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Ricordiamo i piccoli eroi

Una porta si apre di notte. Una donna mette il dito sulla bocca per fare il segno del silenzio. Lui si guarda intorno: non c’è nessuno, può entrare.

Non è l’inizio di un libro giallo, ma una scena che è avvenuta molte volte durante l’occupazione tedesca in Italia.

Gli italiani stavano sotto il tacco nazista particolarmente incattivito – se mai fosse stato possibile – per la guerriglia partigiana. Ogni giorno c’erano esecuzioni e deportazioni. Il messaggio dei tedeschi è chiaro: dopo l’8 settembre, la guerra è contro tutti gli italiani traditori, anche i civili. E se non collaborano, saranno uccisi tutti, donne, vecchi e bambini. Non poteva non esserci una reazione.

Non stiamo alludendo alla lotta partigiana, alla quale ogni anno giustamente si rende omaggio con la festa del 25 aprile, ma di un popolo che nella stragrande maggioranza non è rimasto a  guardare. Per salvare se stessi, i propri parenti, anche gli  estranei. O semplicemente esasperato da un’occupazione particolarmente crudele. 

<Oneste famiglie borghesi, umili case operaie ospitavano, sfamavano chi era costretto ogni notte a cambiar domicilio – scrive Paolo Monelli nel suo libro “Roma 1943” – tenevano in serbo carte pericolose; impiegati, funzionari fornivano informazioni, tessere , bolli, documenti falsi; fornai facevano il pane per gruppi di patrioti; trattorie sfamavano celatamente gente braccata, chirurghi aprivano la pancia a malati immaginari, monacelle di clausura accoglievano gli ebrei e retinenti alla leva, sacerdoti trasmettevano messaggi segreti in confessionale>.

Atti di grande e piccoli eroismi. Le 4 giornate di Napoli (nel 43) avrebbero potuto esserci senza il coinvolgimento di tutta la città? I famosi scugnizzi che tiravano bombe a mano dalla cima dei palazzi. Studenti e professori insieme  sulle barricate, con i “femminielli” accanto. Donne che portavano l’acqua e mordevano le mani ai soldati nazisti.

A Boves, in provincia di Cuneo l’11 settembre 1943 – tre giorni dopo l’armistizio – c’era già nei boschi  un nucleo di soldati guidati da Ignazio Vian. Catturano due tedeschi. Il maggiore delle SS Peiper arriva in paese e minaccia ritorsioni. Si fanno avanti un industriale, Antonio Vassallo e il parroco don Giuseppe Bernardi, ai quali Peiper promette di risparmiare i civili se i suoi uomini verranno liberati. I due mantengono la parola, e tornano con i prigionieri. Ma al nazista non basta. Li carica i due su una camionetta e li porta in giro per il paese come monito. Poi li brucia. Vivi. Due eroi troppo spesso dimenticati. Non pago, Peiper dà fuoco al paese e uccide 25 civili, inermi, incolpevoli.

A Roma la resistenza silenziosa dei cittadini è dilagante. Lo stesso governatore della città, Stahel  dice  con ironia  che metà della popolazione vive nascosto  nelle case dell’altra metà. Sono le donne in primis a nascondere non solo i loro uomini, ma anche i primi inviati degli alleati, i renitenti alla leva, i partigiani. Trasmettono messaggi, cercano il cibo per i clandestini, curano i primi feriti. E non sono solo le donne del popolo a darsi da fare. Partecipano anche le borghesi e le nobili. Claudio Fracassi nel libro “La battaglia di Roma” cita il diario di Fulvia Ripa di Meana (cugina del colonnello Cordero di Montezemolo, capo dell’organizzazione militare legata al governo Badoglio ): < noi donne abbiamo l’incredibile ingenuità, quando parliamo al telefono, di femminilizzare tutti i nostri uomini: Giuseppina, Pierina, la bambina, la piccola> . E la censura tedesca, che le intercettava, annota con sarcasmo:<non esistono più uomini nelle telefonate delle donne romane>.

I ragazzini si infilano ovunque. Portano notizie e nascondono bombe a mano. Come non ricordare i “pischelli” del film di Rossellini “Roma città aperta”? A Roma, un ragazzino di 14 anni Romolo Dorinzi, durante uno scontro al Forte Ostiense , scappa dalle mani della mamma che lo sta trascinando via da quell’inferno,  per avvertire i partigiani che stanno arrivando i tedeschi (Fracassi). Viene ferito, ma salva i partigiani. Ed è solo uno tra i tanti .

C’è un quartiere nella capitale, dove per estirpare la resistenza i nazisti ricorrono ad un vero e proprio rastrellamento e si portano via quasi mille uomini. È il Quadraro, sud est della città. Oggi è conosciuto soprattutto per la malavita  e i Casamonica. Ma ha un bel passato antifascista, per il quale a guerra finita ha ricevuto un riconoscimento ufficiale.  A Roma si diceva che quando uno voleva sparire si rifugiava in Vaticano o al Quadraro. E lì non lo trovava nessuno. I nazifascisti lo chiamavano “il nido di vespe”. Tutti, ma proprio tutti gli abitanti del quartiere in quegli anni maledetti hanno collaborato a mantenere una rete clandestina fittissima. Formata da realtà locali intrecciate fra loro non solo per idee politiche o religiose, ma soprattutto da legami familiari e territoriali molto  forti.

Il rastrellamento avviene all’alba del 17 aprile 1944 , diretto personalmente da Kappler. Si conclude con la deportazione in Germania di circa un migliaio di uomini, tra i 18 e i 60 anni, costretti a lavorare nelle fabbriche in condizioni disumane. Molti vengono uccisi nei campi di sterminio, altri, fuggiti per unirsi alle formazioni partigiane, cadono in combattimento. Nella borgata rimangono sono donne. Mogli, madri, figlie, sorelle, fidanzate. Sole con la loro disperazione.

Potremmo continuare a lungo. Raccontare – oltre ai nomi noti,  passati alla storia con la S maiuscola –  di feriti curati nei pagliai, di ricercati nascosti in cantina, di madri che fanno scudo ai figli con il proprio corpo. La storia delle suore di Firenze, Giuste tra le Nazioni per aver salvato centinaia di ebrei; dei sacerdoti come don Ferrante Bagiardi, che sceglie di morire con i suoi parrocchiani dicendo “vi accompagno io davanti al Signore” o di don Pappagallo, il sacerdote che nascondeva partigiani e che fu tra le vittime delle Fosse Ardeatine ; degli alpini della Val Chisone che rifiutano di arrendersi ai nazisti perché “le nostre montagne sono nostre”; dei tre carabinieri di Fiesole che si fanno uccidere per salvare gli ostaggi; dei 600 mila internati in Germania che come Giovanni Guareschi – il papà di Don Camillo e Peppone – restano nei lager a patire la fame e le botte, pur di non andare a Salò a combattere contro altri italiani. Dei ferrovieri che raccoglievano i biglietti che i deportati gettavano dai vagoni , col rischio di essere deportati anche loro. Di casellanti che tenevano chiuse  (o cercavano di tenere) più che potevano le sbarre dei passaggi a livello per aiutare le azioni partigiane. Di maestre che facevano cantare a squarciagola gli alunni per coprire il suono di radio Londra o i rumori del partigiano nascosto in soffitta.  Del professor Caronia che al policlinico di Roma si inventa il “morbo K” (sta per Kesselring, ma i nazisti non lo sanno), una malattia infettiva  a suo dire contagiosissima, per dare rifugio a ebrei e antifascisti.

E tanti, tanti ancora. Dimenticati, sottaciuti, sottovalutati. Eroi magari anche solo per un giorno, che per amore o per odio, non sapendolo neppure, hanno fatto la storia

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Stefania Conti

Giornalista. Nata a Roma e laureata in sociologia, ha lavorato presso (in ordine cronologico): Adnkronos, Il Messaggero, Tg2.

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