Classici contemporanei

Ulisse, Dante e Primo Levi

Parlare della Shoah, di Auschwitz e di antisemitismo non è facile, si rischia di essere retorici, scontati, prevedibili, banali. In realtà, invece, parlarne non è mai banale, banale, piuttosto, potrebbe apparire il male, anche quello assoluto, infinito, abnorme, come avverte Hannah Arendt.

È proprio la mancanza di consapevolezza, l’assenza ignorante di percezione, l’indifferenza, la superficialità cieca a generarlo nelle sue forme estreme.

La Shoah richiederebbe una spiegazione, pretenderebbe di conoscere come sia potuta accadere, come mai il cammino dell’umanità si sia potuto arrestare e sia rimasto inceppato per molto tempo nella fornace del Male, di un Male che diventò IMMANE, METAFISICO, che coinvolse tutti, vittime e carnefici, colpevoli e innocenti.

Non esiste una risposta. Averne UNA significherebbe poter disporre di un antidoto.

Purtroppo ad Auschwitz non c’è spiegazione. ” Impossibile comprendere ” dice Levi. Auschwitz è mostruosa proprio perché inspiegabile: l’unica logica che tenga al suo confronto è il non senso, è quella di arrendersi alla sua completa mancanza di senso. È la resa totale della mente e del cuore ed è proprio per questo che diventa una minaccia persistente, un virus endemico che può attaccare sempre e chiunque non sia ben munito di anticorpi efficaci.

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Primo Levi, testimone tragico e vittima a sua volta, nei suoi scritti-documenti, avverte che ciò che è accaduto una volta può accadere di nuovo. Come difendersi allora? In che modo l’umanità può salvarsi dagli orrori di Auschwitz?

Immedesimarsi in quella realtà attraverso la commemorazione, per artificio retorico, è impossibile farlo, anzi è delicato non provarci neppure.

E allora? Levi nella sua opera più famosa “Se questo è un uomo” ci racconta che nel recuperare la memoria del Canto di Ulisse di Dante ritrovò la forza per difendersi dall’annientamento fisico e morale, dalla disumanità in cui era immerso.

“MA MISI ME PER L’ALTO MARE APERTO” perché “CONSIDERATE LA VOSTRA SEMENZA, FATTI NON FOSTE A VIVER COME BRUTI MA PER SEGUIR VIRTUTE E CANOSCENZA” (XXVI canto dell’Inferno)

Ripetere nella mente quei versi significò per Levi ritrovare il senso della vita nel non senso di Auschwitz. L’Inferno di Ulisse, pertanto, servì a salvarlo dall’Inferno umano in cui l’uomo lo aveva condannato. E forse è questo l’antidoto di cui abbiamo bisogno: la “virtute” e “la canoscenza”.

In un tempo in cui la cultura sembra essere un demerito, in cui si fa l’elogio dell’ignoranza e si assiste al dileggio delle competenze, Auschwitz è dietro l’angolo e ci minaccia di nuovo. La storia, per chi la studia, ci insegna che chi “parla male pensa male e agisce male”.

Le parole sono importanti soprattutto se appartengono a cariche istituzionali di grossa responsabilità. La vita e la morte di Auschwitz si gioca su questo se, cioè, la parola debba continuare ad essere espressione di razionalità, di confronto onesto e rispettoso tra posizioni diverse o divenire miccia per accendere focolai di odio e aggressività, se il pensiero debba continuare costantemente ad interrogarsi sul bello e il brutto, sul bene o il male o rinunciare alla sua missione di civiltà perché la destrutturazione culturale è sempre generatrice di pericolose demagogie e di ciniche indifferenze, è sempre la causa prima della disumanizzazione di ogni consorzio umano.

Un popolo ignorante e inconsapevole non ha neppure bisogno di bombe per divenire un pericolo fatale al cammino avventuroso e affascinante del genere umano, è sufficiente che rinunzi alla attività discriminante dell’uomo, quella del pensiero. Ma se è vero come è vero che l’uomo è un “animale sociale ” bisognerebbe che ragionevolmente imparasse a vivere insieme a tutti i livelli, in tutti i luoghi e in tutti i tempi e circostanze.

La storia è tanta, forse troppa e lo spazio è stretto per cui bisogna imparare a rispettarsi, a condividere a riconoscersi e accettarsi per quello che si è, e a negare vita agli odi, alle meschinità, alle bassezze e alla brutalità dell’uomo contro l’altro uomo.

Fuori da questa strada non c’è futuro che si prospetti luminoso. Questa cosa così banale è l’unico antidoto possibile a cui si possa ricorrere oggi come domani, come sempre, per quello che siamo e che saremo e affinché un’altra Shoah ebraica, islamica, rossa o nera sia scongiurata, affinché ciò che è stato sia stato per sempre e una sola volta. MAI PIÙ.

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Antonella Botti

Sono nata a Salerno il 3 Marzo del 1959 ma vivo da sempre a Sessa Cilento, un piccolo paese di circa 1300 anime del Parco Nazionale del Cilento. Ho studiato al Liceo classico “Parmenide” di Vallo della Lucania ed ho conseguito la laurea in Lettere moderne. Sono entrata nella scuola come vincitrice di concorso nel 1987, attualmente insegno Letteratura Italiana e Latino al Liceo Scientifico di Vallo della Lucania. Ho pubblicato due testi di storia locale: "La lapidazione di Santi Stefano" e "Viaggio del tempo nel sogno della memoria". Da qualche mese gestisco un blog, una sorta di necessità interiore che mi porta a reagire al pessimismo della ragione con l’ottimismo della volontà. I tempi sono difficili: non sono possibili "fughe immobili".

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