Senza cultura non c’è libertà, senza libertà non c’è cultura: era vero ieri, è vero oggi, sarà probabilmente vero anche domani. La questione ha fatto capolino nei talk show televisivi grazie a Carlo Calenda che è andato sostenendo che la crisi da cui non riusciamo ad uscire ha tra le diverse cause una fondamentale arretratezza culturale dovuta anche a politiche per la scuola sbagliate.
La situazione fin qui delineata fa sorgere spontanea una domanda: come il potere pubblico, nelle sue varie e complesse articolazioni, ha dato o cercato di dare una risposta alla crisi?
La diversità dei moduli organizzativi pubblici, della spesa pubblica per la cultura, delle tradizioni nazionali a proposito dei contenuti e delle propensioni per questo o quel modello culturale non consentono di dare una risposta univoca alla domanda, ma solo di formulare alcune considerazioni di carattere generale su quanto accaduto in Europa a partire dalla seconda metà del secolo scorso, quando poté dirsi superata l’emergenza post bellica e si trattò di ricostruire dalle fondamenta quel mondo che la guerra aveva spazzato via, cultura compresa anche se a scuola si continuavano ad imparare a memoria le poesie di Giuseppe Giusti.
Non ci si rese conto (o quanto meno non si comprese adeguatamente) che la società postbellica era alla ricerca di nuovi modelli culturali, abbandonando quelle esperienze di Stato etico e di cultura controllata e guidata in funzione degli interessi della forza politica egemone. I movimenti studenteschi degli anni 60 in Italia, in Francia, in Germania, furono un modo estremistico e violento per costringere i poteri pubblici a guardare alla domanda sociale di cultura e non alla risposta tradizionale a quella domanda. Ci volle tempo affinché fossero chiari i termini veri della questione, che non erano la distruzione iconoclasta dei santuari culturali tradizionali, ma l’assegnazione ad essi di nuove diverse funzioni. In Francia e in Germania i governi riuscirono a ristabilire rapidamente un equilibrio introducendo nel sistema misure correttive che si sono dimostrate in qualche modo utili, anche se non tali da consentire il superamento totale della crisi. In Italia la vicenda si è svolta in modo diverso, anche per la fragilità di un sistema culturale ereditato da uno Stato che proprio della arretratezza culturale dei cittadini profittava per legittimare se stesso.
L’illusione fu che qualcosa di quel sistema potesse essere conservato: ci vollero molti anni prima che la struttura del potere pubblico, la scuola, venisse intesa come servizio reso alla comunità, un nodo ancora non del tutto sciolto come dimostrano le ambivalenze, tra regime di libertà e di autorità delle attuali strutture scolastiche. L’incertezza a questo proposito ha prodotto uno scollamento tra scuola e società, tra cultura e società, tra cultura e cittadino che è stata causa non secondaria dell’arretramento culturale.
Se si guarda fuori del mondo della scuola lo scenario non cambia molto. La maggioranza parlamentare ed un governo preoccupati di erigere un muro contro i cosacchi domestici videro nella formazione delle nuove generazioni lo strumento per l’aggregazione del consenso nel paese alla loro linea politica, lasciando i meno giovani, ritenuti culturalmente e politicamente irrecuperabili, alle altre forze politiche. Cinema, teatro, letteratura, arte divennero campi con grandi macchie di papaveri rossi. Per lo sviluppo di una cultura fertilizzata dalla libertà di spazio ne restò pochissimo: da una parte la triangolazione scuola- parrocchia- industria partecipazione statale con i finanziamenti alla ricerca pura ed applicata intesi come premio per i più politicamente meritevoli, dall’altra la costellazione dei circoli, associazioni, giornali, libri, tutti compatti nell’assegnare alla cultura, intesa secondo modelli di importazione da lontani e freddi paesi, il compito di rivoluzionaria la società con una abilità ed un’intelligenza che si rivelarono molto superiori a quelli della controparte.
Negli ultimi anni la crisi è stata accentuata dal confronto con culture arrivate dall’Africa, dall’Asia da ogni angolo del mondo con le forti correnti migratorie: circa un 10% della popolazione del nostro paese è portatrice di culture diverse, con un DNA che è probabile resista parzialmente anche alla integrazione.
È questa una ragione di più per sottolineare la stretta connessione tra cultura e libertà: solo libertà della cultura rende possibile il necessario dialogo fra culture diverse, uno strumento di arricchimento della personalità individuale e di sviluppo nella pace tra individui del gruppo sociale. Senza cultura non c’è libertà, senza libertà non c’è cultura: era vero ieri, è vero oggi, sarà probabilmente vero anche domani. Burocrazia e cultura sono termini conciliabili solo nei limiti della esistenza di una struttura burocratica essenziale per lo svolgimento di un servizio pubblico: ogni altro suo spazio è causa non secondaria, almeno nel nostro paese, della crisi culturale che viviamo.
Cultura e democrazia sono due facce di una stessa medaglia: la presa di posizione di Calenda e gli attacchi personalistici contro di lui del ministro Salvini (ma puo’ un ministro degli interni attaccare un cittadino del suo paese per le opinioni espresse?) sono indice di quella stessa mentalita’ che porta a punire una professoressa per non avere impedito che, in un libero confronto di idee, qualcuno dei suoi alunni facesse un parallelismo tra il decreto sicurezza e le norme sulla politica della razza: giusta o sbagliata la valutazione, non sarà certo una sanzione per averla espressa a farla modificare.
Aver elevato, come ha fatto e sta facendo Salvini il senso comune (che significa rifiuto del sapere, della cultura, della prospettiva del futuro della società) a buon senso, cioè a regola di comportamento, significa implicitamente dichiarare che chiunque la pensa diversamente e guardi alla cultura come fattore di democrazia sia per ciò stesso “un nemico del popolo”. Oggi è toccato a Calenda, domani potrebbe toccare ad un altro che abbia idee simili. Ormai non c’è alternativa: bisogna con il voto fermare Salvini e i suoi amici e le elezioni di domenica prossima debbono essere lo strumento democratico per farlo.
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