente gli interessi degli italiani all’estero.
Durante le politiche del 2006, dove per la prima volta si votava rappresentanti provenienti dall’estero, questo partito ricevette un buon numero di voti, ma non sufficienti a far eleggere i suoi candidati. Naturalmente di sbagli ne sono stati fatti. Ad esempio, invece di concentrarsi sulle aree con più votanti (come lo stato del New Jersey, le città di Chicago, Boston, Toronto e Montreal), i nostri candidati hanno visitato quasi tutti gli stati interessati. Si pensava: “se dobbiamo rappresentare gli italiani di Vancouver, Edmonton, Costa Rica, Honduras e Messico, bisogna conoscere le loro necessità”. Come diceva Julia Roberts nel film del 1990 “Pretty Woman” alla commessa del negozio che non volle venderle i vestiti: “big mistake”.
Il girovagare ridusse le risorse e la concentrazione. Poi, non molti apprezzarono le visite e votarono candidati mai visti e sentiti. Tutto ciò senza contare l’ostruzionismo del Consolato Italiano a New York, dove durante la raccolta delle firme per l’eleggibilità il vice console si “dimenticò” di partecipare alla verifica, e se non fosse stato per un volontario che aveva il suo cellulare, tutta l’operazione sarebbe saltata in aria. La realizzazione o, come si dice in questi casi, la “reality check” è che, alla fine e per quanto riguarda la politica, gli italiani all’estero votano come quelli in Italia: cioè votano il partito e non la persona. Si è arrivati al punto da eleggere candidati che nemmeno risiedevano all’estero, oppure candidati che investivano somme da capogiro.
Comunque, visto che la speranza è ultima a morire, si è pensato che, in un secondo tempo, quando gli elettori all’estero si sarebbero resi conto che gli eletti si erano rivelati incapaci di portare risultati concreti, l’elettorato avrebbe cambiato opinione e avrebbe votato in base ai principi utilizzati nella loro terra d’adozione. Siamo oggi a ben quattro legislature che includono parlamentari eletti all’estero, e non è cambiato nulla, né, considerando l’esperienze passate, cambierà nulla in futuro.
Naturalmente, alcuni eletti con il voto all’estero hanno cercato di rappresentare gli interessi dei loro elettori, ma il partito li ha zittiti e quelli che si sono ribellati, sono stati subito fatti fuori per la successiva legislatura. Ora ci si chiede di votare per corrispondenza fino al 26 marzo per un referendum che riduca il numero dei parlamentari e penso che bisognerebbe farlo, se non altro, per eliminare i possibili rappresentanti inutili (è una questione di percentuale), per ridurre le spese inutili, per aumentare la concorrenza e quindi trasparenza fra i candidati e, forse aiutare i candidati capaci a vincere contro gli incapaci imposti dall’alto.
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