La Finestra sul Cortile

Sardine, evento o partito? Falso dilemma. Per ora conta capacità di aggregazione su valori essenziali

Il carattere un po’ elementare della redazione dei “sei punti” emersi dalla manifestazione delle Sardine a San Giovanni a Roma ha dato vita a posizioni di favore, posizioni di perplessità e posizioni di critica che hanno agitato la rete. Anzi, che hanno anche un po’ spostato il dibattito dal diffuso riconoscimento della novità potenziale verso l’insinuarsi di un rimprovero di minimalismo propositivo, quando non di ambiguità politica.

A caldo avevo fatto un breve post tendenzialmente di favore, riconoscendo un nodo centrale costituito dal tema dell’etica comunicativa piuttosto discontinuo rispetto alle posizioni delle forze politiche in campo.

A sua volta questo primo commentino ha avuto consensi e dissensi.

Sardine in piazza a Roma
Sardine in piazza Duomo Milano
Sardine in piazza a Bologna

La voglia e la paura di pesare nelle urne

Ormai, a proposito di Sardine, pare stia prendendo il sopravvento la voglia – o al contrario la paura –  che questo movimento pesi direttamente sugli equilibri elettorali. Pur riconoscendo, quasi tutti ancora, il suo carattere pre-politico, a pochi è venuto in mente il paragone con il movimento di piazza dei cittadini romeni che in quasi due anni non ha ceduto alla tentazione di partitizzarsi, ha impedito infiltrazioni e manipolazioni, ha protestato compostamente contro la corruzione del governo invocando controllo europeo sulle forzature e le illegittimità governative. Senza “pesarsi” nelle urne, la ha avuta vinta, in fondo anche nelle urne.

Anche per le Sardine è prevalsa infatti finora la forza di “dar voce” a un sentimento civico di plateale critica al potere senza approfittare della notorietà prodotta dalla mediatizzazione degli eventi per fatturare direttamente uno spazio politico. Una dimensione prettamente di civismo. Ottenendo così credibilità nella opinione pubblica circa i contenuti della “critica civica”. Che questo possa portare a qualche “organizzatore di Sardine” l’opportunità in tempo due di continuare a far politica in senso specifico non solo non va escluso ma è anche probabile. Ma il rapporto di quel movimento romeno con la dinamica degli eventi di quel paese rimane esemplare. E finora rappresenta un lecito paragone con il movimento di piazza innescato prima dai giovani bolognesi e rapidamente allargatosi sia geograficamente che generazionalmente. La lettera a Repubblica[1] di quattro loro organizzatori (Andrea Gareffa, Roberto Morotti, Mattia Santori, Giulia Trappoloni) va in questa direzione.  In questa ottica – che potrebbe ovviamente modificarsi a fronte di decisioni diverse – il movimento delle Sardine dovrebbe scegliere soprattutto di mettere chiaramente all’attivo alcuni punti caratterizzanti, che potrebbero essere compromessi da una frettolosa, impreparata e forse persino strumentale rapida trasformazione in soggetto politico schierato competitivamente:

  • avere scelto una condizione di libertà e di indipendenza per dare voce al disagio anti-populista per la qualità della politica che il sistema della politica rappresentata – in parte compromesso, in altra parte afasico – non è riuscito fin qui a contrastare efficacemente (questa la sostanza della lettera a Repubblica);
  • aver contribuito a scuotere astensionismo e incertezza di voto in termini forse decisivi soprattutto nel confronto iper-simbolico – e quindi politicamente strategico – delle ormai imminenti elezioni in Emilia Romagna;
  • aver restituito al centrosinistra in senso lato e non solo come schieramento governativo (il che è molto importante) una anima di piazza attorno a valori etico-costituzionali prioritari che ne fanno un ambito nettamente distinto non tanto dal centro-destra ma dal traino assoluto che pareva irreversibile nelle mani del leghismo salviniano, con i caratteri fascistoidi e razzistici presi di mira proprio dalle Sardine;
  • aver fatto emergere, come questione caratterizzante la protesta, una domanda di etica comunicativa pubblica e politica che – poco importa qui se espressa ancora in forma grezza e magari in alcuni casi imprecisa – ha visto la cosciente presa di posizione di una marea di giovani; cioè qualcosa che non pareva così netta ed evidente; ovvero la presa di distanza dal propagandismo assertivo, violento, manipolatorio che stava assumendo caratteri che apparivano ineludibili, anche perché immaginati tanto a destra quanta a sinistra e finora solo vagamente contrastati da qualche ambito di “tradizione civile” confuso con minoranze pre-digitali, magari anziane e passatiste.

Naturalmente aprire dibattiti e confronti

Poi, con altri registri di dibattito, si potranno discutere (come ho provato inizialmente a fare con un post immediato[2] dopo la lettura fatta da Mattia Santori a piazza San Giovanni a Roma dei “sei punti”) le proposte messe sul tavolo.  Si potrà anche pensare di discutere con loro.  Si potrà così pensare che il confronto faccia evolvere un pensiero che ha fatto leggere in quella prima lista di “pretese” – a volte con sentimenti costruttivi, come Paolo Franchi , Corriere, 19.12.2019, che segnala un movimento giovanile borghese progressista teso alla ri-civilizzazione della politica;  altre volte con una certa malevolenza anche un po’  saccente così mi è parso Ernesto Galli della Loggia, La 7, 18.12.2019, che legge solo confusione, ambiguità e primitività di contenuti – spunti secondo alcuni di utile discontinuità, secondo altri un po’ naïf, secondo altri ancora  autoritari.

Ho fatto sintesi della definizione sociale che fa Paolo Franchi perché penso in fondo che sia proprio nella cosiddetta borghesia progressista, che quando serve (penso al cambio di verso di vent’anni di berlusconismo a Milano con il successo di Giuliano Pisapia), ovvero oggi proprio dai suoi figli, che si possa e si debba esprimere un sentimento di “responsabilità “civica capace prima di tutto di identificarsi con “ciò che non siamo e ciò che non vogliamo”.

Si potrà – una volta avviata una certa discussione –   vedere magari se la felicità civile di trovarsi in tanti a “cambiare il verso dell’opinione pubblica” assumerà altri connotati. Quel sentimento è stato provato da tante generazioni di giovani senza dover necessariamente indossare casacche di partito. Ricordo generazionalmente l’esperienza negli anni ‘60 del “caso Zanzara” in materia di diritti civili e contro le censure; ma potrei anche ricordare tante manifestazioni dappertutto contro le guerre e per i diritti umani fino alla recente ondata mondiale in materia di urgenze ambientaliste.

Ecco, si vedrà se esso dovrà maturare, in tanti o solo in alcuni, come una fase più avanzata di consapevolezza.

Quello che andrebbe ora sottolineato è di smetterla (soprattutto certi media golosi della spettacolarizzazione della politica) ad invocare una “svolta” partitica, ascoltando piuttosto con serietà l’ambito tematico della protesta in corso e valutando, per il peso che essi hanno, gli argomenti prima ricordati.

Se ci sono forze politiche in campo che vogliono dar prova di serietà, cioè che non vogliono fomentare improvvisazione, esse devono dichiararsi caso mai disponibili al dialogo e alla “trasformabilità” in proposte praticabili di ciò che esprimono queste piazze, che nei giorni scorsi il New York Times ha definito “la capacità di promuovere partecipazione politica fondata sul rispetto e contro la retorica in materia di sicurezza e migrazioni”.

La comunicazione politica da bonificare

Da ultimo, riguardo ai punti annunciati in piazza San Giovanni, vorrei dire che eravamo pochi ma non pochissimi a pensarli ma che mai si è riusciti a farli divenire davvero questioni in agenda nel dibattito pubblico. Mi riferisco all’etica pubblica inderogabile per la dignità di svolgimento di un mandato istituzionale.

Mi riferisco alla priorità – per un ministro della Repubblica – di limitarsi alla spiegazione nei canali istituzionali delle politiche perseguite e delle norme proposte.

Mi riferisco al pretendere trasparenza sulle fonti e quindi sulla responsabilità dei contenuti nella polemica politica soprattutto sui socialmedia (ambito – dicono loro – caratterizzato da “solipsismo”).

Mi riferisco anche alla riprovazione nei confronti della violenza verbale che nutre ormai la parte più “in vetrina” della comunicazione politica.

Mi riferisco infine al torbido uso, da parte di istituzioni preposte, dei sondaggi sulla percezione e non delle verità statistiche in materia di sicurezza e migrazioni.

Tradotta forse in linguaggi più precisi è questa la natura principale dei punti delle Sardine. Io ripeto qui la mia condivisione perché in qualche modo l’evoluzione attuale della comunicazione politica va bonificata. 

E se su questi argomenti si vorrà aprire un confronto tra esponenti del movimento e operatori di buona volontà e buon senso del nostro sistema politico per arrivare a punti regolatòri possibili, sarò lieto di tenere aperti gli spazi di dibattito e di confronto universitario nei quali opero.


[1] Noi Sardine e la libertà di non fare un partito (20.12.2019)

[2] Su FB il 15.12.2019.

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Stefano Rolando

Stefano Rolando è nato a Milano nel 1948, dove si è laureato in Scienze Politiche e specializzato alla Scuola di direzione aziendale della Bocconi. Tra vita e lavoro si è da sempre articolato tra Milano e Roma. E' professore universitario, di ruolo dal 2001 all’Università IULM di Milano dopo essere stato dirigente alla Rai e all'Olivetti; direttore generale dell'Istituto Luce, alla Presidenza del Consiglio dei Ministri e del Consiglio Regionale della Lombardia. Insegna Comunicazione pubblica e politica e Public Branding. Ha scritto molti libri sia su media e comunicazione che di storia, politica e questioni identitarie. Da giovanissimo è stato segretario dei giovani repubblicani a Milano, poi ha partecipato al nuovo corso socialista tra anni settanta e ottanta. Poi a lungo non appartenente. Più di recente ha lavorato sul civismo progressista (Milano e Lombardia) e su un progetto politico post-azionista in relazione al quale è parte della direzione nazionale di Più Europa.

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